Numero 43

Getsèmani

di Sonia Aggio

Durante la lettura si consiglia l’ascolto della playlist Getsèmani.

 

“Pagina 94” di Nicola Lonzi

Tre candelieri rischiarano la stanza da bagno. Il vapore si raccoglie sulla superficie dell’acqua e poi sale, in una colonna ambrata, fino al soffitto. Le ancelle sono allineate lungo le pareti, reggendo caraffe d’oro tra le braccia; i servitori stanno accosciati sul pavimento.
Il cappellano è seduto in un angolo e legge il Vangelo con voce monotona.
Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: “Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare”. E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia.
Costantino appoggia le spalle al bordo della vasca e si immerge.
Sott’acqua — acqua intorbidita dagli olii — la voce del prete diventa un borbottio, come una bolla che scoppia. L’uomo pensa al Getsèmani. Un frantoio. Una mano che stritola le olive e ne fa stillare l’olio. Mima il gesto, chiudendo e aprendo le dita dorate. La polvere bianca che si solleva ad ogni passo. Costantino poggia i piedi sul fondo piastrellato.
Quando riemerge, con i polmoni brucianti, la servitù è presa dallo scompiglio: una delle ancelle piange rivolta verso la parete, i servitori hanno volti grigi come cenere, il cappellano si affretta a voltare una pagina afflosciata dall’umidità e ricomincia a leggere. — Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!
L’uomo esce dalla vasca e si avvolge in un telo pulito. Si dirige verso la finestra e un’ancella si fa avanti, ansiosa, con i pugni pieni di mirra, ma lui la allontana. L’idea di essere profumato come Cristo nel sepolcro lo riempie di nausea. Il suo corpo ha uno spasmo, svincolato dalla sua volontà. Soprappensiero, si tasta il petto: lui non ha mani e piedi forati dai chiodi, non ha uno squarcio nel costato; è ancora vivo — ed è ancora imperatore di Costantinopoli.

La città si distende, irregolare nella forma e nelle luci, fino al mare. Le navi beccheggiano nel golfo. L’accampamento ottomano ricopre i terreni fuori dalle mura, rischiarato da decine di fuochi. Costantino chiude gli occhi e ascolta: il brusio che sale lo fa tornare bambino — disteso nella polvere, in un accecante pomeriggio d’estate, con gli insetti ronzanti sul viso —. È il canto di guerra delle nuove api regine, nel ventre oscuro dell’alveare.
Il palazzo — l’ape regnante — invece è silenzioso, un mostro dormiente, e gli uomini si muovono nelle sue viscere come fantasmi. A volte, una porta si chiude di colpo, si sente una voce, risuonano dei passi.
La sua cena è sul tavolo: un’insalata annegata nell’olio; fette di carne secca e lardo, disposte come i petali di un fiore; una coppa di riso mischiato a mandorle, albicocche, miele e uva passa.
Costantino mangia lentamente, con metodo, ma lascia l’insalata nella ciotola. L’olio sulla lingua sembra piombo fuso.

Giorgio è davanti alla porta, armato di tutto punto. — Mio basileus — dice e si inchina, vedendolo comparire. Costantino replica con un cenno — le bande laterali del kamelaukion tintinnano delicatamente.
Montati in sella, spronano i cavalli a uscire dal cortile. Gli zoccoli battono sul selciato — ma il rumore si sente appena: tutte le campane della città hanno preso a suonare, i batacchi schioccano, il metallo vibra.

La strada è invasa dalla folla: la polvere offusca i colori vivaci delle vesti, sul mare di teste si innalzano ostensori, reliquiari, icone dorate. I monaci e i sacerdoti cantano, i soldati lungo le mura si tolgono gli elmi. Giorgio e Costantino faticano a controllare i cavalli; l’andatura ondeggiante della processione li innervosisce.
Il logoteta urta un sacerdote con il piede. Si piega verso di lui per scusarsi, ma il vecchio lo guarda con occhi vuoti. — Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno — mormora. Giorgio si ritrae.

All’interno della basilica, sacerdoti greci e latini confessano, pregano, dicono messa e amministrano l’Eucarestia l’uno accanto all’altro. Le lunghe file di fedeli si incrociano e si intrecciano come fili in un telaio. Mentre avanza lungo la navata centrale, l’imperatore vede donne sollevare i figli e implorare perché siano battezzati e confermati.
Costantino e la sua corte si inchinano ai piedi del patriarca. La mano dell’uomo, nel levarsi, trema violentemente. — Chiedo perdono per tutti i miei peccati, nella speranza che l’infinita saggezza di Dio ci accoglierà tutti nella vita vera — proclama l’imperatore.
Alzando la testa, il suo sguardo vola oltre la testa calva del prelato, verso il soffitto immerso nella penombra; i tasselli d’oro sembrano agitarsi come le scaglie di un pesce, i santi dagli occhi bui sorridono ambigui. — Gli dèi sono felici — mormora Costantino. Non è nella loro natura soffrire per il destino degli uomini, i loro occhi sono rivolti all’indentro, impietosi. L’uomo è sgomento. Inchioda lo sguardo al pavimento, quando il patriarca gli offre pane e vino — il vino è troppo dolce e aspro, il pane spugnoso.
Fa un passo indietro e cerca il busto di Cristo, sotto la cupola, ma la luce non arriva fin lassù: si vedono le lunghe mani, ma il volto è invisibile.
Le ultime frasi si accavallano in una cacofonia di greco e latino, poi gli officianti alzano le braccia, congedano i fedeli, e si allontanano di qualche passo, i libri stretti al petto. Cala il silenzio.
I bambini riposano in braccio ai genitori. Un gruppo di monache è seduto sul pavimento, le donne si sorreggono la fronte con una mano. Gli uomini stanno tornando ai posti di guardia. Giorgio tamburella le dita sull’elmo, impaziente di riprendere il suo posto sulle mura. Costantino dà segno di uscire dalla basilica. I loro passi risuonano sgraziati, pesanti sul pavimento di marmo.
Infastidito dalla sua stessa grettezza, l’imperatore è quasi sulla soglia, quando una voce lo inchioda a terra. Non sembra né voce d’uomo né di donna né di bambino, e non saprebbe dire se canta in greco, in latino o in un’altra lingua sconosciuta, ma la gola gli si serra, il naso e gli occhi cominciano a bruciare; lotta per non scoppiare in singhiozzi. Dietro ai gorgheggi dello sconosciuto si alza un coro di pianti. Voltandosi, Costantino vede una ragazza artigliarsi le guance, gli occhi obesi di lacrime. Un vecchio colpisce il muro con il capo, lasciando una traccia di sangue.
— Andiamo — dice a Giorgio. Escono di corsa e spronano i cavalli lungo le vie, mentre grida stridenti si alzano dalla basilica verso il cielo notturno, trafitto dalle stelle.

— Che ne sarà dei vostri figli, Giorgio? — chiede l’imperatore. Il logoteta gli dà le spalle, con il mantello che garrisce e schiocca nel vento. Passano alcuni secondi.
Giorgio si volta, un pallido sorriso sulle labbra. — Progettavo di portare Giovanni con me in Morea e a Cipro. Avrei voluto mostrargli i luoghi della mia giovinezza… sto invecchiando, e come tutti i vecchi divento nostalgico. Voi ricordate… — la sua voce si affievolisce e si spegne.
— Sì, mi ricordo — risponde l’imperatore, appoggiandosi al parapetto.
I ricordi dei suoi momenti felici sono gialli come il sole: rivede il giovane Giorgio Sfranze, vestito di marrone, sorridente, e lo paragona all’uomo che ha di fronte — un soldato pallido, dai capelli ingrigiti, uno spettro al chiaro di luna.
In un altro scomparto della sua memoria c’è il boato di luce, la folla rutilante sugli spalti dell’ippodromo, nel giorno in cui si presenta a Costantinopoli come imperatore. È un giorno rovente e lui splende come il sole stesso, le mani ingioiellate, la veste e la corona ricoperte di gemme. I cittadini applaudono e gridano forte, gli uccelli spaventati si alzano in volo.
Costantino chiude gli occhi.
All’ombra delle palpebre è marchiata un’ultima scena del passato — il giardino soleggiato, la ragazza vestita di blu che immerge le mani nei grappoli di glicine, grossi e opulenti come coppe di vino, i capelli come fili di rame. Con le mani della memoria la fa voltare e ritrova i suoi occhi chiari, fatti di acqua e oro.
— Tu pensi che la città cadrà domani — afferma Giorgio con voce tremante. Lui non risponde.
Non può sopportare oltre quell’attesa, quella notte, come Cristo nel Getsèmani. Si tasta il torace e ha l’impressione, sotto il pettorale dell’armatura, di essere fradicio di sudore. Per sfuggire all’angoscia, Costantino si volta di nuovo verso l’amico, gli mette le mani sulle spalle e gli confida tutto: rivela la sua paura, chiede perdono per averlo condannato assieme alla sua famiglia, e infine lo ringrazia.
— Ti amo più di un fratello — dice. Il logoteta scuote la testa, farfuglia una risposta e poi lo abbraccia, stringendogli i pugni contro la schiena. L’imperatore distingue solo un: — Costantino —. È la prima volta, in trent’anni di amicizia, che Giorgio osa chiamarlo per nome.
Dopo qualche istante, gli ordina di ispezionare le mura a sud-ovest. L’altro obbedisce, e si allontana fino a scomparire nel buio.

Nel cuore della notte, un puntolino rosso si accende nell’accampamento musulmano. Si sposta in lungo e in largo, e dietro di sé si accendono altri fuochi, finché l’ampia superficie ricoperta dalle tende non splende come una stella.
Tra i soldati serpeggia la voce che sia stato appiccato un incendio, e che l’intero apparato militare di Mehmet stia bruciando. Dalle mura cominciano ad alzarsi grida ed esclamazioni entusiastiche. Il lucore si intensifica, e gli uomini pregustano il momento in cui le fiamme raggiungeranno i depositi di polvere esplosiva. L’accampamento assomiglia alla conca dell’Inferno.
Sono tutti tesi oltre i parapetti, i volti illuminati di arancione, quando gli ottomani cominciano a soffiare nei corni da guerra. Le facce dei greci si raggrinziscono, come se tutti avessero morso lo stesso frutto amaro. Il primo a riscuotersi accende il fuoco di segnalazione e ben presto anche la città è cinta da una corona di fuoco.
Sotto un cielo coperto, comincia l’assalto.
Dopo due ore, il cannone apre la prima breccia, ma l’attacco viene respinto, e le mura riparate. Sul terreno resta un intreccio di musulmani e bizantini, ammucchiati nella morte.
Mehmet fa suonare i tamburi — guidati dalla musica, gli assalitori arrivano ai piedi delle mura, in ondate regolari e ipnotiche. In città, l’imperatore ha l’impressione di ascoltare i flutti che si abbattono sugli scogli.
Vengono rizzate le scale.
Il cielo sopra Costantinopoli si tinge di rosa e poi di bianco. Albeggia, e il ritmo dei tamburi si fa più incalzante, le ondate sono più rapide, gli agganci più precisi. I primi uomini stanno mettendo piede sulle mura; cominciano gli scontri corpo a corpo.
Costantino si sta allontanando dal palazzo, diretto verso il cuore dell’assalto, quando un ragazzino lo raggiunge urlando. I compagni dell’imperatore si voltano, le spade sguainate, ma lui si getta a terra, tenendosi il braccio ferito. — Sono entrati! Hanno aperto la porta! — strilla, sul volto un miscuglio di lacrime, saliva e muco. Costantino impallidisce.
— Dove?! — grida suo cugino Teofilo, facendo un passo avanti.
Il bambino indica il palazzo. L’imperatore gli si inginocchia accanto. — Vai dal logoteta Sfranze, sulle mura a ovest. Digli di venire qui, subito! — gli ordina, scrollandolo per una spalla. Lui annuisce e se ne va di corsa.
Gli uomini tornano verso il palazzo delle Blacherne.
— Dove sono i genovesi? — chiede Teofilo, mentre si avvicinano. Gli spalti sono vuoti, dietro gli edifici si sentono grida in arabo. Costantino sente il cuore battere ferocemente, al punto di fargli girare la testa.
Sono entrati dalla Kerkoporta, un ingresso così piccolo che gli uomini possono passare solo due a due. Non è giusto che a tradirli sia una porta di servizio, un chiavistello dimenticato…
I primi turchi che incontrano sono male armati, sospettosi, e vengono massacrati. L’imperatore passa la spada dentro e fuori dai corpi senza incontrare resistenza — il loro sangue gli schizza sul volto e in bocca, ma non si ferma. Prova l’assurda sensazione di muoversi come un pesce nell’acqua, senza ostacoli, abbandonato alla corrente. Cerca di avvicinarsi alla porta per richiuderla, ma la bombarda di Mehmet fa fuoco in quel momento: una gragnola di polvere e pietre lo ricopre e lo rovescia a terra. Si alzano grida di dolore.
Quando il fumo si dirada, l’imperatore vede i giannizzeri sulla porta: le lame ricurve splendono, i loro volti sono impassibili. Mentre lui è ancora accasciato sulla strada, Teofilo si getta contro di loro con un grido, e gli altri lo seguono.
Costantino si strappa tutto di dosso — gioielli, stemmi, bande porporine: tutto quello che lo identifica come imperatore — e si rialza come un soldato qualunque.
I giannizzeri sono protetti da corazze, non dagli stracci imbottiti degli altri; l’imperatore li affronta, ma se prima si sentiva un pesce nel fiume, ora gli sembra di essere acqua che rimbalza sulle rocce.
I suoi attacchi sono sempre più violenti e scoordinati — rompe la testa a un uomo con l’elsa della spada, e continua a combattere con la mano impiastricciata di capelli e cervella; spinge la punta nella faccia di un altro; squarcia il ventre di un mezzo gigante. A un certo punto, mentre è intento a estrarre la spada, incastrata nella corazza di un ragazzo, un colpo di mazza gli strappa l’elmo dal capo e lo fa cadere in ginocchio. Vede l’ombra di un giannizzero sopra di sé; prova a strappare la spada dal cadavere, ma l’altro lo colpisce — la sciabola penetra tra collo e spalla sinistra, segandogli le ossa.
Tossendo, l’imperatore infila la spada tra le gambe dell’uomo e quello crolla con un gemito.
I musulmani lo aggirano, penetrando nei vicoli. Costantino prova ad alzarsi, ma si affloscia sul posto, come un fiore malato. Non ha la forza di riprendere in mano la spada. Si tocca il petto: le dita, dopo essere scivolate sull’armatura insanguinata, si infilano nello squarcio. L’uomo sente schegge di osso metallo e brandelli di carne galleggiargli dentro, e trattiene un conato. Ritira la mano e osserva gli umori che la ricoprono.
Alle sue spalle, ode le prime grida dei cittadini trucidati — gli stessi versi da animale che ha udito in Santa Sofia. Teofilo viene abbattuto da una lancia mentre gli corre incontro. Gli altri cominciano a cadere — e quando sono a terra vengono smembrati.
Gli apparve allora un angelo dal cielo per confortarlo. Entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra. Costantino ricorda il Vangelo. Alza gli occhi al palazzo delle Blacherne, in cerca di un segno, e le finestre sono come occhi ciechi, piene del sole bianco. Quando riabbassa lo sguardo, vede un giannizzero venirgli incontro: spicca tra tutti quelli che lo circondano, come se le sue vesti fossero più brillanti e il suo viso più limpido. Nell’impeto della corsa solleva la spada.
L’imperatore lancia un grido di rabbia, quando il musulmano lo colpisce e lo getta a terra, ma all’ultimo istante — non riesce più a muovere gli occhi e resta a fissare il cielo mattutino — prova una fitta di sollievo. È finita l’attesa angosciosa del Getsèmani.
Giorgio guarda attraverso la città, fino alla grande massa del palazzo delle Blacherne — le finestre luccicano, bianche e piccole, anche a quella distanza —, con lo stomaco chiuso dalla paura. È stanco: ha cinquantadue anni, per tutta la notte ha ucciso i musulmani che si affacciano tra i merli, e ora le braccia tremano, le spalle sono indolenzite, le mani sono percorse dai crampi.
Appoggiato al parapetto di legno, si asciuga la fronte con l’avambraccio e cerca di riflettere. Ha fatto controllare le mura per cinquanta metri, sia a destra che a sinistra, e i soldati sono tornati dicendo di non aver visto alcun ufficiale. Resta solo lui — se si allontanasse, gli uomini sarebbero allo sbando. Ciò nonostante, deve farlo: deve incontrare Costantino, accordarsi con lui. Risoluto, indossa di nuovo l’elmo e mette una mano sulla spalla del suo vicino, quando i musulmani gridano.
Giorgio e il soldato guardano in basso; la folla ai piedi delle mura si sta disperdendo, gli uomini sciamano a destra, le spade puntate al cielo. Gli uomini che stanno salendo le scale scivolano giù e si accodano ai compagni.
— Hanno aperto una breccia! — sussurra il logoteta. I greci abbassano le armi. — Hanno aperto una breccia! — ripete lui, a voce più alta, e si volta per scendere dal camminamento. In quell’istante, sente un rantolo e vede un soldato barcollare all’indietro, le mani alla gola, e inciampare oltre il parapetto. Due braccia gli serrano il collo.
Il nemico cerca di farlo cadere; il logoteta si getta contro la parete, allunga il collo per respirare e cerca di spezzare la stretta. Cerca di raggiungere la spada, che ha lasciato cadere per la sorpresa, ma l’altro lo tira indietro. Lui continua a tendere il braccio, un alone scuro invade i margini del suo campo visivo. Poi, uno scricchiolio: il parapetto di legno si spezza sotto le spinte — i due restano sospesi nel vuoto per una frazione di secondo, poi si schiantano a terra.

Riapre gli occhi che è sera. Sopra di sé ha un cielo blu e i rami di un grosso ulivo. Muove la mano sulla terra, ne prende una manciata e la lascia scorrere tra le dita — ghiaia e polvere. Stordito, si passa una mano sul volto.
— Sei sveglio — dice una voce. Giorgio si solleva su un gomito. Costantino è seduto per terra, al suo fianco: non indossa l’armatura, ma una tunica scura e sciupata. Il logoteta si guarda attorno — sono in un cortile dalle pareti imbiancate, con torce che effondono una luce incerta. Pian piano, nonostante il dolore che si manifesta a bolle e saette, sente il cuore battere sempre più forte. Torna a guardare l’imperatore, notandone le occhiaie e i capelli spettinati, ma è felice. Sono vivi.
— Cominciavo a temere il peggio — dice, tornando a distendersi, gli occhi rivolti al cielo senza stelle.
— Il peggio è già passato — risponde Costantino, con voce lieta. Giorgio annuisce, sfrega la nuca nella polvere.
La sensazione di benessere è così intensa da fargli affiorare un sorriso sulle labbra. Fa caldo, soffia un vento denso, che profuma di olive e acqua. Sta per unire le mani sullo stomaco, pronto ad accogliere quella pace, quando uno sferragliamento infrange la quiete del giardino. Il logoteta si risolleva su un braccio, perplesso, e vede in lontananza, tra gli alberi contorti, una piccola folla armata di torce, bastoni e spade. Si avvicinano a quattro uomini; dal gruppo più folto si stacca una figura, che avanza da sola. — Rabbì — dice, e Giorgio riesce a sentirlo, e riesce a vederlo mentre si piega a baciare un altro uomo.
Gli si gela il sangue nelle vene.
Si volta lentamente, faticando a trovare le parole. — Mio basileus… — riesce a dire alla fine. Costantino sta guardando tra i rami, il viso disteso. — Sta spuntando la luna — risponde. Giorgio trema. — Basileus… Costantino! — grida. L’imperatore torna a guardarlo con un mezzo sorriso. In quell’istante, la luna appare tra i rami e un bianco accecante invade il cortile. Giorgio si scherma gli occhi con il braccio.

Per prima cosa, vede sua moglie Elena. Il suo viso è ricoperto di graffi, gli occhi verdi sono lucidi ed enormi. — Cosa… — mormora lui; lei gli tappa la bocca. — Non dire niente! Sta’ zitto! — sibila, guardandosi attorno. Nel suo campo visivo — una striscia di cielo rosa, una nuvola bianca — entra anche sua figlia Tamara.
— I gambali — dice Elena, e il volto pallido della ragazza scompare.
Giorgio continua a guardare in alto — il dolore, che nel sogno andava e veniva, ora lo riempie, lo ricopre — e comincia a ricordare. Le mura, il turco che gli stringe le braccia al collo. Vorrebbe chiedere chiarimenti, ma ha troppa paura. Sente le donne affannarsi sul suo corpo; ogni tanto Elena gli accarezza la fronte.
— Qui ce n’è uno!
Tutto d’un tratto, viene sollevato per un braccio. Due giannizzeri lo tengono in piedi e lo trascinano tra la folla, incuranti dei suoi gemiti e del suo tremore. Elena e Tamara restano indietro. La gente — soprattutto donne e bambini — si sposta al suo passaggio. Alla fine, quando lo lasciano cadere a terra, Giorgio è sul punto di vomitare.
— Ah, questo può esserci d’aiuto — dice un uomo, la voce graffiante. Il logoteta, impegnato a non finire con la faccia nella polvere, alza la testa — e dimentica le fitte e i sudori freddi, perché davanti a lui c’è Mehmet in persona. Il ragazzo indossa un’armatura intarsiata d’oro e un turbante candido, la spada è appesa al fianco. Lo scruta dalla testa ai piedi con gli occhi neri, duri come pietre, accarezzandosi la barba appuntita.
— Finalmente ti ho trovato — dice alla fine. Parla in greco, ma con la cadenza aspra del turco.
Giorgio abbassa lo sguardo, immaginando gli altri generali bizantini inseguiti nei vicoli e passati a fil di spada. Ecco perché sua moglie e sua figlia stavano tentando di togliergli l’armatura. Si aspetta che da un momento all’altro un giannizzero lo decapiti, ma nessuno si muove. Dopo un po’, il sultano fa un cenno.
Arrivano quattro uomini con un catafalco sulle spalle e lo depositano sulla piattaforma di pietra da cui il ragazzo domina la folla. Giorgio rimane immobile, ancora confuso. Gli uomini si fanno da parte. Mehmet gli fa cenno di avvicinarsi, un sorriso da rapace sul volto, e si china. Il logoteta prende fiato e, mordendosi il labbro inferiore, si rimette in piedi e traballa fino alla piattaforma. Il sultano lo aspetta, poi il ghigno si ripresenta, mentre getta via il sudario.
Giorgio guarda giù: una testa dai capelli ricci, occhi socchiusi, uno squarcio accanto al collo.
Mehmet si alza. — È lui? È il tuo imperatore?

Lui non risponde. Per qualche secondo, il suo unico desiderio è rimanere in piedi; la vista gli si oscura tre volte. Deve scuotere un poco la testa per riprendere il controllo — ciò nonostante, ha la faccia in fiamme, il corpo ricoperto di sudore, le gambe deboli. Un coltello invisibile gli rimescola le viscere.
Mehmet batte il piede a terra.
— Rispondimi! È lui?! — grida. Giorgio alza la testa e la scuote debolmente.
— No? — replica il sultano, con una sfumatura di sorpresa nella voce. I due si fissano, poi il ragazzo si lascia andare a una risatina. — Fatelo alzare! — grida ai giannizzeri. In un attimo, issano un patibolo improvvisato e appendono il corpo di Costantino.
Dalla folla bizantina si alza un grido, poi scende un silenzio perfetto.
Mehmet si fa avanti. — Parlate! È il vostro imperatore questo? È lui? Rispondete!
Costantino indossa solo una tunica nera e i calzari color porpora degli imperatori; gli occhi sbiaditi guardano in basso; lo squarcio a lato del collo si è aperto, è un triangolo attraverso cui si vede il cielo blu-viola. Giorgio crolla: prova ad aggrapparsi alla piattaforma, lasciando una striscia di sangue, ma cade sul fianco, rivolto verso i prigionieri. Tutta la prima fila è immobile, gli occhi fissi oltre Mehmet. Nessuno risponde al sultano, che urla sempre più forte. Una giovane piange silenziosamente.
— Non è lui! Io lo so! — grida il logoteta. Mehmet tace. Giorgio lo sente scendere dalla piattaforma. Un attimo dopo, il viso giovane e arcigno del sultano è davanti al suo. — Tu lo sai? — domanda mellifluo.
— Sì! Io sono Giorgio Sfranze, suo logoteta e protovestiario! Conosco il basileus da quando eravamo ragazzi, e so che quello non è Costantino! — ringhia, tutto proteso in avanti. Si aspetta che Mehmet lo faccia uccidere — dopotutto è uno degli uomini più influenti della corte —, invece il ragazzo si mette a ridere.
— Se lo dice il logoteta Giorgio Sfranze, dovremo crederci! — esclama ai suoi giannizzeri, sarcastico. Si rivolge a lui: — Il tuo riscatto mi farà arricchire ancora di più. Per quanto riguarda il cadavere, lasciatelo lì. Ci penseranno gli uccelli.
Elena gli corre incontro non appena Mehmet e le sue guardie se ne sono andate. Implora altre donne di aiutarla a trasportare il marito su uno dei pagliericci messi a disposizione per i feriti; in cinque — una per arto, più sua moglie che gli sorregge la testa — lo allontanano dalla piattaforma. Giorgio si gira un’ultima volta: sul terreno resta una macchia di sangue, il corpo di Costantino ondeggia, appeso alla corda.
Sa che nessuno oserà tirarlo giù e dargli sepoltura. Il pensiero lo fa gridare a squarciagola, finché la voce non gli muore in un rantolo. Sua moglie gli accarezza tutto il viso, mentre un vecchio gli lega le braccia e le gambe. In tre lo tengono a terra, mentre l’uomo gli storce la spalla con uno schiocco orrendo. La febbre si mescola al fuoco nelle ossa e all’ultima immagine che conserva di Costantino — la luna che sorge e sale dietro il suo corpo, tra le colonne di fumo, ammiccando come un bianco occhio osceno attraverso la sua ferita. Ricorda anche le parole del suo sogno: — Sta spuntando la luna —. Se non avesse le braccia steccate contro il corpo, si strapperebbe palpebre e guance a unghiate per dimenticarlo; non potendo, ricomincia a gridare.

Mehmet lascia partire lui ed Elena dopo un mese, ma tiene con sé Giovanni e Tamara — i loro figli. Il logoteta è ancora infermo, inchiodato al letto dagli arti fratturati. La prima parte della sua convalescenza è trascorsa su un pagliereccio muffito, con la sola vista di piedi sporchi; la seconda si trascina — tra febbre e attacchi dolorosi — in un letto, con un cuscino di piume d’oca dietro la schiena e l’olezzo dei medicinali nell’aria.
Sua moglie viene nella sua stanza a riposare; gli tiene la mano per ore. Lui entra ed esce dal sonno: quando la febbre si abbassa, porta con sé incubi — turchi bifronte che pigiano olive, voli infiniti, impiccati che dondolano —; quando la febbre si alza, l’uomo cade in un sonno senza sogni.
In un giorno piovoso, nei primi giorni di Novembre, un uomo bussa alla porta della sua stanza. Giorgio lo scruta: ha il viso segnato, le vesti sgualcite e impolverate. Deve essere appena tornato da un viaggio.
— Signore — dice inginocchiandosi. Giorgio si siede dritto. L’uomo si rialza e si avvicina al letto, la testa bassa, e lì rimane, senza proferire parola. — Devi dirmi qualcosa? — mormora il logoteta. Si sente vecchio, ed è disgustato da se stesso. Il messaggero inspira a fondo.
— Il sultano Mehmet ha ordinato di prendere una ventina di ragazzi tra i prigionieri…
Lui vede la piazza spazzata dal vento e dalla pioggia. I ragazzi spinti dai soldati. Giovanni, gli occhi verdi, il naso sottile e aquilino, i capelli biondi infradiciati dalla pioggia. I giannizzeri in fila. Le spade sguainate, le gocce che cadono dalla punta della lama. Mehmet, riparato da una tenda, i baffetti increspati dalla malignità. Il sangue che scorre con la pioggia.
Elena arriva barcollando, in lacrime, e si lascia cadere sulle sue gambe. Lui le accarezza i capelli e le chiede scusa. Sua moglie piange finché non cala la sera — allora si addormenta sulla coperta. Giorgio le copre le spalle con uno scialle e si appisola a sua volta.

L’uomo fa chiamare un cappellano e gli chiede di leggergli il libro di Qoèlet.
Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole? Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge e il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà. Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna. Tutti i fiumi vanno al mare, eppure il mare non è mai pieno: raggiunta la loro mèta, i fiumi riprendono la loro marcia. Tutte le cose sono in travaglio e nessuno potrebbe spiegarne il motivo. Non si sazia l’occhio di guardare né mai l’orecchio è sazio di udire. Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto. Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito.

Giorgio zoppica nel giardino, sotto un pergolato di vite — le foglie gialle e accartocciate cominciano a cadere, qua e là sbuca un grappolo troppo maturo. Tamara muore in autunno, sfibrata da una febbre nell’harem di Mehmet. Assieme a lei si spengono altre cinque giovani.
Lui entra al servizio di Tommaso Paleologo, di cui ricorda i ricci biondi di bambino; i turchi incalzano, la corte abbandona la Morea e ripara in Italia, nelle ville del papa. Mentre gira per il paese, il logoteta si appassiona alle rappresentazioni del dolore — san Giovanni piangente sotto la Croce, una vecchia Maddalena ricoperta di capelli ispidi. Le sue ferite guariscono, ma il piede sinistro resta storto, le mani grosse e deformi; quando piove, le costole rotte si incendiano, mozzandogli il respiro. Non ha bisogno di prendere in mano la spada per capire che non è più un soldato.
Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la stessa. Tommaso Paleologo muore, sul trono di Costantino sale suo figlio Andrea. Le teste coronate si susseguono come raggi di una ruota d’oro. Solo lui resta fermo, sempre più vecchio e dolorante, dita deformate dall’artrite.
— Quanto tempo, Signore, prima che tu mi faccia morire? — supplica.
Il suo sogno di incontrare di nuovo Mehmet e di ucciderlo svanisce. Non c’è giustizia nel suo dolore, pensa: gli amici di una vita, il sovrano che ha giurato di proteggere, i suoi figli; tutte le loro morti pesano sulle sue spalle. Mentre l’imperatore in esilio discorre con il papa, lui resta seduto all’ombra di un’edicola, lo sguardo che spazia su una vallata brulla, macchiata di sterpaglie dorate.
Sulla parete è raffigurato il Getsèmani: Gesù Cristo è piccolo quanto il suo palmo, ricoperto di gocce di sangue. Mani e piedi nella polvere, odore di olio, sale nel vino. In un angolo c’è una luna piccola quanto una moneta. Andrea esce, schermandosi gli occhi con la mano, e lo chiama. Giorgio afferra il bastone e lo raggiunge, nel mezzogiorno afoso.


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