Numero 42

Gerome Satin  o Il senso della vita

  di Beatrice D’Anna

 

“Macchie #7” di Nicola Lonzi

Era un appartamento piccolo, quasi angusto, assortito di ogni tipo di cianfrusaglia che una persona qualunque avrebbe buttato da anni: giornali datati e ingialliti dal tempo, gingilli e stoffe provenienti da chissà dove, che a uno sconosciuto avrebbero potuto sembrare souvenirs del mondo comprati e poi dimenticati da una vecchia signora, più paia di tende sulla stessa finestra, le cui estremità ricadevano pesanti sul pavimento, e che ostruivano la timida luce solare, rendendo il luogo più chiuso e asfissiante di quanto non fosse. Era al terzo piano di un palazzo antico, situato in una stretta via delle periferie, chiusa ai due lati da alti casermoni e accessibile solo da una parte, e a piedi, perché le auto non ci sarebbero passate. Se un viandante si fosse imbattuto in quella strada, forse perché a causa del caldo estivo era alla ricerca di un po’ d’ombra – e, stretta com’era, quella via senz’altro la offriva – e avesse preso a camminare fra l’uno e l’altro palazzone, prima o poi si sarebbe trovato davanti un muro, e un cartello, presente qui ma non all’ingresso, che diceva: “strada chiusa”. Sarebbe tornato indietro, forse un po’ deluso, o forse sarebbe rimasto ancora un attimo, a sedere accanto al cassonetto della spazzatura – perché, sicuro, panchine non ce n’erano – a godersi, insieme alla puzza, un poco d’ombra ancora. Non c’era nient’altro in quella strada, niente di cui valesse la pena prender nota, ma proprio lì abitava Gerome Satin.

Era nato a Milano da genitori francesi con una strana fissazione per la frenetica città: “se la prima aria che respirerà sarà milanese”, diceva sua madre, “allora assumerà un po’ della nobiltà e del fascino che questa città possiede”. Di Gerome Satin si poteva dire tutto, ma non che fosse affascinante. Era stato un ragazzo in gamba, studioso diligente, e aveva lavorato per qualche anno come commesso in un supermercato, col cui stipendio era riuscito a comprarsi quell’appartamento al terzo piano in una via qualunque delle periferie. Era quanto di più normale potesse esistere: educato con i clienti, paziente e silenzioso, nessuno lo conosceva davvero, e a lui non sembrava importare. La vita procedeva tranquilla in Gerome Satin, nella sua colazione alle sette in punto, la passeggiata col cane, il cappello di feltro e le scarpe di marca; era tranquillo nell’aprire cassa, dire “buongiorno” e “buonasera” a chi incontrava, passare i prodotti sul nastro trasportatore, sentire il “bip” del loro prezzo riconosciuto e tornare a casa. Nessuno sapeva se il suo lavoro lo appagasse, se avesse mai nutrito un sogno o se si accontentasse di fare il cassiere fino alla fine dei suoi giorni. Probabilmente, non lo sapeva neanche lui.

Le cose erano cambiate un giorno.

“Due confezioni di uova, una di fragole, una bottiglia di latte scremato, un pacco di farina zero zero, due sacchetti di zucchero e uno di zucchero a velo” disse, ricontrollando i prodotti sullo schermo della cassa, “sono quindici euro, signore”. Un uomo alto e calvo, sulla cinquantina, si mise a frugare nel borsello che portava a tracolla, alla ricerca dei soldi per pagare. Gerome Satin attese. “Mi scusi, ho un po’ di confusione qui dentro, arrivo subito” gli disse quello, con una mano ancora immersa e l’altra che teneva la borsa da sotto, vicina alla faccia. “Non si preoccupi, ho pazienza” rispose il cassiere, guardando se ci fosse fila. Era come se l’universo intero si fosse messo d’accordo perché qualcosa dovesse trasformarsi in Gerome Satin, perché quell’incontro potesse avvenire senza fastidi. Dunque, straordinariamente, non c’era fila.

“Oh, è una virtù” disse quello, quasi senza farci caso. “Come, scusi?”

“Dicevo: è una virtù. La pazienza, intendo.”

“Ah. E come fa a dirlo?” chiese con stupore sincero.

L’uomo lo guardò, con in mano il portafogli finalmente rinvenuto, come se fosse una domanda strana, e pensò allora di star parlando con una persona strana. “Come faccio a dire che la pazienza è una virtù?” chiese a sua volta, come per essere sicuro.

“Esatto” rispose Gerome Satin.

“Beh, per me lo è perché mi serve”

“A fare cosa?”

“A fare il cuoco. Ho scoperto che quando impasto con pazienza le cose mi vengono meglio, e mi diverte persino” e gli porse i quindici euro della spesa. Gerome Satin li prese e li infilò in cassa, picchiettando forte con le dita affusolate per far uscire lo scontrino, ma la sua mente vagava. “Fa il cuoco? E si diverte?” domandò curiosamente.

“Faccio il cuoco e mi diverto, ragazzo” e lo chiamò ragazzo anche se aveva già trent’anni.

“E come?”

“Ho trovato ciò che mi rende felice, che io chiamo superbamente il mio senso nel mondo. Ciò per cui sono nato, capisci?” disse quello, con enfasi.

“È fare il cuoco?” chiese Gerome Satin.

“È fare il cuoco” rispose il cuoco, e dopo una pausa: “Sembrerà stupido, ma sono felice. Da quando so che questo è il mio senso, io sono felice”. Gli sorrise, salutò e lo lasciò ai suoi pensieri.

Gerome Satin si licenziò dal supermercato e da allora in poi cercò il suo senso nel mondo.

Iniziò in modo semplice, all’inizio, come se non avesse capito esattamente di cosa si trattasse: cercava un senso nelle cose piccole, dando loro uno spazio immenso e concedendogli tutto il significato della propria esistenza. Era sempre stato appassionato di modellini d’auto, e allora, per prima cosa, ne divenne collezionatore; diceva: “Il mio senso nel mondo è collezionare automobiline”, ma presto se ne stancò. Fu allora la volta dei giornali: “Il mio senso nel mondo è ricordare gli eventi”, e iniziò a leggere e studiare gli avvenimenti della sua città giorno per giorno, come una sorta di memoria ambulante, focalizzando tutte le sue energie in quell’attività. Prima o poi, diceva, sarebbe riuscito a ricordare anche i fatti esteri. Per un certo periodo, era anche riuscito a vivere di questo: un’azienda lo aveva contattato come archivista storico dei suoi documenti, e lì si era distinto durante qualche riunione, citando eventi passati che avevano avuto un apporto significativo all’esito dell’assemblea. Credeva davvero di aver trovato il suo senso, ma qualche anno dopo si rese conto che ciò che aveva imparato all’origine era scomparso, perché la memoria a breve termine aveva fatto il suo corso. Così, cambiò mestiere ancora una volta. Divenne viaggiatore e raccoglitore di cimeli, perché “Il mio senso è vedere il mondo e raccontarlo”, diceva; divenne scrittore e plurilaureato, perché “Il mio senso è parlare coltamente”, era sicuro. Chi lo vedeva dall’esterno avrebbe detto che fosse un’anima affannata alla ricerca di qualcosa, sempre in movimento e mai sazia di ciò che si trovava davanti. Come se la vita non fosse stata in grado di dargli abbastanza; come se dovesse esserci per forza qualcosa di più destinato a lui. Insomma, se era venuto al mondo, proprio lui, Gerome Satin, doveva essere per un gran motivo, per un compito straordinario. Perché nessuno si accontenta di uno scopo qualunque, e nessuno, sapendolo, vuole essere come tutti gli altri. Gerome Satin soprattutto. La sua angusta dimora era diventata un magazzino delle esperienze che aveva raccolto, e il cane l’aveva regalato a una zia, perché non c’era più il tempo, indaffarato com’era, di prendersene cura. Viveva nell’infantile certezza di poter trovare un senso da solo. E non lo trovava.

Se un passante lo avesse incontrato, adesso, e magari avesse sentito parlare del cassiere del supermercato, dedito a una vita di routine e silenziosamente sazio di ciò che faceva, non avrebbe mai detto che si trattasse dello stesso Gerome Satin, e che quell’appartamento al terzo piano, nella via fiancheggiata da casermoni su entrambi i lati, pieno zeppo di cianfrusaglie e buio come se nessuno ci abitasse davvero, fosse in realtà casa sua. L’avrebbe creduto l’ospizio di una vecchia signora, forse stanca della vita e della luce solare, forse a causa di una malattia agli occhi che avanzava, chiusa fra i ricordi della sua esistenza fino ad allora. Cosa diavolo se ne faceva, Gerome Satin, di due tende su una sola finestra, avrebbe detto. Quale impulso innaturale, contrario alla sua indole paziente, lo aveva spinto a muoversi in lungo e in largo alla ricerca di chissà cosa? Se gli avessero risposto: “un cuoco”, non ci avrebbe creduto.

Con il freddo, i senzatetto approfittavano del vicolo cieco nella strada fra i due casermoni che, come d’estate riparava dal sole, d’inverno riparava dal vento. Il fetore proveniente da quell’angolo era diventato in quei giorni così tremendo che tutti gli inquilini cercavano altrove un cassonetto dove buttare la spazzatura, pur di non avvicinarsi. Tutti, tranne Gerome Satin. Preso com’era dalla sua affannosa ricerca, non aveva il tempo di trovare un altro posto, per quanto la puzza di quel luogo lo disturbasse e, ormai, per ogni azione che compiesse, si diceva fra sé e sé: “Forse è questo il mio senso”, restare l’unico inquilino a buttare lì la spazzatura. Quel giorno, non si accorse che qualcuno dormiva proprio appoggiato al cassonetto, ed accidentalmente lo colpì con un piede. Fece un balzo indietro, mentre quello si destò di scatto, spaventato. Aveva fretta, doveva andare, ma non poteva non fermarsi a chiedere se andasse tutto bene.

“Mi scusi, non l’ho fatto apposta” disse sommessamente, buttando rapidamente i rifiuti e indietreggiando di qualche passo, pronto a voltarsi dall’altro lato e tornare alle sue cose più importanti. Il barbone lo guardò pacatamente, in un modo così calmo e sereno e quasi dolce che gli sembrò che perfino quello, in questo mondo infinito di cui cercava la ragione, fosse più appagato di quanto non si sentisse lui stesso. Si sentì improvvisamente fragile, di fronte a quello sguardo, come indagato. Era arrivato a qualcosa in questa vita, Gerome Satin? Sembrava che perfino il barbone glielo stesse chiedendo, e temette così che, quando fece per aprir bocca, fossero proprio quelle le parole che avrebbe sentito pronunciare.

“Ho fame” gli disse, con un filo di voce, impastata dal freddo.

Gerome Satin non capì.

“Ho fame” disse a voce più alta, con fatica.

Non sapeva cosa avrebbe dovuto fare, aveva tanto da cercare ancora, ma restò lì, inchiodato a domandarsi quale fosse il senso di ciò che stava vivendo. C’era un uomo davanti a lui, che dormiva appoggiato a un cassonetto, in una strada fiancheggiata da due casermoni a coprire dal freddo, che gli chiedeva del cibo, ma se era vero che ognuno ha senso nel mondo, qual era quello di chi gli stava davanti?

Gerome Satin aveva una virtù, di cui aveva negato ogni aspetto per anni di peregrinazioni alla ricerca di qualcosa, ma che rispuntò tutta, all’improvviso, in quel momento. Si sedette accanto all’uomo, gli porse uno snack che teneva in tasca e gli chiese chi fosse. Era stato un attore.

“E’ una lunga storia, ragazzo” gli disse, e quel dirgli ragazzo lo fece tornare a una vecchia conversazione nel supermercato, quando un uomo qualunque, che faceva il cuoco, lo aveva chiamato così. Eppure aveva quarant’anni, ormai.

“Non importa, ho pazienza” gli rispose Gerome Satin.

Fu allora che capì il suo senso nel mondo. Lo aveva cercato a lungo, errando, lo aveva rincorso come uno scopo inafferrabile e astratto, come qualcosa di ignoto, che sembrava sfuggirgli di continuo. Eppure era lì, e lo era sempre stato. Si era ostinato a cercare qualcosa che desse un indirizzo a tutta la sua vita, si era costruito degli schemi mentali per cui tutto avrebbe dovuto ricollegarsi a ciò che pensava di dover essere, ma aveva dimenticato ciò che era davvero. Gerome Satin era un uomo paziente, e forse era sempre stato quello il senso della vita, per lui.

Se un passante avesse visto Gerome Satin in quel momento, avrebbe riconosciuto una persona tranquilla: dopo i molti anni di frenesia, avrebbe apprezzato il fatto che finalmente si fosse fermato, e che fosse proprio quello il suo senso? Sarebbe pure sembrato banale o strano, ma era pur sempre un motivo per stare al mondo. Perché tutti hanno bisogno di un senso, fosse anche cambiare la vita di un uomo soltanto, fermarsi a parlare come quel cuoco aveva fatto con lui e come lui ora faceva con il senzatetto. Gerome Satin aveva cercato fuori di sé ciò che aveva già dentro: se pure a una persona qualunque arrestarsi un attimo sarebbe parso uno spreco di tempo, questa era la cosa straordinaria in lui: per lui non lo era, perché aveva pazienza. Perché di Gerome Satin si potevano dire molte cose, ma non che non avesse pazienza.

Tornò al suo lavoro al supermercato, e si stupì nel ritrovarsi tranquillo nell’aprire cassa, dire “buongiorno” e “buonasera” a chi incontrava, passare i prodotti sul nastro trasportatore, sentire il “bip” del loro prezzo riconosciuto e tornare a casa. Forse non per sempre, ma almeno per il momento, Gerome Satin aveva scoperto il senso della sua vita, la sua ragione nel mondo.


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