Numero 42

La settimana bianca

di Simone Bachechi

“Iceland #13” di SaverioPhoto

Partimmo poco prima dell’alba. Papà iniziò a caricare l’auto che era ancora buio pesto. Tutti i nostri vicini dormivano ancora e pensare a loro che se ne sarebbero rimasti rintanati nelle loro case mentre noi stavamo per partire sfrecciando nelle strade deserte della città fino all’ingresso dell’autostrada, mi dava la stessa eccitazione di sempre. Si sarebbero svegliati quando il sole sarebbe già stato alto in cielo e tutto questo mi parve volgare e degno della mia pena nei loro confronti. Avrebbero trascorso anche quel giorno in città, svegliandosi quando noi ci saremmo già trovati sulle piste a quattrocento chilometri di distanza, respirando non più quella mefitica aria, ma circondati da un paesaggio che non aveva niente a che fare con quello loro squallida quotidianità. Mi tenevo queste chicche per il momento in cui salivo in auto e quando papà aveva già agganciato gli sci sul tetto, quando il bagagliaio era già chiuso ed eravamo pronti a partire. Che Domitilla dormisse pure, mi sarebbe bastato che non mi si rannicchiasse addosso come le altre volte. Stava cominciando a crescere anche lei del resto e non è che mamma le poteva permettere di fare come le pareva per l’eternità anche se aveva sei anni meno di me. Ci fermavamo sempre a fare colazione poco dopo Verona, una bella tirata, perché papà diceva che dovevamo fare il grosso del viaggio quando ancora l’autostrada sarebbe stata  libera dai camion, così mamma sarebbe stata più tranquilla. Doveva essere lo stesso autogrill ora che ci penso. Lui scese tutto ballonzolante, ordinò per tutti cappuccini e brioches, qualche schifezza per Domitilla che agguantò come un fagotto facendole fare il gioco dell’aeroplano e con la velocità di un pit stop di formula uno avevamo fatto colazione e saremmo stati pronti a dare il via non più di un’ora e mezza dopo alla nostra settimana bianca.

    Quella volta arrivammo all’albergo quasi all’ora di pranzo. Trovammo una lunga coda in autostrada. Papà disse che si doveva essere rovesciato un camion che portava del materiale combustibile e così ci deviarono su una provinciale scassata che ci fece ritardare di quasi tre ore sull’orario previsto di arrivo. Ci accolse un facchino vestito tirolese di tutto punto, alto come un granatiere e con i baffi a uncino. Prese i nostri bagagli di fronte all’ingresso. Papà, ci disse di andare nella hall mentre lui avrebbe parcheggiato l’auto nel garage coperto. C’era un bel caldo nel salone e odore di cioccolata e cannella. La mamma tolse le galosce a Domitilla, le sfilò il plaid che le si era accartocciato addosso perché si era svegliata appena e disse alla ragazza della reception che sembrava la matriarca di una colonia Walser, che stavamo attendendo papà per la registrazione. Non vedevo l’ora che sbrigassimo quelle noiose formalità per potermi catapultare sulle piste. A papà glielo avevo detto che quella volta avrei fatto la nera con lui. Lui aveva sempre glissato, ma sapeva che mi avrebbe dovuto portare con sé. Io non ci sarei rimasta sui campi scuola con Domitilla e tutti quei vecchi maestri imbolsiti.

     Salimmo alle camere attraversando un lungo corridoio di legno, tutto l’albergo era di legno, in vero stile da baita alpina. I nostri passi svelti sulle assi del pavimento rimbombavano sordi mentre mamma continuava a dire a me e Domitilla di fare piano, benché io ci tenessi a farle presente che erano le una meno un quarto post-meridiane  e non le due di notte, nonostante quegli oscuri cunicoli tappezzati a fiori. Una fioca luce baluginava da finte lampade a olio appese alle pareti coperte solo parzialmente da dei copri lume a forma di cervo.

     Le nostre erano camere comunicanti e si trovavano a un piano intermedio, nel cuore dell’albergo e con finestre che gettavano uno sguardo a trecentosessanta gradi sulla vallata che si distendeva morbida davanti ai nostri occhi come una torta di marzapane. Iniziò a nevicare mentre cominciammo a disfare le valigie e siccome papà stava temporeggiando con delle cartine degli impianti, cominciai a incalzarlo perché andasse a prendere gli skipass. Lui sparì lungo le scale con il suo solito passo felpato. Il mio papà è un uomo robusto e tutto centrato verso il basso che sembra una statua di ghisa a forma di forno. Per prenderlo in giro gli dico che sembra un giocatore di hockey, il mio preferito e me lo sbaciucchio tutto. Quando lui è intorno so che non potrà mai accaderci niente di brutto. Mamma disse a me e Domitilla di disfare le valigie e di non litigare. Disse a me in particolare di non fare la solita “stronzetta di un diavoletto dispettoso” e di cercare di fare la “bambina adulta” con Domitilla, una cosa un po’ contraddittoria pensai, mentre la vidi dalla porta comunicante entrare in bagno e ingurgitare delle pasticche china sul lavandino. Papà intanto non si vedeva e mamma cominciò a essere irrequieta. Cominciò a chiamare la reception anche se erano passati solo pochi minuti da quando era sceso. Iniziò a vaneggiare sulle più cruente disgrazie gli potessero essere capitate. Le dissero che non avevano visto il signor “Bramozi” e che poteva provare a chiamare la SPA al numero 899 scusandosi e dicendo in un affettato accento sudtirolese che dovevano riagganciare. “Tramosi…Tramosi si chiama” urlò la mamma nel ricevitore ormai muto e visibilmente sempre più agitata, prima di riagganciare anche lei furiosa e catapultarsi fuori dalla camera già in tenuta da notte. Io le corsi dietro abbattendo un carrello delle pulizie che qualche cameriera distratta aveva lasciato in mezzo. Dal sacco nero fuoriuscì una grumosa pasta gialla che si appiccicò come resina al pavimento impantanandomi lì in mezzo al corridoio in penombra. Mi sembrò di intravedere in quel blob delle creature vermicolari con le antenne e degli occhi rossi fosforescenti che mi guardavano. Un odore avvolgente di uova marce si stava diffondendo tutto intorno. Non c’era alcuna cameriera e nessuno del personale di servizio al quale potessi far presente il casino che avevo combinato. Nessuno in giro, eppure oltre le pareti, nelle camere, si intuivano le presenze dei clienti dell’albergo, come se fossero occupate in quel momento nonostante fosse l’ora centrale della giornata, quando tutti in teoria avrebbero dovuto trovarsi sulle piste perfettamente spianate. Cercai di non perdere di vista mamma in fondo al corridoio e la vidi iniziare a aprire le porte dalle quali uscivano gli occupanti tutti mezzi trafelati e ballanzoni con gli occhi straniti e minacciosi. Sono convinta che la sua idea fosse che papà si fosse rintanato in una di quelle stanze e che magari stesse facendo l’amore con un capro come in un film di Kubrick. Non ci misi molto a realizzare che quelle creature fossero dei mostri.

     I mostri erano presenti in ogni stanza dove la mamma andava, da ambo i lati del corridoio, oltre tutte le porte che lei apriva e si contaminavano a vicenda con la sola forza dello sguardo. Quello che mamma faceva aprendo tutte le porte era di creare questa grande pandemia. Continuò frenetica in cerca di papà e ne incontrava sempre di nuovi che uscivano con passo meccanico e che con il solo sguardo trasformavano automaticamente in mostro chiunque incontrassero di fronte a loro come in un vecchio film di zombies. Tutto era invece reale e il contagio fu rapido e massivo, mentre mamma invece sembrava essere immune ai loro occhi da invasati.

     Dovevo riuscire a liberarmi da quella massa gelatinosa che mi aveva incollato lì in mezzo. Ce la feci in qualche modo divincolandomi come una forsennata e alzando le ginocchia fino all’altezza delle scapole con quella roba giallastra e filamentosa che creava delle liane inestricabili fra la suola dei miei moon boot e le assi del pavimento. Riuscii a fatica ad arrivare alla porta della nostra camera sprangando dentro Domitilla. Le dissi di non muoversi per nessuna ragione e la sentii frinire a squarciagola come un cavallo scuoiato. Con il mio passo appiccicoso seguivo la mamma lungo quelle gallerie in penombra che dovevano essere i corridoi di un albergo di montagna. Mi nascondevo dietro la sua vestaglia quando lei apriva le porte per non incrociare lo sguardo dei mostri che mi avrebbero contagiato facendomi diventare come una di loro. Ad alcuni gocciolava sangue dagli occhi. Altri sembravano creature dolenti dell’Ade, grigie e malinconiche. Uno di loro che intravidi cercare lo sguardo di mamma mentre si riallacciava la salopette fino all’ inguine, aveva disegnato su un braccio un Cristo torturato che piangeva lacrime azzurre. Un gruppo di questi dal lato opposto, lo vidi dirigersi verso il carrello delle pulizie, sbavando verso la massa giallastra che avevo rovesciato, come formiche che seguono un sentiero di zucchero. Cercai nel bel mezzo di quel trambusto di dissuadere con tutte le mie forze mamma da quella sua folle ricerca, dicendole che dovevamo scappare e che probabilmente papà se ne era andato  giù al grill bar ignaro di tutto quanto. Lei, come una posseduta vergine dea dalle ali di acciaio fiammeggianti, spumò prima al suolo uno dei mostri, ne ricacciò uno nella camera 49, il quale trovatosi lì rinserrato a quadrupla mandata dalla fiamma ossidrica delle fauci infuocate  di mia madre ora drago folleggiante, le rivolse i più sordidi improperi: “puttana, vacca, succhia-cazzi, troia ermafrodita….” Alle mie preghiere e come riavendosi improvvisamente dalla sua catatonia, come presa da un impeto ventoso che sembrava provenire dai canaloni dietro l’albergo che facevano da imbuto alle crode e ai monti aguzzi di denti svettanti che lo cingevano, la mamma con uno sbuffo mi cinse a sé sorvolando lo spazio dello scalone principale che ci catapultò nella hall come due aquile in picchiata. Nel nostro volo rasentammo le travi a vista di larice laccato della hall dove la matriarca Walser della receptionist stava sezionando con un mestolo appuntito un malcapitato turista cinese su una cassapanca decorata a mano con motivi floreali. Mollò la presa metallica della sua ala incandescente, lasciandomi stramazzare al suolo con un tonfo sordo nel bel mezzo della hall. Cercò la SPA dell’albergo dalla quale non la vidi più tornare. Non dovette faticare troppo a trovarla attratta dai vapori che esalavano da una tromba di scale appena nascosta da quella che doveva essere una rastrelliera per gli sci, ora ridotta a un ammasso di ferraglia fumigante. Il piano interrato dell’albergo-baita era una sorgente termale che doveva bruciare adesso del fuoco dell’inferno delle dolomia metafisiche, fino ai bagni di fieno di quelli sgorbi sanguinanti che si muovevano come zombies nell’acqua incandescente. Mostri linguacciuti messi lì a bollire, ignari di essere stati dei turisti da tutto esaurito in una settimana bianca di fine gennaio per poter godere dei cosmetici naturali dati dalle sorgenti fluorate che sgorgavano dalla pancia dell’albergo. Rialzandomi, cercai io il grill bar, come se veramente ci dovesse essere una struttura del genere lì dentro, solo perché lo avevo detto poco prima a mamma e questo ci aveva fatto fuggire da quei corridoi pieni di mostri, convinta che la soluzione potesse essere nel cercare di vedere le cose come ricordavo di averle viste. Cercai le indicazioni al piano terra imbattendomi in altre stanze con le porte semichiuse. In una di quelle intravidi una vecchia che su una sedia stava cullando una bambola calva.  Non sembrava un mostro, ma non mi avvicinai, facendo in modo di non incrociarne lo sguardo e ritrovandomi poco dopo la fine di quello che mi sembrò come un girotondo intorno a un pozzo, di nuovo all’ ingresso dell’hotel e subito sul piazzale, finalmente all’esterno.

     Intanto la neve che poco prima cadeva da un rassicurante cielo color piombo si era trasformata in una pioggia grassa e monotona che rendeva l’asfalto scivoloso come una saponetta mentre il manto bianco si stava dissolvendo. Pensai per un attimo al liquame, all’asfalto, allo smalto, alle insidie, al fatto  che io e Domitilla avremmo dovuto preoccuparci di tutto questo una volta finita tuta quella storia, mettendo fra parentesi dentro la mia mente oramai sconvolta il fatto che la mia sorellina si trovasse in quel momento in realtà due piani più sopra rinchiusa e sbraitante di orrore in una camera assediata dai mostri. Con Domitilla a casa passavamo degli interi pomeriggi in camera assieme quando la mamma se ne andava a letto non prima di avermi ordinato di tenerle compagnia, farla divertire e rassicurarla. Lei giocava a Trivial Pursuit e mi strizzava ogni tanto i polpastrelli mentre io non reagivo e per farla stare tranquilla la assecondavo contando gli acari che passavano nel raggio di luce trafitto dal sole nella mansarda, ce n’erano tantissimi e danzavano prima di morire a terra. Pensai che sarei dovuta ritornare su di corsa per tranquillizzarla come facevo sempre con lei, anche solo con le stupide risposte alle sue domande di bambina di otto anni su chi fosse Dio e io che le rispondevo che era quella persona che stava in soffitta e pagava la spesa.

     In quella situazione invece avrei dovuto cercare di essere razionale e trovare soprattutto un modo per farla uscire dalla camera senza che i mostri incontrassero il suo sguardo. Valutai lì nel piazzale di individuare la finestra della  nostra camera per dirle di buttarsi di sotto prima che i cumuli di neve si fossero sciolti del tutto. La presenza davanti all’albergo di un auto con all’interno una famiglia, padre, madre e due bambini, tutti quanti vestiti di nero e dai capelli cerulei e intenti a rosicchiare caramelle a forma di osso, mi distolse dai miei immediati propositi. Mi guardarono in modo sempre più ossessivo indicandomi. Pensai subito ai mostri, ma il mio timore fu scacciato via quando realizzai che ancora riuscivo a muovermi correttamente a parte l’impedimento dei rimasugli della pasta giallastra che mi era rimasta attaccata agli stivali. Probabilmente i mostri erano solo all’interno dell’albergo che ne era la fucina. Dello scampato pericolo dovetti in qualche modo essere grata al facchino tirolese che nel frattempo aveva preso le vaghe sembianze di un Bafometto e che con un forcone acuminato costrinse alla fuga la pseudo famiglia Addams.

     Rientrai in albergo da una porta di servizio e trovai affissa a una parete, accanto a un display di emergenza che segnalava lampeggiando l’allarme di evacuazione incendio, una placca che indicava la stube dell’albergo. Mi catapultai nella direzione indicata dalla freccia, convinta di trovale lì papà. Quasi travolsi nella mia foga quella che doveva essere una cameriera. Aveva un aspetto caraibico e con sguardo serafico mi disse: “Sembra che stiano cercando di dare fuoco a qualcosa, stai attenta a non essere te quella cosa e… attenta a non urtare i carrelli…”. La porta della stube con un invetriata multicolore mi si parò di fronte dopo un percorso a zig-zag. Avevo sperato di trovare lì la mia pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno, convinta che papà si trovasse nella stube o grill bar che fosse. Entrai quasi ansimando e lo cercai fra i ricchi pennacchi e gli ampi tendaggi a grandi quadri dalla pesante stoffa lanosa che offuscava la luce che dava la poca neve rimasta fuori dalla finestra. Sperai di trovarlo fra la varia folla degli avventori che apparivano rilassati e indifferenti. Erano per lo più grassi uomini di mezza età e dallo sguardo porcino che si lasciavano servire in degli strani calici con gli sbuffi chissà quali miracolose pozioni fumanti. Sembravano dee antichissime quelle che svettavano dietro il banco del bar. Una di loro mi vide entrare e mi squadrò con il suo sguardo occhialuto. Aveva una bellezza sghemba, da totem, sarà stata alta quasi tre metri e le sue fluenti trecce rosa pallido sfioravano il soffitto a cassettoni bordato di oro della stube al cui centro pencolava una  colomba dello Spirito Santo in legno. Mi sentii mancare, uno strano senso di nausea mi avvolse, non so se dovuto a quella colomba che aveva il collo reciso o per il fatto che non riuscii a vedere papà in mezzo a tutti quei gonzi sudaticci e arrapati. Sentivo i loro occhi su di me e capii che avrebbero voluto che anche io mi sedessi su una di quelle sedie in legno a forma di paperella con la seduta con il buco a forma di cuore, per sollazzare qualcuno di loro, come stavano facendo altre ragazze che avrebbero potuto benissimo essere mie compagne di classe. Sentivo che le mie speranze di poter trovare papà ovunque si stavano dissolvendo, ma era altrettanto vero che non poteva essersi volatilizzato nel nulla o che si fosse perso fuori fra i masi o le cascate ghiacciate. Lui ci avrebbe dovuto salvare a dispetto del suo mostrarsi sempre così indifferente, cosa che in realtà è sempre stata una sua forma di autodifesa. Oltre al suo sguardo e alla sua voce, come quando mi dava dei consigli per allontanare la tensione e far fluire le parole, del tipo prendere un sasso e metterlo in tasca stringendolo forte forte, non ho particolari ricordi di lui in quel periodo che dovettero portare mamma in una clinica sulle colline perché aveva ingurgitato tutto il flacone che il nostro medico di famiglia diceva dovevano aiutarla a stare tranquilla. Fu come se lui non ci fosse proprio stato in quel periodo. Mamma diceva sempre che era papà che avrebbe dovuto farla stare tranquilla e che invece lui non c’era mai perché “evidentemente aveva da fare con le sue troie…” e al suo medico che le prescriveva quelle stesse pasticche che avevano rischiato di mandarla al creatore, alcune volte ribatteva sorridendo se per caso avesse una pasticca contro la gelosia.

     La clinica,  non  era molto distante dal liceo scientifico dove avevo da pochi mesi iniziato il primo anno. Per l’esattezza dalla strada principale bastava deviare in una piccola strada dissestata che si inerpicava dai piedi della collina lungo strette strade ombrose. Ci andava il 67, lo stesso bus che mi portava a scuola e che proseguiva fino a un piccolo paese della periferia. Per andarla a trovare mi sarebbe bastato fare qualche fermata in più e così feci quelle poche volte che andai alla clinica di mamma, verso la fine di gennaio, proprio quando avremmo dovuto partire per la settimana bianca, quando fu ricoverata lì perché ingurgitò tutte le pasticche e il medico disse che si era trattato di un tentato suicidio.

     Questo è quello che ricordo, è andata più o meno così, soprattutto nelle sfumature. Dimenticavo, non mi sono presentata. Il mio nome è Lilith, mi hanno sempre detto che il mio nome sia presago delle peggiori disgrazie e lordure e adesso la prego dottore, mi lasci andare.


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