Numero 42

La marcia

di Eva Luna Mascolino

 

“Abandoned” di Ilaria Cerutti

Pur essendo un muratore paziente e capace, Mastro Gaio era piuttosto conosciuto per le proprie “intuizioni musicali”, al punto che egli stesso era solito soddisfare le domande di alcuni curiosi, spiegando loro in che senso la musica fosse stata da sempre la sua unica compagna di vita.

Il rapporto che mastro Gaio aveva instaurato con essa, in realtà, somigliava a un’ossessione legata al guinzaglio, che non gli consentiva di dormire per più di tre ore di seguito e che gli scuoteva indifferentemente le membra per strada, durante i pasti o sul posto di lavoro. Le intuizioni di mastro Gaio, infatti, non avevano nulla a che vedere con il mestiere specifico di cui egli si occupava. Il suono di più strumenti musicali si materializzava in mezzo ai suoi pensieri da un momento all’altro e gli stava alle calcagna come un segugio spaesato fin dai primi anni di età: esso vagava, si arrestava, poi scappava via e ritornava come un boomerang a stordire mastro Gaio.

Per l’onesto operaio, tale anomala relazione con la musica era diventata ben presto un’abitudine: che avvenisse nelle giornate d’inverno in cui la pioggia macchiava l’asfalto di trasparente malinconia, in riva al fiume, in mezzo a una folla chiassosa e asimmetrica o sulle panchine seppellite da collane di foglie secche a novembre inoltrato, la musica esplodeva nella testa di mastro Gaio con le proprie trombe giallo limone ed egli la ascoltava, riproducendone poi i brani con devozione e meticolosità.

Era davvero così che andava: la musica comandava e mastro Gaio eseguiva.

Nella fattispecie, per esempio, ascoltare un cancan equivaleva per mastro Gaio ad aiutare un’anziana signora nell’attraversare la strada. Se fosse apparsa fra le nuvole una mazurka scomposta e irregolare, invece, mastro Gaio avrebbe litigato presso tutti gli sportelli dell’ufficio postale pur di pagare una bolletta senza rispettare la fila di fronte a sé. Mentre le rapsodie e la musica dodecafonica facevano capolino più raramente, talvolta era capitato che mastro Gaio sentisse perfino uno sfacciato notturno al sorgere del sole o fughe imprevedibili durante gli interventi chirurgici a cui tonsille, appendice e fegato avevano costretto l’operaio a sottoporsi.

Questa bizzarra faccenda delle intuizioni musicali era rimasta per molto tempo relativamente innocua e in apparenza spassosa, nota ai conterranei di mastro Gaio e, se non creduta da tutti, per lo meno accettata come un dato di fatto dalla piccola comunità di cui il muratore faceva parte. Un giorno, tuttavia, finì per diventare terribilmente seria e per infangare senza ritorno il nome di mastro Gaio, relegandolo a una damnatio memoriae ancora in atto.

L’episodio incriminante si verificò durante una mattina di marzo simile a milioni di altre.

A mastro Gaio spettava un lavoro di poco conto in un condominio al numero 23 di piazza Lilcoln, poco lontano dalla parrocchia dell’abitato. C’erano da sostituire alcune tubature presso il pian terreno in cui alloggiava una famiglia composta da una madre e due figli, di cui il minore era un maschio e la maggiore una femmina.

Il maschio era uscito già da qualche ora con degli amici, approfittando del tepore primaverile per raggiungere il parco del quartiere. Doveva trattarsi di una domenica, a ben pensarci, perché neanche la figlia maggiore era andata a scuola. La madre l’aveva lasciata a letto a leggere ed era a propria volta andata via di casa per fare visita a una cugina, raccomandando a mastro Gaio di non sporcare troppo i pavimenti dell’appartamento durante il lavoro.

Questi lo aveva garantito con solennità, era poi rimasto solo con i consueti arnesi in una grande cucina deserta e si era dato da fare.

Per un po’ non lo disturbò neanche l’ombra di una scala in do maggiore.

Per un po’.

Poi gli rimbalzò in petto un guizzo anonimo, subito dopo che la maggiore dei due figli, nella stanza accanto, aveva starnutito.

Qualcosa dentro mastro Gaio era stato violentemente scosso da quella dirompente azione fisica che aveva interrotto la meticolosa routine del suo lavoro da muratore.

– Se non fosse stato per quello starnuto, non sarebbe successo niente – avrebbe raccontato una settimana dopo mastro Gaio al commissario di polizia che si stava occupando del suo interrogatorio.

– La ragazzina era un’ombra silenziosa che a me non era dato osservare, di certo non avrei smesso di sistemare le tubature se non si fosse fatta viva lei, con quel gesto esattissimo del corpo. Non sarei andato a lavarmi le mani in bagno, non mi sarei guardato allo specchio sorridendo a quella maniera e non avrei sentito la musica istigarmi, se non avesse cominciato lei. A quel punto c’è stato poco da fare, commissario, lei mi conosce. Una volta che una marcia si fa strada nel mio cervello, nessuno può fermarla. Non ricordo più se si sia trattato di una marcia funebre o nuziale, perché le due si assomigliano fin troppo, mi creda. In ogni caso era una marcia, potrei giurarlo in punto di morte, ed è stata proprio questa a guidarmi fino alla maniglia della porta in legno, è stata la marcia a spalancarmi di fronte la stanza in penombra, con quella ragazzina dentro, seminuda sul letto e assorta nella lettura. Lei mi stava dando le spalle e faceva dondolare le ginocchia su e giù, credo non mi abbia sentito neppure entrare.

Qui mastro Gaio avrebbe fatto una breve pausa, una settimana dopo l’accaduto, durante l’interrogatorio del commissario di polizia che lo aveva spinto a confessare il reato.

– Io mi sono avvicinato alle sue gambe lisce e lei, diamine, ha continuato a leggere imperterrita mentre la marcia incalzava, incalzava, incalzava, finché non ho resistito e l’ho presa da dietro con forza (la ragazzina, non la marcia, santo cielo!), senza badare al suo grido di paura e al libro che cadeva per terra con un tonfo. Non sentivo niente, non vedevo niente, percepivo solo il suo corpo caldo sfregare contro il mio e quella marcia infestarmi la testa, cosicché l’ho anche baciata, l’ho stretta ancora di più a me… Ma non volevo farle male o apparirle cattivo, commissario! Ho anche iniziato a rassicurarla sottovoce, con le dita fra i suoi capelli e poi fra le sue gambe, però la ragazzina aveva ugualmente un lago di terrore negli occhi. Non avrei potuto modificare il corso degli eventi: la marcia mi spingeva sopra il suo ventre e io ho dovuto obbedire all’impulso, ho letteralmente dovuto, altrimenti sarei stato schiacciato dal peso di quel comando non eseguito…

Qui un’altra pausa, ma breve, di vergogna.

– L’ho posseduta ripetutamente e lei non ha opposto resistenza. Ha piagnucolato soltanto e – Cristo, deve essere stato questo a incoraggiarmi, glielo giuro, commissario! Altrimenti sarei riuscito a fermarmi in tempo – lo ha fatto impeccabilmente a ritmo di musica. Sembrava che anche lei avvertisse nota per nota quel che stava accadendo attorno a noi e dentro di noi. Gemeva scandendo in modo limpidissimo ogni variazione di tema, ogni diesis, ogni passaggio d’ottava… Vedevo il suo viso sfigurarsi e annullarsi, eppure non riuscivo a guardarlo sul serio. Allora chiudevo gli occhi e ascoltavo soltanto, cullato dall’ansimare della ragazzina e proseguendo per un intervallo interminabile, con la convinzione che sarei probabilmente morto su quel letto, in quella stanza buia, senza nemmeno aver finito di smontare i tubi in cucina. Invece è successo che la marcia è finita in un ultimo e improvviso singhiozzo, prima ancora che io avessi avuto il tempo di calmare la ragazzina o di frenare me stesso… Così sono rimasto immobile e squarciato, sorpreso in un atto che non mi apparteneva, con un desiderio che non riconoscevo e che non poteva portare il mio nome…

Nel frattempo mastro Gaio, che la settimana dopo avrebbe dimenticato perfino il proprio nome cui aveva appena fatto cenno, dentro il commissariato avrebbe fatto per contorcersi le mani e martoriarsele, ma si sarebbe fermato subito dopo e avrebbe proseguito dicendo:

– In altre circostanze non mi sarei comportato così, commissario. È stata colpa di quello starnuto, di quella marcia e di quella ragazzina che non ha opposto resistenza, piangendo a ritmo senza nemmeno rimproverarmi, come se non le avessero insegnato a sottrarsi a me, a scrollarsi di dosso le mie braccia… Non è stata colpa mia, commissario.

Mastro Gaio avrebbe ripetuto quest’ultima frase fino a quando il tribunale non lo avrebbe dichiarato colpevole alle due del pomeriggio, in un’aula zuppa di volti pietosi o disgustati, nonché sotto gli occhi imperturbabili della ragazzina coinvolta nello scandalo, la quale a bassa voce e tremando avrebbe fischiettato un motivetto senza quasi rendersene conto, pochi istanti prima del verdetto.

– Di chi è la marcia che stai intonando, mia cara? – le avrebbe chiesto un’anziana signora che stava in piedi accanto a lei.

La ragazzina si sarebbe chiusa in una boccia di silenzio e, nel fatidico istante in cui mastro Gaio sarebbe stato condannato, lei si sarebbe passata una mano fra le gambe sospirando. Nessuno sa se di sollievo, di tristezza o di piacere.


freccia sinistra freccia