Numero 41

Feuilleton Il francese inesistente – Parte nona

di Fabio Cardetta

Episodi precedenti

 

 

Emiliano Cribari

Svetlan era incollato sulla seggiola di fronte al bancone del Pivovar con in mano due foto: una di Srecko e l’altra di Jules Klein.
Se nei giri precedenti, aveva incontrato un paio di baristi e cassieri di supermarket che avevano visto o uno o l’altro – quest’ultimo li aveva visti tutti e due.
O meglio, alla domanda su Klein aveva risposto:
“I soliti stranieri che vengono a ubriacarsi in cerca di gloria!”
E alla domanda su Srecko, aveva risposto:
“No, non l’ho mai visto!”
Ma l’aveva detto dopo alcuni secondi di pausa, spalancando gli occhi, riponendo lo sguardo indagatore su Svetlan e infine negando come solo i bambini colti in fallo riescono a fare.
Eppure il grassone non era di certo un bambino. Era sulla quarantina, barbuto, dalla fronte rugosa; e sul muro alle sue spalle esibiva orgogliosamente il grande stendardo dei Grizzlies, gli Ultras dello Slovan di Bratislava.

Il secondo messaggio di Tub gli era arrivato giusto dopo pranzo, quando gli effetti dell’arrosto di maiale e le numerose birre si fecero sentire, facendolo tracollare sulla seggiola.
Tub questa volta si era sprecato:
“Confermo. La donna si chiama Lucia, pare che sia conosciuta a Trnava. Sono andato dal cugino mentecatto di Srecko, Alex. Ho trovato i genitori: il fesso è stato tre settimane via di casa, proprio in corrispondenza dell’omicidio. I genitori dicono in compagnia di Srecko. Curiosità: i due si assomigliano parecchio. Ti mando le foto, prova a immaginartelo rasato il secondo. Mi hai capito. P.S. Il nostro tizio calza 45, proprio come il cugino.”

E Svetlan li fissava quei due volti, che ora si fondevano e si confondevano e gli sembrava in effetti di vedere la stessa persona: se il primo, rasato e con lo sguardo profondo, aveva gli occhi piccoli, le guance paffute e le labbra taglienti; il secondo aveva i capelli a caschetto e lo sguardo sperso, privo di alcuna tonalità aggressiva.
“Figli di puttana!” – pensò Svetlan.
Poi tracannò l’ultimo sorso che schiumeggiava sul fondo, guardò il barista con aria di sfida e lo rintuzzò:
“Tu che dici?… Me la consigli questa Lucia?”
Il barista si girò, sollevando le sopracciglia, come a dire di non avere sentito.
“Ho bisogno di scopare!” – gridò Svetlan – “Mi hanno consigliato un bordello qui vicino, una certa Lucia… Mi dici dov’è? O devo dare i soldi a qualcun altro?”

Il barista gli indicò un alto palazzo rosa di sei piani dall’intonaco scrostato, che svettava in mezzo a un parco di alberi secchi.
“Vai al numero 39”

Svetlan pagò il conto e lasciò una lauta mancia al grassone.
Poi si indirizzò verso il lontano palazzo di periferia.
La strada principale era deserta: solo un paio di coppie con passeggini e bambini scorazzanti, un omino incassonato in un chiosco a vendere caramelle, un negozio di telefonini inspiegabilmente aperto di domenica, con una smunta cassiera a fissare la strada desolata.
“Troverò qualcuno?” – si chiedeva Svetlan.
Ad ogni svolta l’investigatore si trovava davanti una chiesetta bianca, una più grande con un infinito campanile, un rudere con un crocifisso, una birreria, una chiesa, un’altra birreria di legno marcio che puzzava di luppolo già dalla soglia.

Arrivò al palazzo.
Suonò il citofono, alla dicitura ‘CENTRO BENESSERE FIORI DI LOTO’. Constatò che il radicalisimo new age era arrivato anche nel campo della prostituzione.
Ne rise.
Ma quel portone non era allegro per niente: infissi bianchi sporchi di fuliggine, un muro grezzo incartapecorito, solo il citofono con le luci fluorescenti dava un tocco di giovialità.

“Centro Benessere, prego?”
Una voce squillò, come di una ragazzina
“Sono qui per vedere Lucia, è possibile?”
La voce rimase muta per un po’.
“Ce l’ha la prenotazione?”
“No, non ce l’ho”
“E allora dovrà aspettare… Un momento che vedo!”
Passarono secondi interminabili, con il ronzio del citofono che si alternava allo squittire di voci femminili in lontananza.
Tutt’intorno piano piano si stava facendo buio, e le striature arancioni del tramonto attorniavano i mille crocifissi delle cento chiese, mentre una radiolina in lontananza passava una canzone folkoristica.
“Lucia sarà disponibile per lei tra un’ora… Se vuole attendere!”
“Va bene, attendo”

Svetlan decise di non approfondire il suo rapporto d’amore con la birra in quel lasso di tempo che gli era stato concesso. E si andò a posizionare su una panchina nel parco che dava sul cimitero. Un uomo lontano lavava le bare con una scopa, mentre nel parco alcuni bambini, accompagnati da madri premurose, correvano e si inseguivano nelle piccole oasi di sabbia predisposte ai giochi; un’altra bambina fluttuava su un’altalena sul prato verde, un uomo su una bicicletta litigava al telefono e un vecchio seduto ad una panchina fissava il vuoto con gli occhi sgranati.
Svetlan realizzò che aveva davanti a sé, praticamente, l’intero ciclo della vita; con l’orizzonte macchiato d’arancio e le chiese a sovrastare i destini degli abitanti di Trnava che oramai si apprestavano a mettersi a tavola per la cena.
E Svetlan fumava e non pensava a niente, se non al ciclo della vita.
Poi s’accorse che il tempo era passato.
Un’ora intera era svanita nel nulla.

Quando l’ascensore si aprì, Svetlan si ritrovò davanti una signora brutta, bassa, in camice bianco che l’aspettava sulla soglia della porta.
“Lei è il signore per Lucia?”
“Sì”
“La sta aspettando nella stanza in fondo”
Svetlan si incamminò deciso nel lungo corridoio con le luci soffuse. Riuscì a distinguere, dietro una porta semichiusa, una donna nuda che si rivestiva e un signore che si riabbottonava i pantaloni; dietro un’altra porta una faccia di donna che spiava: aveva sul volto una mascherina di raso, del tipo alla veneziana, e ispezionava il nuovo arrivato con occhi indagatori.
Svetlan non ci fece caso e andò oltre.

Quando arrivò alla porta scorrevole, la aprì con un tocco leggero, accompagnandola fino in fondo.
Dentro tutto era buio, di un nero più nero della pece: vi era solo una lampada sul comodino, dati toni rosacei, e nell’angolo una luce gialla d’una porta, che doveva essere probabilmente quella del bagno. Nella penombra si riusciva solo a distinguere il letto, appena rifatto e pulito, un armadio dalle ante bianche e il tappeto persiano.
La stanza dava al contempo di sensuale e di lugubre, e Svetlan presagì che la prostituta doveva essere ancora in bagno dedita a prepararsi.
“C’è qualcuno?” – deglutì Svetlan.
“Arrivo, amore!… Dammi un minuto.”

Svetlan, per placare quel leggero nervosismo che gli stava salendo, si tolse la giacca e si andò a sedere sul letto.
Non dovette aspettare molto, che la luce del bagno si spense e un’altra luce più fioca, anch’essa rosacea, quasi sul fucsia, si accese nel bagno.
Poi un musica, dalle tonalità arabe, si insinuò leggera. Dalla porta ne uscì una donna, vestita con  due pezzi in raso brillante, e un fisico statuario. Nella penombra si vedeva questo corpo sinuoso e muscoloso muoversi come un serpente, con le braccia lunghe e affusolate e le mani ad accarezzare il corpo procace. I seni erano enormi e morbidi, e la vita stretta; i capelli lunghi e neri incorniciavano la figura possente fino alle anche, e la pelle luccicava d’olio mettendone in risalto i riflessi abbronzati. Nel complesso, a Svetlan la donna apparve come una dea tropicale, una ninfa brasiliana arrivata dall’Oltretomba, una sirena dagli occhi orientali proveniente da qualche remoto paese del Pacifico.

E la donna continuava ad accarezzarsi e a danzare davanti a Svetlan, toccandosi i seni e, mostrando infine le natiche, di spalle, lasciva, teneva su di lui lo sguardo con la coda dell’occhio allungato e provocante.
“Ti piaccio?” –  fece la dea.
“S-sì” – riuscì solo a biascicare Svetlan.
L’investigatore era paralizzato. Non osava muoversi, sebbene volesse farlo. Cercava dentro di sé la forza di buttarsi.
Poi, proprio mentre stava per prendere l’iniziativa, la donna si sfilò le mutandine e cominciò ad accarezzarsi le parti intime.
Un movimento di luce, un riflesso sui meandri dell’intimità della donna… e Svetlan capì che davanti a sé non c’era la creatura che s’aspettava di trovare.
La protuberanza muscolosa e nerboruta entrò completamente nel chiarore. E il pene della donna si eresse turgido davanti a Svetlan, che lo guardava in un misto di sconcerto e frenesia, mentre lei lo scrutava, con gli occhi orientali, e ripeteva:
“Allora… ti piace?”

Svetlan cercò di reagire nel migliore dei modi e, con tono professionale, esclamò:
“Si rivesta… Non sono qui per questo. Sono qui per farle delle domande!”
La donna si bloccò, riprese le mutande e se le infilò al volo. Poi corse in bagno e riaccese la luce gialla.
Tornò con indosso una maglietta, si posizionò alta e accigliata di fronte a Svetlan e, con un accento sudamericano, chiese violenta:
“Mi puoi dire chi sei tu?”

Svetlan sorrise, con fiducia rinata.
Ora che poteva agire da professionista, si sentiva più a suo agio.
“Sono un investigatore privato, e vorrei farle alcune domande… Se si vuole accomodare!”
La donna continuava a guardarlo in un misto di sospetto e paura, sempre accigliata e con la bocca serrata. Poi portò avanti una sedia, comparsa come per magia dal cono d’oscurità, e si sedette a braccia conserte di fronte a Svetlan.
“Mi dica!”  –  fece la donna, tenendosi la pancia come se fosse affetta da un atroce dolore.
Fu lì che Svetlan mostrò le foto.
Erano le foto di Srecko Simic e di Jules Klein.

L’interrogata le squadrò con aria spersa.
Le fissò per alcuni secondi.  Poi gli occhi si contrassero, i lineamenti si sciolsero straziati… e la donna esplose in lacrime, con un grido disperato.
Si rifugiò in bagno, cercando di placarsi.
E Svetlan rimase lì, a subirsi lo strazio, in attesa che la donna tornasse a rivelare tutti i retroscena delle vite di quegli uomini, che tanto gli avevano fatto sbattere la testa negli ultimi giorni.
E rimase lì, a squadrare quelle foto, sovrappensiero.

Quando la donna tornò, con gli occhi lucidi e lo sguardò sollevato…
Svetlan capì che il caso del francese stava ormai per essere risolto.


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