Numero 41

Cinque minuti

di Beatrice D’Anna

 

“” di Domenico Giovanni Della Rocca

Dicono che a chi sa di dover morire gli ultimi cinque minuti di vita sembrino interminabili, una ricchezza enorme, un bottino di potenzialità. Dicono sia inevitabile ripensare all’intera propria esistenza, pentirsene o gioirne, e inevitabilmente rimpiangere qualcosa che non si è detto, non si è fatto, o almeno non nel modo in cui si sarebbe dovuto. Stesi su un letto d’ospedale, ormai certi dell’imminente fine, con attorno infermieri o amici o sconosciuti o nessuno, la mente si isola per qualche istante, ossessivamente intenta a ricomporre i pezzi che si sono persi per strada, e immaginare di farli andare bene. Unirli, di modo che il puzzle risulti completo, almeno per finta. Con la coperta pesante sulle gambe, che mi ostacola ogni più impercettibile movimento, le palpebre socchiuse, infastidite dalla luce del sole che mi è ormai nemica, vivo i miei ultimi cinque minuti esattamente nel modo in cui dicono. Ma ogni attimo, ogni fiato che mi resta da effondere per l’ultima volta è per lei.

No, non cambierei quella mattina d’autunno in cui un giovane di buona famiglia, conscio della propria bellezza, indifferente alle proprie responsabilità, entrò in una pasticceria del centro, sedette a un tavolo poco distante dal bancone e attese che lo servissero. Una donna, un sorriso gentile e chiome bionde che sfuggivano al lega-capelli, gli si avvicinò indaffarata, ma educata: “Il signore desidera?”, domandò.

“Quello che la casa offre” fece quell’altro, poiché amava essere stupito.

Erano le dieci del mattino, il locale quasi deserto perché gli adulti lavoravano. L’orologio picchiettava incessantemente le sue lancette a ricordarmi che in un’altra vita non avrei dovuto essere lì, ma altrove, come gli adulti. Cambierei ogni istante in cui non mi trovai al mio posto, ogni secondo in cui preferii essere un bambino piuttosto che assumermi un qualche compito, ogni anno in cui pesai sulle spalle della mia famiglia, ma non quell’istante. Perché fu allora che conobbi Anna.

“Torta di nocciole profumata alla cannella” disse porgendomi un piattino ben presentato.

La guardai negli occhi, mentre cercava di cogliere in me una reazione alla scelta che mi stava offrendo. La guardai negli occhi e quella fu la mia disgrazia e la mia felicità. Azzurri come il cielo, con una sfumatura grigiolina che al mio animo di scrittore parve come le nuvole che, in lontananza, si preparano a offuscare una giornata serena. Era pacatezza e dolore, trasparenza e segreto. La femme fatale di un autore scapestrato, seduto al tavolo di una pasticceria anziché nel luogo dove sarebbe dovuto stare. L’avevo trovata. Ciò per cui valesse la pena di scrivere, di vivere, di amare.

No, non cambierei le passeggiate mano nella mano, come quei piccioncini tanto odiati da chi è solo, lungo il corso Vittorio Emanuele, né i baci scambiati all’ombra di un albero, qua o là o dove capitasse, purché le sue labbra toccassero le mie, purché lei potesse ancora in qualche modo ispirarmi. E più la conoscevo, più l’amavo. Amavo la sua onestà e la sua dolcezza, l’affabilità e talvolta l’arroganza di una donna che sa di essere tutto. Per lei scrissi le mie opere migliori, e più scrivevo più lei mi esortava a continuare dicendo: “È questo, sai, che ti eleva a Dio”. Non ci credevo, ma scrivevo lo stesso. Lei era convinta che ci fosse qualcosa, in ognuno di noi, in grado di sollevarci e portarci fino in cielo. Ossia, il cielo in cui credeva lei. Che fossero i dolci alla nocciola profumati di cannella o una serie di parole poste in fila a suscitare un’emozione, questo era ciò che credeva. Il talento, per lei, non era altro che l’espressione di ciò che qualcuno di più grande aveva desiderato per noi, e la passione era manifestazione della vita che ci avrebbe condotti alla gioia. Vivessi un’altra esistenza, mi convertirei. Cercherei di dare peso alle parole di una donna saggia, capirei il valore che il mio atto d’arte possedeva. In un’altra vita, le direi “hai ragione, Anna”, la prenderei per mano e forse ora andremmo insieme in Paradiso. Utilizzerei i miei guadagni per costruirci una casa, crescere dei figli e amarci come solo lei mi aveva insegnato a fare. Ma non credevo nella fede. Ridevo e pensavo a quanto magiche fossero quelle parole da scrivere in un romanzo: lei, musa della mia ispirazione, viveva molte vite. Le sue mille sfaccettature si adattavano di volta in volta alle protagoniste dei miei testi: sapeva essere la docile serva di un maragià e una leonessa nella savana, l’incantatrice lirica e la prostituta. Ma c’era un’altra vita, della quale mi curavo meno. La sua. Quella reale, che viveva ogni giorno con me. Non era più felice. Come se il grigio dei suoi occhi chiari avesse preso il sopravvento sul blu, oscurando la giornata serena sempre di più, fino a coprirla del tutto. Nel suo animo era tempesta. Ma non me ne accorsi. Scambiarci baci all’ombra di un albero, osservare la sua andatura, i suoi capelli biondi fluttuanti che sfuggivano al lega-capelli quando lavorava, quello per me valeva più di ogni altra cosa. Le donavo ricordi e vite sempre diverse. Lei era l’oggetto del mio lavoro d’arte, del quale soltanto mi occupavo.

Finimmo in bancarotta, perché non riuscivo a tenere nessun guadagno per noi. Giocavo. Spendevo. L’ebrezza che mi dava rischiare tutto era indicibile. Volevo una vita di colpi di testa, di azzardi e di emozioni forti. La quotidianità non mi piaceva, era noia, abitudine, responsabilità. Il mio animo bambino non voleva crescere. Così compresi quando se ne andò. Un giorno mi recai in pasticceria e la trovai chiusa: era sparita. Tapparelle abbassate e niente più tavoli all’aperto. Chiesi a un passante e mi disse che era andata via, valigie e tutto. Era una donna adulta.

Vivessi un’altra vita, la inseguirei. Mollerei tutto, nello spirito bohémien che tanto amavo professare, e la raggiungerei ovunque pur di stare insieme. Saremmo felici, adesso, anche andando incontro alla morte. Smetterei di giocare e diventerei uomo, per lei. Le darei dei figli, mi convertirei. E adesso so che valevamo più di ogni altro rischio, ma all’epoca, pur agognando una vita d’azzardo, non ebbi il coraggio di tentare l’unica sorte che avrei dovuto rincorrere.

Il profumo di cannella era l’unica cosa che mi restava di lei, intriso fra i capelli e nelle pieghe della carne, sul retro delle unghie in cui speravo di trovarvi la sua pelle. E per le strade, la ricerca di due occhi diversi da tutti gli altri, color del cielo e delle nuvole che offuscano il sereno. Vivessi un’altra vita, sarei un uomo diverso, maturo, onesto. Non l’illuderei di un amore proiettato nella fantasia, ma le darei ciò che si merita: un braccio a cui appoggiarsi e un ballo a una festa fra amici; denaro perché la pasticceria non chiuda e una vita autentica, di cui mi importerebbe al pari di quelle che invento. Ora capisco l’abbaglio eterno di uno scrittore. Ha in mano tutto, si sente il Creatore: decide vita e morte dei suoi personaggi. Ma la vera vita resta fuori, da contorno, mentre lui, come un fiume che straripa, getta una dietro l’altra parole d’inchiostro reversibile che può sempre decidere di cancellare. La vera vita continua e tutto ciò che l’autore ha imparato dai libri viene stravolto senza che se ne renda conto: non c’è redenzione per un’esistenza di sbagli, e lo dimostra una cosa più delle altre, che lei non è più qui con me.

Gli ultimi cinque minuti sono i più angosciosi, i più maledetti che una vita possa offrire. Non c’è scampo al giudizio finale, operato da un dio o dall’uomo stesso. Alla fine dei tempi, bisogna considerare cosa è stato, tutto ciò che si è fatto e ciò che non è andato. Tutto ciò che non si è detto, tutto ciò in cui si è peccato. Tutto ciò che si è perso. E non c’è scampo al rimpianto di non aver agito nel modo in cui si sarebbe dovuto. In questi cinque minuti che mi accompagnano alla morte, nei quali ogni cosa mi richiama alla mente lei, di questo soprattutto mi dolgo. Se solo avessi saputo fare ciò che non ho mai fatto abbastanza. Amare.


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