Echoes
di Sonia Aggio
Durante la lettura si consiglia l’ascolto della playlist Echoes.

.1915
Il francese grida. I suoi due compagni sono morti, l’esplosione ha saldato le uniformi azzurre ai corpi bruciati. Lui è stato sbalzato via, è finito in un nido di filo spinato, il sangue gli cola sulla faccia.
Belisar è a una decina di metri da lui, riparato sotto un masso, e lo osserva con il cuore in gola. Posso raggiungerlo continua a ripetersi, stringendo il fucile contro il petto.
Le esplosioni si diradano, i colpi si fanno irregolari. Quando l’ultimo boato si è spento, Belisar lascia il nascondiglio e si mette a correre, piegato in due. Si inginocchia accanto al francese, che piange e artiglia il terreno con una mano; ha il filo spinato attorcigliato attorno alla testa, a ogni sussulto le punte si conficcano nella carne. Mi servono delle forbici, una lima, se tiro gli spacco la testa… e se andassi a prendere qualcosa, farei in tempo?
Un fischio. Belisar alza lo sguardo e vede un geyser di fango giallo alzarsi in fondo al campo.
— No, ricominciano a bombardare — dice. Comincia a sudare. Si asciuga le mani sui pantaloni e afferra il francese per le caviglie, punta i piedi nel terreno e comincia a tirare.
Il francese scalcia, oppone resistenza, si aggrappa al filo spinato. Belisar e gli stringe le gambe fra le braccia e ricomincia a tirare. Quando dà l’ultimo strappo, il francese non grida più: la sua faccia è una maschera di sangue, dalla testa pendono lembi di pelle.
Belisar lo prende fra le braccia. Per qualche miracolo, riescono ad attraversare la terra di nessuno martoriata dalle esplosioni e a raggiungere le trincee francesi. Belisar lascia il ferito ai suoi compagni — questo è spacciato si dicono a vicenda mente si allontana — e torna alla sua postazione.
Qualcuno gli batte sulla spalla, gli prendono la mano per congratularsi. Lui resta seduto in un angolo, ad occhi chiusi, finché il vento non lo fa tremare nell’uniforme fradicia.
.1917
Cinque austriaci sono appollaiati come uccellacci su una cresta. Alle loro spalle hanno montagne azzurre, dai profili nitidi, e un cielo rosa. Belisar li sta osservando, pronto a sparare, quando sente un fruscio nel bosco, sotto la sua postazione. Si volta lentamente, puntando il fucile verso il basso.
Appare un soldato.
Belisar riconosce subito l’uniforme. Francese. — Identificati — gli dice, severo. Il francese alza la testa, i due si guardano. Nel silenzio, si sentono le voci indistinte degli austriaci. Belisar ha la gola secca, gli tremano le mani. Il francese ha gli occhi sgranati — ma, soprattutto, ha una cicatrice bianca e grinzosa che corre tutt’attorno alla testa come una corona.
— Sei tu — dice con un mezzo sorriso. Belisar si copre la bocca con una mano.
— Belisar.
— Narsès.
Sono seduti tra le rocce, gli occhi fissi sugli austriaci. Il cielo si sta scurendo — fra poco saranno fuori tiro. Narsès racconta del suo primo arruolamento, dell’odio per i volontari inglesi, freschi come rose mentre i francesi morivano, della degenza, del suo secondo arruolamento come volontario, dei tedeschi fulminati e gettati a terra, del trasferimento in Italia. — Non mi dà fastidio che tu sia un volontario inglese, ora — dice. Belisar ascolta in silenzio, il fucile sulle ginocchia.
Gli austriaci si rimettono in marcia. Lui e Narsès imbracciano i fucili e li ammazzano.
Ci sono veterani che non vogliono sapere i nomi dei rimpiazzi per non soffrire delle perdite continue, fermare la morte è come prendere la pioggia con le mani.
Succedono cose strane.
Un soldato resta solo nella terra di nessuno, in mezzo ai suoi compagni morti. Lui è in ginocchio e grida con la testa buttata all’indietro, le braccia abbandonate lungo i fianchi, finché qualcuno non gli spara. Belisar e Narsès stanno guardando, vedono il sangue schizzare verso le linee austriache e il corpo cadere in avanti.
— Non credo che siano stati i crucchi a sparare — sussurra Belisar.
Narsès chiude gli occhi.
Belisar si confida in una giornata limpida e furiosa. Dal M. si vede tutta la pianura, fino al mare, e la linea del fronte, nera e segnata da incendi e colonne di fumo — una cintura di fuoco, una cicatrice. Lui non odia nessuno, sente solo di dover andare avanti, avanti, sempre avanti, cresta dopo cresta, vallata dopo vallata. Narsès gli chiede: — Cerchi qualcosa? — e lui risponde che non lo sa.
Parla dei mesi nelle retrovie. Quando il sole tramontava e dalle montagne scendevano i venti freddi, andava a sedersi sul muro nord della caserma, le mani strette sulle cosce: guardava la grandine rossa dei mortai, le lucciole dei proiettili traccianti, le fiammate arancioni degli obici e dei cannoni, la pioggia bianca del fosforo.
Durante la salita ha raccolto un’ogiva aperta come un fiore e l’ha infilata nell’uniforme. Ogni volta che si stende sulla pancia, i petali gli graffiano la pelle. Ora la tira fuori e la mostra a Narsès.
È Dicembre, ed è notte; la luna è coperta da nubi filamentose. Belisar mastica tabacco, seduto nella trincea, quando sente uno schiocco. Toc. Gli sembra che riecheggi ovunque: in cielo, nelle trincee, sui pascoli. Si alza in piedi, prende il fucile e guarda attraverso le feritoie: il terreno è ingombro di cadaveri — i feriti hanno smesso di lamentarsi da ore —, reti di filo spinato, montagne di terra. Fa per sedersi, quando sente un altro suono. Clic. Belisar si paralizza, piegato sullo sgabello; afferra un binocolo e torna alle feritoie.
Stavolta guarda con più attenzione, da sinistra a destra e viceversa, finché non la nota: un’ombra che si muove bassa sul terreno e si nasconde tra i morti. Dove va? Verso il cantiere? Vuol far saltare la galleria? — Maledetto bastardo — ringhia Belisar, abbassando il binocolo. Stacca la baionetta dal fucile, la impugna come un coltello e si arrampica fuori dalla trincea.
— Belisèr! — un sibilo. Lui volta la testa e vede la faccia bianca di Narsès sbucare una ventina di metri più avanti. — Cosa stai facendo? — insiste. Lui si porta l’indice alle labbra e indica la zona in cui si muove l’ombra. — C’è la luna, ti vedranno! Sta’ giù, torna indietro! — sussurra il francese. Lui lo ignora.
Striscia sulla pancia, come un serpente, fermandosi spesso ad ascoltare i fruscii e i piccoli rumori dell’altro. È sempre più vicino, ma ad ogni spinta in avanti la sua incertezza peggiora, un ferro incandescente gli buca lo stomaco. Si arrampica sulla schiena di un cadavere massiccio e lo vede: è sotto di lui, coperto di fango. Belisar resta a guardarlo mentre scivola avanti. Tu sei come me gli dice col pensiero, stringendo meglio la baionetta, vuoi strafare. E si butta su di lui.
Non ha mai sentito un uomo morire contro di lui. È orribile. Belisar stringe la baionetta con entrambe le mani e la spinge nel collo dell’austriaco. Con un gomito gli tiene la testa premuta a terra. Le mani dell’uomo si muovono come ragni sul terreno, febbrili e impotenti. Quando il corpo smette di sussultare, Belisar si mette in ginocchio sulla sua schiena, ansimante, e tira fuori la baionetta. Anche al buio, vede il sangue che gocciola dalla punta. Respira a scatti, ah-ah-ah, ah-ah-ah, ha le labbra secche.
— È stato peggio del previsto — dice atono — e non ho ancora finito.
Respira a fondo, poi comincia ad affondare la baionetta nella schiena dell’austriaco. Si ferma quando sente il sangue bagnargli le ginocchia.
Belisar si mette in piedi e guarda il cadavere, finché non nota la sua ombra che si staglia per terra. Si volta appena, agghiacciato: le nuvole si sono dissolte, la luna splende sulla sua testa — e lui è in piedi, da solo, come il più stupido dei bersagli.
Belisar si mette a correre, i proiettili gli fischiano attorno. I suoi occhi sono fissi su Narsès, che lo incita e gli fa dei cenni. Mancano sì e no tre metri, quando Belisar mette il piede in fallo — tende le braccia, ammutolito, la gamba si torce.
Precipita sul fondo di una buca.
Il fango lo risucchia, le sue dita lasciano dieci solchi ondulati mentre affonda. La gamba sinistra è intorpidita, prova a darsi la spinta con la destra ma il piede resta invischiato nella melma. La terra gli cade in faccia, gli entra negli occhi. Perché non ho sparato? Perché non sono rimasto in trincea? si chiede Belisar sbattendo le palpebre.
Le zolle si frantumano tra le sue mani, l’uomo cade disteso sul fondo. Prova a puntare i gomiti, ma affondano. Allora tira indietro il collo, disperato. Sono storie che tutti hanno sentito: storie di soldati annegati nel fango e nella pioggia, schiacciati dai propri abiti, sotterrati dalla sabbia. Nessuno vuole morire così — piuttosto un’esplosione che ti faccia a brandelli, istantanea, inaspettata.
Non voglio morire così! pensa Belisar. Beve una sorsata di fango, sente i granelli tra i denti, sulla lingua. Il suo cuore non batte, si strappa, si stira al centro del petto e gli toglie il fiato. Non voglio, non voglio morire!
Inghiotte altro fango, si mette a piangere. Ha un rigurgito acido, vede tutto azzurro. Lascia cadere la testa in avanti.
Per i primi, infiniti minuti Belisar si sente come un pesce che annaspa in una pozza. Non ha alcun controllo sul suo torace, che si stringe e si gonfia a scatti, e aspira l’aria così forte da bruciarsi la gola.
Narsès lo tiene sollevato, lascia che lui gli affondi le unghie nelle braccia senza battere ciglio.
Poi Belisar ricade a terra, stremato, con lacrime secche sulle palpebre.
Tirato per i capelli dicono intanto, Dubois l’ha preso appena in tempo.
— Ora siamo pari — dice Narsès, la cicatrice splende alla luce della luna.
Belisar solleva la mano. — Siamo pari — risponde con voce flebile.
.1918
Si sciolgono i ghiacci dell’inverno, tra le trincee nascono piccoli fiori bianchi, ma la guerra continua. Tra i ranghi circola una notizia — l’esercito italiano sta progettando una grande offensiva, vuole azzannare l’Impero alla gola, rompere la sua ultima resistenza.
L’aria è pulitissima, un giorno Narsès vede persino lo scintillio di Venezia; il fronte è un grosso serpente, si moltiplicano i fuochi, il vento porta sui pascoli l’odore di bruciato. Le artiglierie suonano una musica irregolare nel ventre della montagna.
Passa anche la primavera, l’acqua dei torrenti rimbomba tra le valli.
Passa una staffetta, veloce come il vento, e porta la notizia: l’offensiva è iniziata. Gli italiani vogliono rovesciare Caporetto.
Gli inglesi sono in stato di grazia: avanzano senza timore verso la prima linea austriaca, possono vedere il bianco degli occhi dei nemici. Le cartucce vuote dorate volano contro il cielo azzurro. Tutti i colpi vanno a segno, dipingono fiori rossi sulle pareti. Prima di saltare nella trincea, Belisar butta uno sguardo a sinistra: individua Narsès tra i francesi, ha il fucile schiacciato contro la guancia e sta piegando le gambe per il balzo.
La carneficina continua con le baionette, con le armi più disparate — dal calcio del fucile alle pale alle mazze di ferro ai sassi. Il sangue scorre sulle assi. Le formazioni inglesi prendono il lato destro, quelle francesi il sinistro. Si incontrano al centro e si infilano nel cuore del reticolo.
L’eccitazione lascia posto a un’inquietudine strisciante: gli austriaci se ne sono andati e hanno lasciato tutto — scarpe, giacconi e coperte, borracce, marmitte. Mancano solo gli uomini e le armi.
Da molto lontano arrivano un botto e un fischio. Belisar si mette il fucile a tracolla e comincia a frugare nelle tasche con dita sempre più febbrili. No, non solo le armi si dice con il cuore in gola. Si sono portati via un’altra cosa.
Le maschere antigas.
L’elastico gli stringe la testa, respirare nel filtro è faticoso. Belisar ha perso l’orientamento e vaga nella nebbia gialla e afosa, il sudore gli ricopre la fronte, il collo, la schiena. Non vede quasi nulla, ma sente — passi sul ballatoio di legno, tonfi, spari flebili, rantoli di agonia — gli austriaci che dilagano e si riprendono la trincea.
Deve tornare indietro, è la sua unica speranza.
Procedendo a tastoni, trova il passaggio per la prima linea. Esce dalla trincea e resta fermo, interdetto. A sprazzi, secondo i giri del vento, si vedono uomini che corrono, uomini che cadono, uomini che calano le baionette sui feriti.
L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui.
Si alza il vento; il gas comincia a sfaldarsi, a contorcersi. È una frazione di secondo: un raggio di sole cade obliquo e illumina un ciuffo di capelli, una maschera, una lente, un’uniforme macchiata di sangue. Un piccolo movimento, e Belisar nota un occhio blu, una cicatrice bianca.
Narsès!
Un attimo dopo la cortina ricade e lo nasconde.
Sbucano come demoni, con gli occhi di vetro, le facce nere, la proboscide di gomma. Belisar prende il primo tedesco fra gli occhi, le lenti della maschera si riempiono di sangue. Il secondo prova a strangolarlo, arriva a graffiargli la gola prima di cadere con un gemito. Il fucile s’inceppa. Il terzo tedesco gli salta addosso: i due barcollano, maschera contro maschera. Il tedesco gli dà un pugno in faccia, Belisar gli conficca la baionetta nella spalla.
Muori, cane schifoso.
Gridando nella maschera, lo spinge a terra e gli spara in testa.
Si mette a cercare Narsès, lo chiama, gira in tondo. A un certo punto, mentre supera i cadaveri dei tedeschi, la vista gli si appanna. Si tocca la faccia e sente la stoffa squarciata, i battiti del cuore accelerano. Cerca di chiudere la maschera con la mano, gli occhi e la gola cominciano a bruciare.
Cade di schiena, le mani sulla faccia. Non può soffocare di nuovo, deve sapere — dov’è Narsès? È tornato? Sta bene?
Un colpo di tosse lo scuote dalla testa ai piedi. La sua visuale si restringe, si scurisce. No, no, Narsès, non posso… non ora…
Lo spostano in una galleria italiana, in mezzo a decine di soldati feriti dal gas. Il fragore degli obici fa piovere gocce d’acqua dal soffitto, Belisar tira fuori la lingua per catturarle. Il suo vicino di barella, un tenente americano, muore con un sospiro. Altri strillano, gorgogliano, vomitano. Alcuni non hanno più occhi, solo ustioni e pupille bianche. Lui afferra i medici e le suore per le caviglie, implora: — Narsès Dubois —. Tutti scuotono la testa: nessuno l’ha visto, non c’è nessuno con quella cicatrice, ma fuori ci sono tanti corpi, non si sa mai.
Lo trasferiscono in un ospedale nelle retrovie, lo cura un’infermiera bruna ed efficiente. È lei che gli spalma l’unguento sugli occhi, che lo pulisce, che gli fa bere acqua calda e miele.
Lui le chiede di Narsès, scrive il suo nome su un foglio. Lei torna a mani vuote, si scusa in italiano.
Una sera, due soldati vengono a prenderlo, lo spostano su un treno — l’infermiera viene a salutarlo, solleva tristemente la mano. Per favore sillaba Belisar non mandatemi via. Un sussulto e il convoglio si allontana dall’ospedale.
Belisar torna in Inghilterra e l’influenza si dirama in tutta Europa con lingue di fuoco. Lui trema, liscia la coperta sulle gambe. Pensa a quello che ha rischiato, pensa a Narsès, all’infermiera — negli ospedali è una strage, intere camerate vengono sterminate.
Intanto il mondo si trasforma: l’Impero austroungarico non esiste più, la nuova Russia è una stramba creatura, la Germania striscia nel fango, sotto il piede della Francia.
.1918-39
I caduti vengono raccolti e sepolti in dignitosi cimiteri bianchi. Si costruiscono ossari di marmo nei luoghi delle grandi battaglie. Belisar si fa tradurre le targhe — qui ci sono 10.200 morti, 10.000 di questi sono ignoti.
Diecimila.
In quel singolo attacco, sul M., sono morti 889 uomini. 72 sono stati identificati.
Belisar immagina una distesa di scheletri, le tibie si mescolano con le costole, i crani con i bacini, i denti con le vertebre. Si mescolano italiani, austriaci, tedeschi, francesi, inglesi, americani. Il suo sguardo si fa vacuo, le spalle si piegano.
A soldier of the Great War / Known unto God.
Ici repose un soldat français mort pour la patrie.
— Soltanto a Verdun abbiamo perso 300.000 uomini, quasi tutti sconosciuti. Deve accettarlo, signore: è impossibile trovare un soldato di cui conosce solo nome e cognome. Ha mai pensato che potrebbe essere morto?
Belisar si arrende. Ora conosce l’odio di Narsès — è il suo volto bianco nello specchio, una brace accesa nel petto.
.1939
Belisar infila una sigaretta fra le labbra, afferra l’accendino, si piega per proteggere la fiamma. Si alza in piedi, il vento gli scuote i capelli sulla fronte, va in fondo al giardino, si appoggia al cancello e guarda la striscia grigia della Manica all’orizzonte.
La radio crepita, la musica affonda nelle interferenze del segnale, poi si interrompe.
I am speaking to you from the cabinet room at 10 Downing Street.
This morning the British ambassador in Berlin handed the German government a final note stating that unless we heard from them by 11 o’clock that they were prepared at once to withdraw their troops from Poland, a state of war would exist between us.
Sono passati venticinque anni, si dice Belisar, eppure in certe notti il tenente americano si distende al suo fianco e gli sospira nell’orecchio, i tre tedeschi si chinano su di lui con le maschere che grondano sangue.
I have to tell you now that no such undertaking has been received, and that consequently this country is at war with Germany.
La sigaretta si è consumata, Belisar la lascia cadere, la schiaccia con il piede.
.1940
— Signore… sono questi gli ordini, signore? Rivolgerci contro i francesi? — chiede Belisar. Il ponte di comando è buio, solo Somerville si staglia contro i finestroni, le spie multicolori si riflettono sulle mostrine e sui fili dorati dell’uniforme.
Per qualche secondo si sentono solo i battiti dei motori e i richiami delle sentinelle.
— Sergente Moore, non capisco il senso di questa domanda. Il messaggio non le è chiaro? Oppure sta mettendo in dubbio la bontà di questa operazione? — il viceammiraglio risponde senza voltarsi.
Belisar accartoccia il foglio. — Nossignore. Temevo di aver frainteso gli ordini. Soltanto questo.
— Molto bene. Può ritirarsi, sergente.
Operazione Catapult iniziata STOP raggiungere l’obiettivo STOP
È l’alba, quando la flotta doppia il promontorio di Mers el-Kébir. Belisar vorrebbe confondersi con la nave, vorrebbe essere inghiottito. Da un momento all’altro, si dice, il metallo lo prenderà per la testa e lo tirerà dentro — magari le sue gambe resteranno fuori e qualcuno ci appenderà il fucile.
Nel ’15 andava così.
Le trattative durano tutto il giorno. Alle 16:15, Belisar riceve e trasmette l’ordine di aprire il fuoco. Somerville è una statua di sale. Passano altri 45 minuti. Alle 16:56, l’ammiraglio scrolla le spalle e alza la mano destra.
— E sia.
Il combattimento termina alle 18:35, la Strasbourg si allontana, altre navi sono colate a picco, sul mare galleggiano olio e cadaveri. Belisar scende nel cuore della Hood, nelle stanze più piccole e buie, ha mani e piedi gelidi, un cerchio alla testa.
Lui lo aspetta in fondo a un corridoio, sotto una luce d’emergenza — l’occhio di Belisar registra una macchia scura, poi mette a fuoco una vecchia uniforme di panno, una maschera, un occhio blu dietro la lente.
L’uomo si ferma, conta fino a tre e si volta, ma non c’è più nessuno.
.1941-45
Di quest’altra guerra gli restano lampi, immagini che gli avvelenano il sangue: ragazzini impiccati ai lampioni, paracadutisti uccisi dalla contraerea che cadono avvitandosi, file di corpi carbonizzati nelle piazze.
Ricorda l’inverno sul fronte italiano, l’aria di vetro blu, i fiocchi di neve che tagliavano le guance, le dita scoppiate per i geloni e pensa che neppure allora, con i suoi compagni che morivano come mosche, ha odiato i tedeschi come li odia ora.
Pensa alla costa algerina, alla Bretagne che sanguina carburante nell’acqua azzurra, agli oleandri in fiori che circondano il porto. Pensa che vorrebbe unirsi ai sovietici, e sterminare ogni nazista sulla strada, e urlare all’ultimo Questo è perché mi avete fatto ammazzare i miei alleati, animale, bestia.
.1945-57
Belisar attraversa un’Inghilterra stanca e selvatica.
Quando arriva sul cancello, si ferma. È di nuovo Settembre — sei anni prima, nello stesso punto, ha ascoltato il comunicato di Chamberlain. Getta lo sguardo in fondo al sentiero, la Manica è una coperta spiegazzata, argentata.
Alla fine, con un sospiro, raccoglie la valigia ed entra in casa.
Tira le tende, si spoglia alla luce della luna e si mette a letto. Si ritrova a fissare il soffitto, le mani giunte sullo stomaco, poi sente un tramestio alla sua sinistra, e un sospiro freddo gli sfiora l’orecchio.
Si addormenta subito dopo.
Si sveglia gridando Aiuto! L’occhio destro vede la camera illuminata dal lampo, l’occhio sinistro è pieno di macchie dai contorni luminosi, come una pellicola che brucia. Belisar si preme la mano sulla faccia e ricade sul cuscino.
Sa quello che lo aspetta — quando si sveglia di notte trova sempre i tre tedeschi, è il loro rito —, perciò solleva le palpebre senza timore.
L’occhio continua a bruciare, a macchiarsi. Un altro lampo riempie la stanza: stavolta c’è un solo uomo accanto al letto — un uomo che porta una maschera antigas e una vecchia uniforme, e che ha la testa tagliata da una cicatrice.
È l’uomo che gli è apparso a Mers el-Kébir. L’ha seguito dall’Italia all’Inghilterra, dall’Algeria alla Germania, e ora l’ha raggiunto.
Narsès.
Quando è stanco, quando ci sono forti lampi, quando alza lo sguardo in fretta, nell’occhio sinistro si aprono quelle macchie incandescenti.
— Deve ritenersi fortunato, signor Moore — dice l’oculista, spiccando il foglio dal blocco — ho visto tanti ragazzi ciechi o sfregiati.
Una sera, Belisar lascia cadere il cucchiaio nella zuppa. Si pulisce le labbra con il tovagliolo, esce dalla cucina. Il giardino è già nero, sopra di lui il cielo è punteggiato di stelle; soltanto a ovest, sulle colline, rimane una macchia verde, acqua salmastra.
Belisar si guarda attorno. Lo trova fermo tra la staccionata e il bosco, come una sentinella. Alza la mano per chiamarlo, lui scompare.
È peggio della cecità, delle cicatrici, delle gambe amputate? È peggio dello shock, dell’epilessia?
Si pente solo di non averlo trovato, di non averlo raggiunto. Forse, si dice, ha incontrato i tedeschi a pochi metri da lui, forse ha sbagliato ad aggirare quel cadavere a destra anziché a sinistra, magari con la manica ha sfiorato Narsès, magari si sono incrociati e si sono separati senza saperlo.
Forse beve un sorso d’acqua sono arrivato tardi. Forse i tedeschi l’hanno ucciso prima di venire da me.
Gli anni passano e Narsès appare, ancora e ancora, all’angolo di una strada, nei chiaroscuri di un temporale, in cima a una collina, tra le croci bianche di un cimitero militare, in fondo a un ponte.
Belisar non riesce mai a chiamarlo. Di notte sogna soldati con la maschera, soldati senza occhi.
.1957
Il treno corre fra boschi e vigneti, attraverso il finestrino Belisar vede una serie di colline azzurre e ondulate. Le montagne sono lontane, sovrastate dai fulmini rosa di un temporale. All’improvviso, ricorda Narsès accovacciato sotto un abete, con la mano protesa come una conchiglia bianca.
Si continuano a scoprire ossa, ma non c’è più spazio negli ossari: i resti vengono riuniti in blocchi di marmo, in grandi anfore. Un libro di metallo riporta i nomi di 322 caduti. Belisar legge, le pagine girano con un cigolio — l’ultima contiene il numero degli ignoti. 5000.
Lui alza la testa e guarda nel vuoto.
Torna a casa con le spalle incurvate, si distende sul letto. Immagina di avere attorno pile di teschi, e di prenderli fra le mani uno a uno fino a scoprire quale appartiene a Narsès.
Belisar segue la curatrice del museo. Lei racconta che questa era la casa di suo padre, che nel ’18 aveva ospitato soldati di varie nazionalità. La sua voce ha un che di malizioso, mentre lo invita a girare l’angolo e ad alzare lo sguardo.
Lui obbedisce e vede in un angolo, addossato al muro grezzo, un oleandro carico di fiori rossi.
— Uno di loro ha piantato quest’albero, e anche se non è nel suo clima ideale noi lo abbiamo conservato come un simbolo.
Poi lo prende per la manica e lo invita a rientrare. Belisar ripensa alla sua convalescenza — la mano dell’infermiera, il miele sciolto nell’acqua, l’ombra della sera.
La donna lo invita a sedersi. — Infine, c’è un filmato dell’epoca. Vuole vederlo?
Belisar annuisce, si accomoda nella stanza buia. La curatrice corre ad accendere il proiettore.
Lo schermo si illumina, palpita, lui stringe gli occhi aspettandosi il dolore, ma non accade nulla.
Comincia il filmato.
La curatrice traduce le frasi che appaiono sullo schermo. Belisar ascolta appena: il passato scorre davanti a lui — le stalattiti nelle trincee, il riverbero dei colpi di artiglieria, le dita mozzate dai fucili, la sua ultima carica.
Sullo schermo scorrono le scene girate nell’estate del ‘18: uomini orgogliosi, cannoni abbandonati sulla strada.
Belisar stringe il pugno, sente la bocca secca. Si abbandona contro lo schienale della sedia, gli occhi sgranati. Per quarant’anni si è tormentato, ha sofferto. È sopravvissuto si dice e questo è tutto ciò che conta.
Sullo schermo Narsès agita le mani, la cicatrice bianca e accecante, poi distoglie lo sguardo e lo schermo diventa nero.