Numero 41

Stanza 109 “IANUS”

di Giampaolo Giudice

 

“L’infinito” di Ilaria Cerutti

Oh, sei tu, lo sai che non devi venire a trovarmi qui, finirai per mettermi di nuovo nei guai. Non immagini il casino in cui mi sono trovato l’ultima volta che abbiamo parlato.

Dai, per favore, vai via!

Va bene, allora resta, guarda te che situazione, alla fine si fa sempre come dici tu.

Che cosa vuoi?

Sto. Che domanda idiota, sto. Sono inchiodato al letto dai confetti amari che mi porta il servizio in camera; al centro perfetto di un luogo sconosciuto.  Con in corpo la forza appena sufficiente per stare seduto. Insomma, mi vedi, no? Come dovrei stare?

Alcune volte provo nostalgia per una vita che non c’è più, che forse non c’è mai stata. Sì, ridi pure di me, per quel che vale ormai.

Guarda là, piuttosto, hai portato le nuvole.

C’è qualcosa di rassicurante in un cielo che si ammala di pioggia in una giornata di sole.

Un sipario in chiusura; il sollievo dell’attore che può lasciare morire un personaggio mal tollerato quanto vitale per la sua carriera. O farlo almeno per un po’.

È la parte recitata della vita quella che ci consuma l’anima con la determinata lentezza delle formiche.

Cos’è successo?

Bella domanda. Non lo so, non saprei dirlo di preciso. È successo che un giorno mi sono girato a guardarmi e non c’ero più. Da un giorno all’altro, senza traccia alcuna, solo le stanze vuote in cui si aggirano stanchi i fantasmi di tutti i me stesso che sono stato fino ad oggi.

Cos’è successo, mi chiedi.

È successo che un giorno mi sono svegliato ed era tutto neutro. Finiti i colori, certo, riesco comunque a distinguerli, ma non mi parlano più. Non danno nulla, non sanno di nulla.

Un giorno mi sono svegliato ed ero deserto. Mi sentivo desertificato.

Nessuna emozione.

In piedi in mezzo ai cadaveri di tutto ciò che mi ha sempre tirato fuori una qualunque reazione; tutto intorno ricordi morti ed odore di carne aperta. Ti sei mai tagliato abbastanza a fondo da sentire l’odore della tua carne? Hai presente quel profumo dolce? Scommetto di no, nessuno annusa le sue ferite. Che sono roba da richiudere in fretta, da coprire, chissà perché le trattiamo come se ce ne vergognassimo. Bene, sappi che lì dentro c’è il tuo odore, il tuo vero odore, non del deodorante che usi né quello della pelle; lì dentro ci sei tu.

In piedi in mezzo a quei corpi massacrati; nessun ricordo o sguardo complice a cui aggrapparsi e trovare un motivo per tenere duro. Sentimenti morti nel tragitto dal cuore alle mani. Una distesa di affettività irrancidita diventa poltiglia nera raggrumata in pozze disseccate dal vento, sotto un cielo incolore.

Un deserto esteso dal centro delle vene al luogo in cui il respiro diventa parola.

Le parole richiedevano sforzi di volontà e fisici mai nemmeno immaginati prima, non ostante i quali cadevano nel silenzio come gocce di sangue nella sabbia.

Senza suono.

Perse in migliaia di minuscoli ostacoli.

Le archeologie di me stesso in un mare di sabbia: cadaveri di emozioni già vissute stesi a marcire senza sepoltura, senza tornare utili almeno come ricordo.

Neanche buoni per nutrire cani e corvi.

Cosa ti è successo, mi chiedi, dal mio riflesso nel vetro.

È successo che un giorno mi sono svegliato ed ero un guscio vuoto, in grado di contenere solo uno sconfinato passato morto.

Adesso vattene, ci hanno sentiti parlare.

Vengono per me. Sì, fai presto a dire che non c’è da preoccuparsi, non ti vedono mica. Dicono che nemmeno esisti.

Vengono per me, a causa tua. A far che, poi; che non sono buono neanche per morire.

 


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