Numero 41

Monologo di un’attrice qualunque

di Eva Luna Mascolino

 

“Punta Secca #20” di SaverioPhoto

Io sono colei che mi si crede.

Ho vissuto in una città non troppo grande, in una città come un’altra – le città sono tutte uguali: hanno muri di odio e fiumi d’amore perduto. C’erano concerti di uccelli nella casa vicino al mare che confinava con i comignoli, i cani e l’azzurro. C’erano ville con la piscina, a due passi dalla passerella sepolta di sabbia, e c’erano bambine grasse che sputavano risate roche da una bicicletta e che tiravano le pietre contro i contatori elettrici.

Una volta ho sognato di essere una strega dentro un portone verde scuro, nell’appartamento giapponese di una portinaia che fumava la pipa e che scriveva lettere interminabili al Presidente. Nell’ultima guerra, invece, ho combattuto in sogno, perché non ero nata, ma era presente mio nonno, o forse il nonno di mio padre, non ricordo; eppure c’è stato qualcuno della mia famiglia, l’hanno ferito a morte in una trincea improvvisata in mezzo agli sciacalli e alle infermiere brune con le mani bianche e lisce. Le infermiere hanno amato i caporali e li hanno guariti dalla morsa cieca delle loro maledizioni camuffate, e adesso i loro figli progettano ciminiere e macchine infernali nel centro storico delle metropoli, in occasione dell’Esposizione Universale.

Io sono colei che mi si crede.

Ho viaggiato sugli stracci bagnati del mio rimpianto coccolato dalle stelle cadenti e ho comprato tappeti di follia al mercato delle pulci accanto alle sartorie degli assassini di musica. Avevo un amico che scriveva per me finte poesie, gli suggerirono di non frequentare l’università e di picchiare il suo servilismo nei miei confronti, così l’ho perso, mi ha mandato il suo nuovo indirizzo via posta, ma è un computista alle dipendenze di un dirigente scorbutico, e l’ho perso, anche se non l’ho mai amato.

Non ho amato nessuno mai, tranne qualcuno e tranne mio nonno.

Mio nonno era splendido, allo specchio sembrava un bambino, invece era un vecchio che ballava il tip-tap, ingoiava caramelle alla menta e recitava il mito di Peleo e Teti in soggiorno. Mio nonno era splendido, lui mi amava, e qualche volta anche io lo amavo come solo io avrei potuto, io lo amavo e la Morte l’ha preso con sé in una camera d’ospedale che puzzava di disinfettanti, sangue raffermo, bisturi e denaro sporco. L’ha preso in un letto d’ospedale che sembrava una carrozza e io non ho amato nessuno mai, tranne qualcuno e tranne mio nonno, ma ormai scende la sera, non ho un pozzo dei desideri da contemplare fintanto che sono giovane e scalza, dovrei commissionare una tavolozza ai marinai di ritorno l’anno prossimo e scappare a dipingere l’allegria dell’autunno sotto le botole di tenerezza elettronica del nostro secolo.

Io sono colei che mi si crede.

Non mi rosicchio più le unghie da più di duemilaquattrocentoventisette giorni, li ho contati ad uno ad uno mentre mi votavo all’uomo che ha rifiutato le mie mani curate, mentre mi strappavo i capelli per la nostalgia di non poterlo più possedere, nemmeno nello spazio di un tramonto.

Sulle terrazze dei villaggi vicino ai monti ho imparato a correre, mi sbucciavo le ginocchia per salire a raccogliere il sole e lo vedevo spegnersi un attimo prima che io sollevassi il capo, allora ho imparato a maledire la luna, perché era sola nel buio e non aveva paura, ho imparato a maledire la luna, perché non sa piangere e fa cadere, di tanto in tanto, le stelle fra i palazzi in cui dormono gli eremiti venduti ad una società che pubblicizza promesse.

Io sono colei che mi si crede.

Non ho religione, chissà dov’è stanato il demonio, io l’ho incontrato leggendo la storia di un magrebino squarciato dalla fame e dalla violenza degli invasori, ma forse era solo una tempesta di sabbia nel deserto delle nefandezze umane e degli sconti a fine stagione. Non ho religione, chissà quanti peccati ho commesso oggi per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa, quando ho bevuto dalle pozzanghere i baci di uno straniero tutto occhi e niente passato, quando ho aspettato che mi abbandonasse sul ciglio di una spiaggia ad agosto, con la neve nel cuore a mo’ di caricatura grottesca della felicità.

Io sono colei che mi si crede.

Detesto mio fratello quando schiaccia le bottiglie vuote ed imita i rumori dei passanti distratti dalle proprie disgrazie domestiche, eppure mi ha insegnato a combattere a gambe chiuse, a sorridere allo scirocco che ti fa sudare l’anima e ti addormenta la vita. Mio fratello è una pepita d’oro trovata da un pecoraio analfabeta e io sono il conquistador senza terra che la reclama, perché la ama e vuole trasformarla in lingotto, restituirle la libertà e la nobiltà, pagando il rispetto di chi la osserva ed il timore di chi non la conosce. Mio fratello mi ha insegnato a scavalcare le recinzioni delle bugie e a dissanguare gli errori, lui conosce i segreti delle colline e il suo sguardo viene dai cimiteri pacifici del Settecento inglese.

Io sono colei che mi si crede.

La nebbia si dissolve sui tetti del pane che ho mangiato quando mia madre cucinava fagioli negli agriturismi in mezzo ai boschi. C’era una torre con una leggenda, accanto al ristorante di legno. C’era una pineta, un aeroplano senza motore, un campo da tennis senza palline e una bolla surreale di silenzio e foglie. Di notte ogni scalpiccio sembrava un fantasma e il freddo riscaldava i pensieri più maligni, o forse solo i più ingenui.

Quando ero piccola, sognavo di diventare un’attrice: volevo recitare nel potenziale colossal del secolo, raccontando universi di fiele e miele, volevo vestire in maschera la mia vita ed avvolgerla nell’asciugamano di una finzione qualsiasi, per darla in pasto agli adolescenti americani o del sud Asia, ma la mia ispirazione si arenava in pochi minuti, ogni volta, e la rete della mente e delle dita pronte a immortalare le fughe Bachiane delle mie sinapsi si arrestava, come colta da un crampo improvviso e mortale, incapace di svincolarsi dall’apatia e dal fango creativo nel quale era impantanata.

Una volta, ho pensato di interpretare una vecchia che tornava bambina su un tram e una ragazzina che si scopriva anziana, nello stesso giorno; un’altra volta, ho pensato di diventare una giovane donna capace di leggere in ciascuno la propria storia attraverso gli occhi, nelle stazioni. In mezzo a questi ruoli ne avevo inventati tante altre, più sottili ed eterei. Sono stata anni seduta di fronte a produttori silenziosi che speravo di turbare con forme e memorie di sangue, senza mai avere il coraggio di tagliare a strati le mie avventure e servirle come un sandwich scadente, come l’incrocio di più razze di cane, nel piatto in-fame che è il palco scenico.

Io sono colei che mi si crede.

Per conto mio, non sono nessuno. Forse sono stata qualcuno, forse sono stata qualcosa, per sbaglio, di sfuggita. Ma deve essere stato molto tempo fa, quando non sapevo né ballare né cucinare. Adesso ho la coda da scorpione, la memoria da elefante, i capelli da leonessa, il coraggio di un coniglio.

Adesso non so quanti anni ho, né lo capirebbe chi mi osserva camminare, o dormire, o leggere. Se mi vedessero scrivere, capirebbero – sono una moglie felice, una manager, una disoccupata, un’anziana con l’artrosi, un’adolescente visionaria, un’asceta? Sono almeno un’attrice, adesso?

La realtà è una sala degli specchi deformanti, e io un camaleonte travestito da sirena. Chi sono, quando mi distraggo, quando fuggo da me stessa, quando grido?

Io sono il fiume di memorie

bianche che i nostri

giorni hanno

avvolto con ossa di vetro

e capelli rubati

nelle palafitte dei desideri

inespressi.


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