Il pescatore
di Pietro Romano
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Gonfie di brezze, le vele fendono le onde del mare.
Su rive incerte, scalfite da mari diversi,
si sperde l’ultimo lembo di terra, sbuffi di vento,
il lieve tremolare delle onde, mentre intorno si scorge
su sabbie lisce il solco lasciato dalle ruote di un camion di merci
diretto al mercato. Non lontano si apre l’estuario
salmastro, ignoto al riflesso del faro. Dorme il cane
sul pietrisco, e intorno a corolle spoglie di petali
vagano lucciole come ceneri d’astro nell’aria.
Per strada vola l’ultimo giornale, dove un tempo si fermava
un carretto da vino, dove oggi giace l’ingresso al parcheggio
di un abitato, e poco avanti un centro commerciale.
Per non smarrire pensieri tra le alghe, il pescatore tira
le reti. Il tonno agita la coda, a sussulti,
non piĂą. La morte non muta. Un ricordo raggiunge il pescatore:
quando il padre, bagnandosi il viso, a riva scendeva, il sale
che gli bruciava gli occhi, «Quello è il fuoco del mare» diceva,
«e mai mi spegnerà ». In spalle grosse ceste di pesce,
cantando lo portava alla Vucciria, per barattarlo con pane,
biscotti, latte o piccoli giochi per il figlio. Aspettando la cena
fumava in piedi, alla finestra, mentre il fabbro, di fronte, batteva
il ferro sotto gli ultimi colpi di martello. In mano un cavo
d’ormeggio, il pescatore siede sulla banchina, mentre il cuore
gli resta sulla barca. Come un’onda strappata alla corrente,
lega le funi con mani aggrinzite. Non c’è stanchezza,
non l’ombra di un altro, mentre attende altro silenzio
e dentro sente che il ricordo nulla spartisce col ricordare.