Numero 39

Polvere

di Martina Pastori

 

“The Endless Winter of Kashmir#3” di Camillo Pasquarelli

Una volta c’era del bello, in me.

          Era una bellezza arcana, di quelle ben radicate nel frescore della gioventù, che sbiadiscono ma non svaporano, e lasciano la loro impronta fin nella vecchiaia. Incarnato olivastro, bocca sottile, finemente disegnata, riccioli dorati e occhi chiari e quasi trasparenti, come specchi. Avevo mani pallide, leggere, in perenne movimento sulle note di una musica inesistente, e nelle membra il guizzo inarrestabile di un corpo assetato di vita. La porpora delle mie labbra, la scintilla nel mio sguardo, i profili dritti, floridi del mio volto, tutto – tutto – in me gridava senza posa un inno al candore, all’illibata franchezza dell’adolescenza inesperta, all’ottusità degli ingenui che vagano per il mondo ciechi al peccato, votati al solo puro.

          Poi, sbrigativo ma risoluto, il tempo ha fatto il suo corso.

          Le notti insonni, gli sfarzi, la dissolutezza di un mondo assorto in se stesso hanno infettato l’aria che respiravo, pian piano hanno sgominato la mia innocenza come un morbo la salute, e sul mio viso prima liscio ogni nuova alba era una nuova ruga, ogni colpa una cicatrice, ogni vizio un solco, ogni demone l’ennesima piaga. Una volta c’era del bello, in me. Poi è arrivata la vecchiaia, e le mie guance si sono fatte vuote e cascanti, gli occhi chiari gonfi e acquosi, la bocca volgare e cadente, il collo grinzoso, le mani gelide e chiazzate, venate d’azzurro. L’oro è scivolato via dai capelli sempre più radi, le mie ossa si sono rimpicciolite, contratte. D’un tratto, la pelle era un involucro troppo largo. Sono rimasto solo con la mia disperazione, a decompormi nel buio.

          Gli anni passavano e la polvere cadeva. L’unico rumore, nel nero della mia stanza, era il ticchettio di una goccia d’acqua, in lontananza. Di tanto in tanto, lo zampettare di un topo che spariva nel suo anfratto. Mi concentravo su di loro, sui suoni, quando la solitudine mi mordeva il fegato, quando sottili lame di sole filtravano dalle imposte chiuse, rendendo l’oscurità insopportabilmente densa, soffocante. Lo scalpiccio della gente per le strade, il vociare sfrontato dei giorni di mercato, il battito degli zoccoli dei cavalli sul selciato umido di pioggia, il cigolio delle ruote delle carrozze, lo scampanare della domenica mattina. Il vento che cantava tra le foglie e il respiro caldo della casa, la notte. Le tarme che disfacevano i tappeti e i ragni che tessevano le tele. Il mio stomaco, il mio cervello, i miei muscoli e i miei polmoni che si incancrenivano, si putrefacevano. Il silenzio di ore e minuti e giorni tutti uguali a se stessi.

          Avrei voluto fuggire – da me, da quella stanza – ma non sapevo come. Era troppo tardi, ormai. Così tardi che il tempo sembrava non avere più importanza, continuare ad accumularsi sul tempo formando una crosta legnosa, tanto spessa che non avrei saputo dire quanto ne fosse passato, di tempo, o quanto ancora ne restasse. Sospeso in un limbo tra la morte e la vita, in un niente friabile che non era vivere, né morire.

Il mio ultimo ricordo è quel volto. Lo vedo emergere dal buio, atterrito, sconvolto, nel cuore di una notte qualunque. Vedo le sue – le mie – labbra piene schiudersi in un grido di sdegno. I suoi – i miei – occhi azzurri spalancati, colmi d’orrore. La sua – la mia – fronte giovane corrugata, le sue – le mie – piccole mani frementi, confuse. Sento sulla mia pelle le orme del suo peccato, le mie mani, vecchie, avvizzite, invischiate del sangue che lui ha versato. Vorrei tenderle, mostrargliele, ma non ci riesco. La tela è per me un confine invalicabile, oltre c’è un mondo proibito, c’è il suo, di mondo. Vorrei succhiargli la giovinezza e guardarlo diventare il mostro che lui ha reso me. Vorrei dirgli Dorian Gray, io sono te. Io sono quello che tu mi hai fatto diventare, tutto quello che tu non hai voluto essere.

          Ma non ci riesco. Riesco solo a restare a guardare. Guardo il suo pugno bianco stringersi sull’elsa di un coltello. Lo guardo piantarmi quel coltello nel petto, gli occhi spiritati, il volto distorto da una furia sorda. Sento la lama lacerare il velo sottile di una vecchia pittura, affondare nella mia vecchia carne e conficcarsi a fondo nel mio cuore corrotto. Apro la bocca, urlo. L’ultima cosa che sento è il suo grido, il grido di Dorian Gray, che si mischia col mio, e un attimo dopo non esistiamo più, ma siamo tutt’uno, infine e di nuovo, nella morte.


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