Tre giorni al Natale
di Eva Luna Mascolino

Mancano tre giorni al Natale, tre. Uno, due e tre.
Magari, laggiù, nella nebbia, c’è un militare insanguinato che sta per morire, alza gli occhi verso il futuro e lo pensa anche lui: tre giorni al Natale, e io non ci sarò. Cola il sangue dalle cene coi parenti andate a male, si accartoccia una lettera nascosta nella tasca sinistra dei pantaloni, si irrigidiscono braccia e rimpianti, mentre il dolore si fa freddo e il corpo si tumefà sulle ombre di un’ideologia qualunque, forse di vitale importanza, ma che adesso puzza di morte.
Magari, in Africa, chissà in quale villaggio infangato da un fiume improvvisamente in piena, una bambina correrà su due fragili gambe che ha imparato ad usare da poco. E lei vorrebbe venisse questo Natale, con i regali, le renne, i dolci e tutto il resto: lo vorrebbe, sì, ma nel frattempo muore di fame, è deperita, e nessuno si è preso la briga di insegnarle a morire, o meglio, a vivere, a gioire, a non svestirsi di fronte al padre, ad ascoltare le fiabe, a cantare e, soprattutto, a contare, così non lo sa, non lo sa proprio, che mancano solo tre giorni.
Uno, due e tre. Poi, Natale.
Magari, a New York, in periferia, c’è una puttana che fa un mucchio di soldi ogni notte. Forse lei ha dimenticato cosa sia il Natale, così come quel cinquantenne sposato che, tra tre notti, andrà a scoparsela, senza pensare ai figli che ha lasciato a letto, ad aspettare un Babbo Natale travestito da Uomo Nero. Senza pensare che sua moglie sentirà freddo, che i suoi figli piangeranno, sapendolo altrove, scoperà quella ragazza straniera, in silenzio.
Magari, proprio a tre isolati da voi, un anziano soffre atrocemente per chissà quale malattia inguaribile. Ha i figli lontani: lei, in viaggio di nozze a Praga, con un riccone innamorato della sua gioventù; lui, il maggiore, a fumare e giocare a poker con gli amici, a Cuba, sorseggiando rum, adocchiando le natiche di una barista, mentre in tv trasmetteranno al massimo qualche tiro a tombola. E quel vecchio starà tuttavia a sorridere, mano nella mano con una badante rumena, che a fine mese manderà in patria un misero stipendio per sfamare quel genio di sua sorella e quel bullo del fratellastro. Il vecchio sorriderà, senza niente sapere e niente pensare: ascolterà le canzoni di sempre, trasmesse alla radio nel cuore della notte, mano nella mano con la badante, e sarà maledettamente solo, ma saprà che è Natale.
Lo sapranno tutti, perfino in Cina, dove il Natale non si festeggia; li vedrete uscire di casa vestiti a festa, scambiarsi regali immaginari e sorridere, dopo aver guardato una commedia inglese in tv.
Cosmopolitismo, lo chiamano. Tre giorni al Natale e lo sanno tutti.
Uno, due e tre. È un conto alla rovescia volutamente semplice, devi aver perso la dentiera, per non saperlo dire, devi essere un terrorista pronto a farsi esplodere, per non credere che qualcosa, quella notte, cambierà il nostro maledetto mondo senza bisogno di saltare in aria assieme a uno scuolabus, a un supermercato o a un’ambasciata straniera.
È già successo più di millenovecento volte. Festeggiarono durante le crociate e durante le decapitazioni volute da Enrico VIII; festeggiarono mentre Traiano guidava l’esercito romano come Napoleone in Russia, mentre cadeva neve su Vienna e bombe in Vietnam. Festeggiò Carlo Magno, con una corona nuova di zecca in testa, e festeggiò Einstein, tra i suoi appunti di fisica, mentre milioni di ebrei bruciavano nei campi di concentramento.
Duemila e sedici volte è arrivato Natale. Così come arrivò per i padri pellegrini, poco dopo la prima Festa del Ringraziamento, così come arrivò per Maria Antonietta e Filippo XVI, ormai sepolti, sgozzati, lontani da Versailles, così come adesso arriva per i millennials, pronti a brindare con un bicchiere di champagne in mano e uno smartphone nell’altra.
Duemila e sedici volte è arrivato Natale e nessuna volta è stata come questa, o forse lo sono state tutte. Chissà cosa penseranno, a Betlemme, fra tre giorni, quando nessuna stalla ospiterà un bambino intirizzito, un bue, un asino, tre sapienti sui cammelli; chissà cosa si diranno, in Vaticano, per scambiarsi gli auguri, chissà quanti di loro sorrideranno l’un l’altro, un po’ meno austeri del solito, un po’ meno venali di sempre, in saecula saeculorum.
Venticinque dicembre. A Parigi si suonerà ovunque, in pompa magna, accenderanno le luci e infiammeranno di colori la Tour Eiffel, pittori anonimi dipingeranno ritratti in strada per i fedeli di ritorno dalla messa di mezzanotte, mentre Notre-Dame si sfollerà a poco a poco, nel sacro silenzio della notte.
Uno, due e tre. Manca poco, ormai.
Risulta ormai facile, quasi naturale contare al contrario, comprare gli ultimi regali nei megastore di Buenos Aires, andare a trovare un amico a Singapore, o partire per Istanbul con il fidanzato, senza preoccuparsi degli attentati, perché Natale è Natale, e sarà un miracolo la vita.
Sì, la vita sarà un miracolo. Uno, due e tre, poi tutti si sentiranno felici.
L’aria trema già, là fuori; i regali, sotto alberi dai profumi pungenti, illuminati per l’occasione, staranno mansueti ad aspettare la disfatta di mani straniere che li strapperanno e aggiungeranno ad una lunga pila di altri doni. Le commesse di Bangkok si vestiranno adeguatamente, un po’ più scollate, forse, alla maniera occidentale, ma rigorosamente di rosso, pronte a sorridere agli induisti che non ne intuiranno la ragione. Le lettere dei bambini finlandesi, australiani, cileni, sono state strappate e ricorrette mille volte, in questi giorni più che mai, mentre strambe ed irrealizzabili idee si susseguono con l’illogica e metodica precisione delle menti più ingenue, delle menti, forse, più sincere con sé stesse.
Ci saranno camini che sbufferanno e bruceranno vecchi rimorsi, chissà. Si starà in allegria, giocando a carte, imbottendosi di chissà quali specialità culinarie, ma senza guardare fuori, per paura del freddo, della notte, dell’attesa, di un Babbo Natale troppo stanco e avvilito per ripresentarsi alle porte dei sognatori.
Il conto alla rovescia parte da oggi: uno, due e tre.
C’è chi vorrebbe nevicasse, chi auspica la fine di una guerra protrattasi troppo a lungo, chi si rigira tra le mani un cuore ammaccato. Voilà, stanno tutti ficcati dentro quei tre numeri che danno inizio ad un’infinita serie di operazioni matematiche.
Uno, due e tre. Ci sono i nichilisti, gli avari, i bugiardi, gli illusi, i misantropi, gli sciocchi, i mendicanti, i Presidenti, i cardinali, gli orfani, le modelle, i calciatori, i missionari, gli ipocriti, i creduloni, i miliardari, i bambini, le puttane, i cantanti, le vedove, i vecchi, i viaggiatori, gli assassini, i manager, i rubacuori, i parenti acquisiti, gli atleti, i pensionati, i pittori, gli invalidi, i neolaureati, i mafiosi, i martiri, gli eroi, gli inetti, i poeti, i falliti, i superbi, i geni, gli usurai, i pazzi, i fedeli, gli elettricisti, gli eretici, tutti indifferentemente a tre giorni dal Natale. Tutti pronti a ricordare una nascita di cui non hanno nessun ricordo. Tutti a tre giorni, però, da uno strano miracolo che ridà la vita, a tutti, indifferentemente.
Uno, due e tre. Esploderà White Christmas alle Bahamas, alle Galapagos, alle Hawaii.
Uno, due e tre. Si canterà in coro War is over di John Lennon, fatto fuori da una guerra che non credeva di combattere, proprio come noi, impeccabili uomini del duemila e diciassette, tracannatori di speranze di vetro, persi nel caotico labirinto di un’esistenza cui ci costringe la nostra forza d’inerzia, la nostra vigliaccheria, il nostro senso del dovere, il nostro immortale anelito alla felicità.
Uno, due e tre. Bando a chi piangerà, a chi non saprà rallegrarsi, perché Natale è Natale e nessuno ha il diritto di soffrire, non è vero, signori? Si capisce, nessuno. E, per chi non sapesse più stare allegro, si compri una bella maschera e si camuffi a dovere, perché Natale è Natale, niente conta più di questo, non è vero, signori?
Uno, due e tre, dimentica chi sei, telefona in Arizona per fare gli auguri e addormentati su un divano di fatui pacchetti. Tanto, niente conta più di quelle ventiquattrore di perfetta armonia tra i nove cieli del Paradiso e i sette mari della Terra; niente conta più di questi cinque continenti riuniti da un ritornello spaventosamente noto, ormai: uno, due e tre.
Uno, due e tre. Sarà bello il Natale, quando si starà assieme, a scacciare la solitudine, la monotona malinconia dell’inverno. Uno, due e tre, come per le foto più belle, conservate in album rilegati in pelle ed ammuffiti in cassetti chiusi a chiave, dei quali non daremo le chiavi ai nostri figli e in cui nasconderemo segreti diffamatori.
Uno, due e tre, poi sarà tutto finito.
Poi sarà il miracolo, senza nessuna cerimonia particolare.
Ci sveglieremo tutti, secondo il nostro bel fuso orario, e sapremo che è finita, che non c’è più niente da aspettare, che la vita è rinata, ed è qui e ora, per sempre.
Hic et nunc, in saecula saeculorum.
Ci sveglieremo tutti, senza sentire freddo, per carità. E sarà tutto finito,
finito,
finito,
finito,
finito,
finito per sempre,
davvero finito,
finito,
già affogato
nel
silenzio.