Numero 39

Stanza 616 “Ammit”

di Giampaolo Giudice

 

Studies about myself #11” di Germana Stella

-Sono solo poche settimane di buio, in fondo, l’inverno. Quello vero, dico.

Posso farcela.

Pensava M. sdraiato nella stanza da letto. Erano già le cinque di sera, e il tramonto era già iniziato da un pezzo. Il sole fioco e pallido era già stato inghiottito dalle pareti del cortile in cui restava a malapena luce sufficiente a distinguere i contorni dei rampicanti senza fiori sulla murata. Poteva vedere la sera farsi condensa sul vetro, M. mentre ad ogni respiro ripeteva fra sé: « arrivano, stanno arrivando ».

Sentiva crescere l’angoscia nel petto e guardava il vetro sudare buio e incubi di adulto rimasto bambino.

Solo pochi mesi prima, M., era il fiero possessore di quella che ci piace definire “una vita normale”. Un monolocale in affitto appena fuori dal centro città, un discreto giro di signorine con cui intavolava frequentazioni più o meno importanti e un buon lavoro. Nulla di eccezionale, ma si permetteva una serie di libertà e vezzi tra cui una collezione di Dylan Dog di cui andava molto fiero, una moto d’epoca a cui dedicava il tempo rimasto libero dal tempo liberato dal resto.

Nella sua normalità trovava conforto da una vita che gli era sempre apparsa difficile e impegnativa, impegni che aveva cercato di schivare a ogni occasione utile. La vita si manifestava ai suoi occhi come una montagna insormontabile. Già dal primo mattino. Il risveglio richiedeva una quantità di energie che non gli sembrava di possedere, perciò inveiva quotidianamente -come facciamo un po’ tutti-  contro la sveglia e il sistema economico capitalista che gli rubava la vita ed il tempo.

Gli piaceva anche fare dei giri sulla sua amata e sudata moto d’epoca. Adorava le curve della collina di Superga al sabato mattina.

La sua moto non aveva alcun indicatore del carburante, ma lui aveva trovato un modo per risolvere: azzerare il contachilometri parziale a ogni rifornimento e stimare di tornare a fare benzina una volta raggiunto, più o meno, il chilometraggio di duecentocinquanta. Era anche un uomo distratto, perciò questa operazione non riusciva proprio sempre. A volte non azzerava i giri, altre tirava un po’ troppo oltre il numero stabilito per vedere quanto lontano potesse spingersi. Un po’ quella sensazione di ribellione, di confine sorpassato. Perché abbiamo tutti bisogno di continuare a sentirci sovversivi, ognuno a suo modo. Sta di fatto che il limite lo passò quando non se lo aspettava più. La moto si spense di colpo nel mezzo di una accelerazione, provò a tirare la frizione, ma ormai aveva iniziato a sbandare e finì contro il muretto di protezione.

Passò le successive sei settimane in coma.

Non tornò più lo stesso. O, meglio, tornò lo stesso, ma non riusciva più a dormire, così diceva a chi lo conosceva bene.

Mentiva.

Quello che non spiegava è che dal coma in poi era convinto di aver visitato l’inferno. E che, dall’inferno, non fosse più possibile uscire davvero.

La notte sentiva la pelle bruciare, non una febbre, non una fiamma, ma centomila aghi roventi che sembravano volessero uscire da sotto alla sua pelle. Ogni volta che stava per addormentarsi sentiva di sprofondare nuovamente nell’abisso.

Iniziò a comportarsi in modo sempre meno giustificabile, inspiegabile per chi gli era sempre stato vicino. Cercava di restare sveglio in ogni modo, fino al punto di trovare un equilibrio. Equilibrio non condiviso dal vicinato: musica a volumi esasperanti. Funzionava, diamine se funzionava. Almeno finché la polizia non lo obbligava ad abbassare se non a spegnere del tutto.

Era allora che iniziava a urlare. Non erano grida di rabbia o di dolore. Erano lamenti di terrore puro. Non si potrebbero descrivere meglio.

Riusciva a prendere sonno, ma poi iniziavano le invasioni degli insetti che iniziavano a entrargli nella carne e a strappargli minuscoli morsi mentre si sentiva bruciare ogni fibra del suo corpo dall’interno. Ragni arrivavano da luoghi misteriosi e innominabili, entravano dalla finestra rompendo i vetri con i pazienti picchettii delle loro zampe asciutte e veloci prima di muoversi in modo rapido verso M. che li guardava atterrito.

Così iniziavano le grida e con loro le luci accese nel condominio.

Quella notte le forze dell’ordine lo trovarono che dormiva nudo, per terra, abbracciato a un blocco di ghiaccio. Le pareti erano graffiate, con segni di unghie che diventavano scie di sangue, vetri rotti sui tappeti di Ikea, caduti da finestre sfondate. Cartacce sul pavimento, polvere di settimane accumulata sui mobili economici e tende abbandonate al vento.

-È l’unico modo!

Urlava.

-Voglio dormire! Vi prego, voi non capite, non capite.

Mentre le grida affogavano in pianti isterici gli operanti lo portarono in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio.


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