Il dolce requiem di Marlene
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L’alba aveva raggiunto gli occhi di Ernesto che erano chiusi e che sarebbero rimasti serrati per tutto il giorno, fino a sera, fino al canto delle civette e alle urla di Mario, il portiere del palazzo dove viveva.
L’alba aveva raggiunto anche Marlene che invece aveva gli occhi aperti già da prima che il sole si levasse in cielo. Si alzò dal letto, si preparò con delicatezza, senza far rumore, era sua abitudine non fare rumore, non urlare, non arrabbiarsi, non portare rancore, sorrideva sempre Marlene, non si affannava mai a darsi spiegazioni inutili. Era delicata come i contorni morbidi del suo corpo, lunghe curve sulle quali le mani non avrebbero dovuto incontrare mai autovelox e controlli, un circuito di Kart che si sarebbe dovuto alternare a lente sfilate, parate militari, un’intermittenza dei sensi e dei tocchi con il solo e unico scopo di vederla felice.
L’alba aveva lasciato il posto a un sole poco intenso, nascosto da nuvole pesanti e pigre, proprio come il passo di Ernesto che, con gli occhi chiusi, fuori dal letto, cercava il suo sorriso, non ricordava dove l’aveva lasciato, sul comodino forse? Nella credenza con i calici da bianco? Nel garage di Stella, la sua prima fidanzatina? Dov’era scappato il sorriso di Ernesto? Passò oltre la domanda, non cercò la risposta, ma si lavò i denti davanti allo specchio rigato, indossò la felpa rossa, la sua preferita, e lentamente percorrendo una strada desolata, raggiunse il suo loculo.
Quella mattina Ernesto non avrebbe incontrato Marlene e non l’avrebbe fatto mai più per tutta la sua vita. Era volata via Marlene, verso un orizzonte lontano e bianco, la sua figura si sarebbe stagliata oltre il suo ricordo, oltre il ricordo delle loro mani intrecciate, oltre i suoi occhi, ma quella stessa mattina era come se tutti i cieli di galassie parallele volessero toccarsi, anche se per un solo istante, in un tempo infinito, in un infinito senza speranze, dove non ci sarebbero state lettere d’amore, inconsolabili monologhi o poesie strappate dalle mani di uomini morti in guerra.
Ogni pietra di quella piccola città era malata, angosciata per la distanza dei loro due corpi appesi al niente. Appesi, forse, alla speranza fanciullesca di ritrovarsi altrove, tutto si sarebbe perso nel fragore di un silenzio, in una stretta di mano sterile, bianca. Senza tonalità , senza le tonalità rosso sangue con le quali loro quella mattina non guardavano il mondo. Ogni battito del loro cuore era un requiem per quello che non erano mai stati e mai sarebbero stati, tutti i profumi si sarebbero mischiati alle piastrelle maleodoranti di quella città avvolta dalla disperazione, plasmata da sguardi sempre indiscreti, mai caritatevoli, carichi d’odio, di frustrazioni antiche.
Il tempo sarebbe scorso come la vita che sarebbe andata oltre quel momento, oltre il resto dell’amore che avrebbero regalato a loro stessi, tutto di loro si sarebbe consumato come baci desiderati, e nudi si sarebbero persi nella noia delle spiegazioni, delle troppe parole che erano finite ormai da tempo.
Il desiderio però era cresciuto come un cucciolo allattato da una tigre libera, quello stesso desiderio che li avrebbe fatti diventare un solo corpo con le loro due anime intrecciate come funi legate ad alberi maestri di galeoni pronti per l’assalto.
Un ammaraggio su un fiume prosciugato che non li avrebbe mai condotti prima a una foce e poi al mare, poi oltre le acque in tempesta e mai avrebbero attraccato su un’altra sponda.
Ernesto era arrivato nel suo loculo, si era seduto sulla sua sedia e mentre lentamente apriva gli occhi perdeva i contorni di Marlene, il suo volto si macchiava, il naso scompariva, il suo corpo si disgregava, le  mani cercavano le sue che si erano dissolte nel vuoto, dimenticava le sue parole, i passi condivisi, le dita a sentirgli il cuore, l’emozione, l’amore che si erano strappati dal cuore.
Dov’era Marlene?
Marlene era stata un miraggio ed era arrivata improvvisa come i sogni nella notte di Ernesto e proprio come i sogni si era dissolta, come se non fosse mai esistita. Ernesto l’amava e, nel suo loculo come un uomo senza memoria, la cercava per sfiorarle ancora le mani che, forse, non si erano mai screpolate, che forse avrebbero toccato altre acque e si sarebbero tuffate in altri mari, ma questo non era importante, per lui era stata un sogno lastricato da un amore puro, senza colpe, tenero e gentile, lentamente improvviso come la nascita di un nuovo essere. Erano stati fortunati ad incontrarsi, a vivere a tratti, uno dell’amore dell’altro.
Marlene era stata in grado di strappare Ernesto alla morte, di condurlo alla bellezza, alla meraviglia, era stata respiro in un mondo che lo portava all’ipossia dei sensi. Marlene era luce e vampa, il sudore della passione, lacrime e ricordi.
Era stata e adesso era svanita come una colomba nera nel cilindro magico del destino.
Marlene in un altrove sconosciuto, sotto un cielo bianco, sorrideva e lontano da tutto un poeta muto recitava urlando: “Ma lascia almeno /ch’io lastrichi con un’ultima tenerezza /il tuo passo che s’allontana.[1]”
[1] “Lilička” di  Vladimir Majakovskij, a cura di Serena Vitale, Garzanti, 1972. Traduzione di Angelo Maria Ripellino.
Fondatore de L’Irrequieto, nato nella valle del Sauro, in Lucania,  nel 1986.
Ha pubblicato due silloge poetiche: La vita di una morte, LibroItaliano, Ragusa 2005 e Gl’oratori del nulla, Amorsog et Oream, Il filo, Roma 2007.
Scritti pubblicati su L’Irrequieto.
Donatello Cirone: donatellocirone@irrequieto.eu