Il ritorno – Storie di ben poca mondanità
Giada Tommei

La macchina faceva il solito strano rumore allo sterzo. Una specie di crack quando prendeva le curve troppo strette, che le faceva pensare ci siamo, adesso si rompe qualcosa e mi schianto in qualche muro. Eppure, ogni volta, la macchina filava dritta verso casa, sgassando rumorosamente durante il parcheggio per via di una frizione decisamente malandata. Scendendo dall’auto, la borsetta si impigliò nel cambio facendole fare un goffo e selvatico movimento per non cadere. Un classico: tutta questa fatica per sembrare attraente per poi, alla prima occasione, prender le sembianze di un tricheco antartico ripreso a tradimento da National Geografic. Camminando a passo svelto verso il grande portone di casa, Fedora sentì dentro lo stesso insolito mix. Da un lato la fretta di entrare nel rassicurante atrio del palazzo rincuorata dal non esser stata rapinata, malmenata o addirittura uccisa; dall’altro, l’irrefrenabile voglia di camminare lenta, gustandosi l’aria fredda delle tre di notte e respirando il silenzio ovattato di un marmoreo, spaventoso e accogliente centro storico.
Poteva scegliere una via di mezzo, ma non lo fece: non lo faceva mai, nella vita. I suoi gesti erano sempre netti, impulsivi, radicali: virate decise a destra o a sinistra che producevano nel suo cervello lo stesso identico crack dello sterzo della sua macchina. Doveva davvero imparare a trovare la giusta misura: in questo modo avrebbe potuto dosare se stessa, il dolore, la felicità, la pesantezza ed il coraggio. L’umidità della notte aveva creato una leggere guazza sui sampietrini: per fortuna che non portava mai i tacchi, altrimenti sarebbe senza dubbio scivolata finendo realmente in un documentario di scimmie bonobo. Aprì il portone con un po’ di fatica, guardandolo con ammirazione e intensa devozione: era così bello, con il suo legno antico e la sua maniglia di ferro battuto. Era come l’ingresso ad un mondo sicuro: un universo caldo che la vita le aveva donato e che con tanta fatica si sforzava di mantenere. Arrivata alla ben più piccola porta del suo monolocale, Fedora si sentiva sempre molto grata; era come se , aprendo la porta verso l’unico vano cucina- salotto-ingresso, un vortice di aria calda l’abbracciasse forte togliendole di dosso il freddo , esterno ed interno, della giornata. Si avviò verso il lavabo e riempì un pentolino di acqua corrente: poi lo mise sui fornelli e accese il fuoco. Era un rito che aveva inconsapevolmente preso da sua madre: scaldava dell’acqua e la usava per riempire l’apposita borsa. Poi la metteva sotto il piumone e andava a prepararsi per la notte. Grazie a questo espediente non solo le coperte erano già calde, ma poteva godere per tutta la notte di un dolce e rincuorante tepore. Molto spesso, in realtà, il rito si presentava anche quando non era poi così freddo.
Si tolse velocemente il trucco, passando dell’acqua sul viso con una casuale quantità di sapone per le mani spruzzata senza senso su uno dei suoi palmi: il risultato di tanta svogliatezza era una nera e pastosa linea sull’occhio destro che, non sparendo mai completamente, finiva puntualmente per macchiare il cuscino. Le orecchie ancora le fischiavano dalla musica di quella sera: troppo alta, troppo techno, troppo tutto. Fedora non amava la bolgia, così come non amava uscire spesso: non era mai stata la regina della festa, né a 16 né a 30 anni. Di locali ne amava davvero pochi ed erano per di più luoghi molto tranquilli dove il sound circostante permetteva una qualche conversazione : tutti gli altri, erano vere e proprie fonti di ansia. Luoghi dove vai per sudare e per respingere chi ti cade addosso, pestandoti i piedi tra un salto e l’altro con tanto di braccio alzato come a darsi lo slancio per chissà dove. Due ore passate a mettersi in ghingheri per poi entrare in una serra industriale che in un attimo rende i tuoi capelli un’informe massa nodosa che cadrà rovinosamente ai lati di un viso sudaticcio, dove il trucco non potrà che arrendersi. L’unica cosa da fare, per evitare di riconoscersi passando davanti gli specchi, è bere. Impiegare quei 40 minuti in fila per il bar nei quali ti riprometti che la prossima volta col cavolo che ti fregano, e prendere un cocktail che di Cuba ha decisamente poco figuriamoci di Libre. Scusi, me lo fa senza ghiaccio?: qualcuno, un giorno, aveva confidato a Fedora che la grande quantità di ghiaccio utilizzata dai barman era un odioso trucco per versare poca bevanda. Ogni volta, dunque, in un rivoluzionario tentativo provava a fregare il barista chiedendo cortesemente di metterne meno: trovandosi per l’ennesima volta un iceberg nel bicchiere, aveva allora la certezza che la serata sarebbe il solito, perenne e insindacabile schifo.
La sua amica si dimena sotto cassa, muovendo le anche ora verso questo ora verso questa: Fedora decide di entrare nella mischia e provare a scatenarsi. Eppure, dopo poco tempo qualcosa sembra frenarla: è come se una mano scesa dall’alto le fermasse la testa toccandola con un dito li dove, un tempo, c’era la fontanella. E così, come una giraffa che passa la serata al villaggio degli Elfi, Fedora si ferma improvvisamente in mezzo alla pista. Intorno a lei, gente scalcia e si dimena: ridono, ballano, cantano, bevono, fumano, si stringono. È l’ora di allontanarsi. Vado un po’ di la, qui fa troppo caldo! L’amica le mostra il pollice ed ecco che la festa, da quel momento in poi, sarà semplicemente costituita dal contare le mezzore che la separeranno dalla fila verso l’uscita. Il sapone del discount non riesce a lavar via bene il timbro del locale: a cose serve marchiare il dorso di una falange dopo aver pagato, non l’ha ancora capito. Lo starlight è particolarmente duro da togliere: un leggero suono da sforzo lo accompagna durante il volo dal polso al pavimento. Vieni te lo lego io! , urlò l’amica mentre si avviavano verso il bagno. Hai visto qualcuno di interessante? , le chiede in fila. Si, cioè. Forse un tipo, che mi ha guardata mentre bevevo un bicchiere d’acqua, poco fa: in realtà forse aveva pensato fosse grappa liscia perciò era semplicemente attonito, ridacchiò. L’amica, riportandola immediatamente alla cruda realtà, sottolineò che il tizio aveva sicuramente intravisto le bollicine, comprendendo così che si trattava di acqua. Prendiamo un’altra bevuta, dopo! Ok?. Di nuovo si alzano i pollici: parlare a gesti è davvero importante quando hai impiegato tutta la tua voce nel misero tentativo di superare i decibel delle canzoni che si sprigionano.
In bagno, sospesa sopra il water reggendo con una mano la borsa con l’altra se stessa al muro, Fedora si sofferma a leggere le scritte sulla fatiscente porta scrostata. “Maura, torna da me”, “Chiamami per notti indimenticabili” , “Scusa sono uno stronzo”: chissà quale disperazione aveva spinto un qualche sconosciuto a scrivere quelle parole così apparentemente insignificanti, sul muro di una squallida discoteca di città con le mani ancora umide di urina. Forse anche quel qualcuno, muto come lei dentro quel cesso, si sentiva sbagliato: quella porta, alla fine, andava solo ringraziata. Anche Fedora, nella sua casa, scriveva casualmente frasi su di una lavagnetta appesa in cucina: l’ultima che aveva scritto era “perdoname”. Era il solito senso di incomprensibile dualità: da un lato la voglia di sigillare un perdonami dentro una busta e inviarlo ad un certo indirizzo, dall’altra la voglia di ricevere quella stessa parola in quella stessa busta da quello stesso indirizzo. La soluzione, come sempre, sarebbe stata la famosa via di mezzo: tipo scambiarsi le buste insieme e nello stesso tempo, come quando in una battaglia si abbassano le armi contemporaneamente.
Doccia, per lavarsi via i fiati degli altri e gli eventuali schizzi di saliva che volano nell’aria: bagnoschiuma all’aloe vera, un forte getto bollente su tutto il corpo. Fedora faceva sempre tutto con l’acqua calda: persino i denti, li spazzolava così. Roba che a tanti farebbe venire un conato. Un brivido di freddo le scese lungo la schiena, al contatto tra il vapore prodotto e l’aria più fredda della casa. Il pigiama di pile è come una sacro rifugio: Fedora non era credente, ma se ci fosse stato un santo protettore dei pigiami lo avrebbe pregato e avrebbe dato regolari offerte. I capelli le puzzavano di fumo: quelli non li aveva lavati altrimenti avrebbe fatto l’alba. La sala fumatori della discoteca era ancora più gremita e ancora più puzzolente del locale stesso. Quando vi era all’interno, Fedora restava semplicemente a guardare: era anche lei una fumatrice, ma il senso della sigaretta era per lei libertà, dunque preferiva aspettare il momento dell’uscita. In quel momento, la Marlboro era come un premio per le fatiche appena impiegate: il primo anelito di fumo che entrava nella sua gola era l’inizio della strada di ritorno, verso la sua amata casa. Si mise del borotalco sulla cute, sperando così che il buon odore distruggesse lo sgradevole fumo intriso nelle sue ciocche. Guardandosi allo specchio, non si piacque.
Ai margini della pista, dentro il locale, si era sentita un’aliena: perché non riusciva anche lei a lasciarsi andare? Il suo maledetto corpo, un giorno, aveva deciso di non farla più ubriacare: poteva bere quanto voleva e ne avrebbe guadagnato solo un fastidioso e momentaneo giramento di testa che assomigliava all’inizio di un attacco di panico, se non lo era davvero. Ma Fedora era così: magari un giorno accompagnava un amico a far spesa e alle 5 del pomeriggio trangugiava due Spritz di fila finendo per ridere come una matta nel parcheggio del centro commerciale, ma nelle discoteche non riusciva a sciogliersi. Fare tardi, poi, era per lei una tremenda scocciatura: non perché avesse sonno, ma perché amava distrarsi a letto senza paura del telefono.
Salì le scale e si diresse in camera. Le facevano male i piedi, perché comunque aveva ballato molto: in tensione e vicino a vie di fuga individuate poco prima, ma aveva ballato. Perché poi, quando ti ritrovi in una qualche situazione dove non vorresti essere, in qualche modo ci provi ad adattarti: pensi che se 1000 persone intorno a te riescono così bene a fare una cosa, alla fine deve essere facile. Ti rimproveri di essere la solita guastafeste e allora inizi a muoverti da una parte all’altra del minuscolo quadrato d’aria che ti sei guadagnata a gomitate, alzando le ginocchia e muovendo le braccia in una qualche danza burattinesca che a momenti magari ti appartiene anche. Incrociando gli occhi degli altri, alcuni sorridono: forse anche loro, pensò Fedora, hanno appena scoperto di voler essere altrove ma devono rimanere per non sembrare scortesi. E allora, quando captano lo sguardo di un altro alieno come loro, si sentono felici e meno soli. Perché non creare un locale apposito per quelli che si sorridono in pista mentre gli altri si sballano? pensò riponendo i Jeans nell’armadio.
Alzando le coperte si accorse che mancava qualcosa: la borsa dell’acqua calda! La pentola bolliva ormai da venti minuti, l’acqua era ormai quasi totalmente evaporata col risultato che non era più sufficiente a riempire la borsa. Una volta a letto, poco prima di assopirsi, il telefono produsse un improvviso beep: “A domani”. Fedora pensò a quante persone avrebbero voluto che quel domani non esistesse: poi aprì whatsapp e rispose “Non vedo l’ora di non vedere liberamente l’ora”. Ecco cosa accade quando dimentichi ciò che per te è importante, ma sei talmente fortunata da avere sempre qualcuno o qualcosa pronto a ricordartelo.