Augusta D.
A Luigi V. e Alois A.

La stanza era vuota, i fornelli della cucina erano freddi, le pentole lucide, i piatti puliti. Le pareti senza quadri, la porta chiusa, un divano appoggiato a una delle tre pareti libere faceva compagnia a una scacchiera senza scacchi rossa e verde. In un’altra camera, lontana dal suo mare dormiva Nicla, i suoi capelli lunghi erano sparsi sul cuscino di seta nera, il suo viso restava fiero anche nel sonno, accennava un sorriso. La luce entrava dalla finestra alla sua sinistra delicatamente, con dolcezza le accarezzava le mani, il naso e le palpebre nude. Il raggi di sole, per non svegliarla, perdevano d’intensità, si raffreddavano.
Sul divano, seduto a gambe incrociate Remo voleva morire, e non perché il suo mondo fosse crollato o perché la sua anima si era arsa. Non era triste, né depresso. Non gli era successo niente di traumatico tale da giustificare quell’incredibile voglia di distruggere la sua carne, frantumare le sue ossa, disperdere il suo midollo sfracellandosi al suolo – si sarebbe lanciato da un ponte forse, o forse si sarebbe fatto trasportare da un fiume qualunque come un sacco pieno di inutilità verso il mare. Non si sarebbe mai avvelenato – il suo corpo, con il veleno, almeno in apparenza, sarebbe rimasto intatto – lui invece voleva vedersi da un altro mondo come carne morta straziata, carne orribile, carne sfatta come quella di una carogna morta nel Serengeti. Sul quel divano Remo sorrideva alla sua anima e voleva morire, la vita non era stata cattiva con lui, anzi gli aveva donato amore e meraviglia, un corpo forte, un paio di mani delicate, un naso lungo, un collo grosso. Era stato fortunato Remo, lo era sempre stato e si sentiva così anche su quel divano mentre la voglia di morire si impossessava di lui, lo abbracciava come i capelli di Nicla facevano con il suo viso.
Era fermo su quel divano, in quella sua stanza vuota. Vuota come i ricordi di Giulivo che, in quello stesso momento, in un angolo bianco di una stanza bianca, popolata da camici bianchi, di un istituto bianco, fissava le sue mani, le sue unghie trasparenti e non le riconosceva. Era come se quel corpo e quella mente e quelle stanze e quel mondo fossero andati in asincronia, come se si fossero tutte posizionate su orari diversi – un fuso orario dell’anima – tutto in lui era come avvolto da un telo nero, non aspettava niente Giulivo, non desiderava niente, mille improvvise emozioni gli inondavano il cervello come un fiume in piena e perdeva i confini, i ricordi strabordavano oltre il greto e si perdevano, assorbiti dal niente, non aveva recipienti Giulivo per trattenerli, per conservarli e i ricordi come gocce in aria evaporavano lontano da lui che restava con gli occhi aperti in mezzo alla stanza vuota. Giulivo insieme ad altri sconosciuti come lui si muoveva a rilento e con il desiderio nascosto di trovare qualcosa, un pezzo del viso di un figlio, il nome di una moglie lontana, le mani di un nipote cresciuto troppo in fretta. Si muovevano in quella sala bianca tutti con la stessa intenzione, tutti con gli stessi movimenti, tutti in cerca di loro stessi, del loro viso nascosto, dei contorni della loro vecchiaia. Si erano persi tutti e non si trovavano negli specchi, sulle posate, sulle sedie scomode. Non si trovava Giulivo negli occhi degli altri, tutto era estraneo fuori dalle sue orbite. Dov’era Giulivo?
Giulivo era lontano da Remo, lontano da tutti, lontano dalla sua famiglia, dalle sue zappe lucide, dalla sua casa e dal suo letto, dalle sue lampade, dalle sue buste accumulate senza un perché, era lontano dai suoi ricordi, dal suo passato che si era sgretolato come una zolla di terra sotto il passo selvaggio di bufali d’agosto.
Remo era fermo. Immobile su quel divano comodo, con le braccia conserte in quella stanza vuota da riempire di mobili e libri, di anticaglie fintamente borghesi, era solo Remo con gli occhi chiusi in quella stanza vuota, da solo e con la consapevolezza amara che non avrebbe mai più potuto riempire la testa di Giulivo con i suoi ricordi, con i racconti della vita che era passata, non avrebbero ricordato insieme le estati roventi passate in campagna sotto le querce, sopra gli ulivi, non si sarebbero mai più raccontati il tempo che era sfuggito come una serpe dal suo uovo, non si sarebbero mai più guardati negli occhi e abbracciati con quel senso profondo del sangue sopra il sangue.
Remo era fermo, immobile su quel divano con quella strana voglia di morire che aveva lasciato il posto a una dolcissima malinconia, il viso di Giulivo che si era materializzato davanti ai suoi occhi aveva aperto un canale di ricordi che era esondato oltre i ricordi, oltre il cuore, si era sparso per tutto il suo corpo, lo aveva fatto tornare indietro, tornare indietro a quando spensierato sorrideva in braccio a Giulivo in attesa di una carezza, in attesa della merenda, era tornato indietro a quando giocava accanto a un canale pieno di girini neri, alle storie che Giulivo chiamava “antiche”, alle rane. Era tornato indietro al calore di quelle estati piene di corse, di urla e di vita.
Era fermo Remo su quel divano comodo mentre Giulivo gli accarezzava il viso nei suoi sogni, tornati per un attimo bambini, sogni che si erano schiusi dentro il suo cuore e che avrebbe custodito lui per tutt’e due.
Fondatore de L’Irrequieto, nato nella valle del Sauro, in Lucania, nel 1986.
Ha pubblicato due silloge poetiche: La vita di una morte, LibroItaliano, Ragusa 2005 e Gl’oratori del nulla, Amorsog et Oream, Il filo, Roma 2007.
Scritti pubblicati su L’Irrequieto.
Donatello Cirone: donatellocirone@irrequieto.eu