Numero 38

Attese

di Elena Ramella

“Meditazione” di Ilaria Cerutti

Era stata lei a far voltare dalla sua parte un viso che guardava, semplicemente, altrove.
Qualcuno le aveva detto che l’amore era un gioco d’azzardo al quale si poteva perdere tutto quello che si aveva. Tutto.

“Penso sia piuttosto annegare”, aveva ribattuto.

Aveva dato tutto per una breve notte, e ne era valsa la pena. Poi le stelle erano passate, i giorni erano passati, le settimane erano passate, e lei aveva pianto tutto quel che aveva da piangere, ed era stato come spremersi il cuore fino a farsi male.
Qualcuno le aveva detto che l’amore era attesa, lei si era messa ad aspettare.
Aveva ripensato ad una leggenda, in cui una donna aspettava il suo amante, di notte, nella foresta. Lei aspettava nient’altro che una chiamata, ma l’ansia era la stessa.
Aspettava e tutto attorno a lei le sembrava irreale. Sedeva al tavolino di un bar, e guardava le altre persone entrare. Loro non stavano aspettando, loro non potevano capire, loro la guardavano con la coda dell’occhio, ma non vedevano il suo corpo imperlato di sudore freddo sotto ai vestiti leggeri.
Lei aveva raggiunto la forma più pura e altra dell’attesa: seduta sul bordo del letto, con una mano sul telefono, immobile, senza fare altro, aveva aspettato per ore.

“Aspettare è impazzire.”

Il nodo in gola le aveva impedito di respirare, ogni boccata d’aria era stata una lama fredda conficcata nei polmoni.

“Sto per impazzire. Adesso impazzisco.”

Ma ogni volta c’era stato qualcosa che l’aveva salvata, un telefono che squillava. Restava in piedi, sulla soglia dei cinque sensi, lontana dal mondo che la circondava, ma non sveniva mai. Restava semplicemente lì, fuori da tutto, fuori da se stessa.
E anche quando l’attesa era finita, anche quando aveva afferrato la borsa e aveva sceso i gradini due a due, uscendo nella notte che profumava d’estate, si era sentita come gli amputati che sentono ancora dolore nella gamba che non c’è più. Il sorriso d’amore era in grado di arrivare nella parte più profonda del suo cuore, e di guarire la ferita che fino a pochi istanti prima era un’emorragia. Ogni sofferenza aveva fine nel punto esatto dove si incrociavano i loro sguardi dopo l’estenuante attesa.
Era stata lei a richiamare la sua attenzione, bisognosa di calore e di silenzio.
Che aria allegra che avevano, nel locale, quella sera, i divani vuoti. La bufera era arrivata, lei vi era andata in contro, sporgendosi un po’ di più dall’altra parte del tavolo.

“Sono innamorata? Sì, perché sto aspettando. Sì, perché ho aspettato, e aspetterò ancora.”

Nella luce del mattino lui l’aveva tenuta stretta contro il suo petto.

“Dicono che i fiumi, prima o poi, arrivano tutti al loro oceano.”

Aveva sollevato lo sguardo, aveva guardato l’ombra delle sue ciglia sulle guance.

“Lo sai?”

Lui le aveva dato un bacio sfiorandole la fronte, prendendole il viso tra le mani, per guardarla meglio.

“Ho aspettato tanto, così tanto. Amare è saper aspettare.”


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