Numero 38

Grigio incanto

di Martina Pastori

 

«L’ho perso. Non è che qualcuno l’ha visto?».

Erano trent’anni, che lo chiedeva. Trent’anni, sette mesi e otto giorni, a essere precisi. Millecinquecentottantanove settimane, tredici ore e trenta minuti, a voler essere pignoli. Si era consumato i talloni e la vita sulle strade di tutta Europa – Europa, non oltre, perché la pensione era quello che era e viaggiare, coi tempi che correvano, un salasso. Era partito un lontano mattino d’inverno, un mattino d’un bianco più bianco del latte. In quegli undicimilacentoventitré giorni e mezzo s’era perso cinquantadue volte, la prima in Francia, in Costa Azzurra, e l’ultima a Vienna, nei pressi di un café che, era pronto a giurarlo sulla sua cuffia da bagno a fiori, serviva la miglior torta di mele del mondo civilizzato. Morbida quel che bastava per i denti che gli restavano, spessa il giusto, generosamente spolverata di cannella.

Nel giro di duecentosessantaseimilanovecentosessantacinque ore, sottraendo quelle riservate al sonno, in media sei ogni notte, e secondo un calcolo pur sempre approssimativo, aveva incontrato oltre duecentomila persone, e, complice una memoria ormai difettosa, dimenticato le facce di oltre metà di loro. A tutte aveva rivolto la stessa, zoppa domanda, opportunamente introdotta da un buongiorno o buonasera e preceduta da una frase di sole tre parole – otto lettere e un apostrofo, a voler essere pedanti: «L’ho perso. Non è che qualcuno l’ha visto?». Non entrava nei dettagli: oltre a essere un fermo oppositore di ogni tipo di spreco, incluso quello di fiato e parole, era convinto che, se qualcuno l’avesse in effetti visto, il qualcuno in questione avrebbe saputo di cosa stava parlando. Erano trent’anni, che lo chiedeva. Erano trent’anni, sette mesi e otto giorni che nessuno vedeva niente.

“Milan l’è on gran Milan #2” di SaverioPhoto

Non che lo ignorassero, questo mai. Solo, le risposte erano sempre nuove domande: cos’era che aveva perso? Un ombrello, il cappello, un cane, un nipotino? Un mazzo di chiavi, magari? Oppure il filo del discorso, o un dente? Il sonno. Doveva aver perso il sonno. O forse no. Forse aveva perso la bussola, o le staffe, la memoria, era senz’altro la memoria. La pazienza. La fede. Il treno. I capelli? No, quelli no, quelli li aveva ancora, se si guardava bene, in controluce. Insomma, si poteva sapere cos’aveva perso? Non ci fu nessuno che, mosso da curiosità o dal reale desiderio di tornare utile, non gli rivolse queste o simili domande. Eccezion fatta per un bambino in carrozzina, troppo inesperto del mondo per parlare, per un gatto randagio e per un muto. Ma lui, il vecchio, a ogni nuova domanda si limitava a crollare il capo, a scivolare via lesto e in silenzio, reggendosi al bastone da passeggio un passo sì e l’altro no. Dove andasse, nessuno lo sapeva, nessuno se lo chiedeva. In quei trent’anni, sette mesi e otto giorni aveva dormito in centoquarantanove letti diversi: a castello, a scomparsa, a baldacchino, a soppalco, singoli, matrimoniali, a una piazza e mezzo. Aveva usato settantotto diversi tipi di saponette per le mani: al miele, alla lavanda, alla glicerina, all’olio d’oliva, al limone, persino al cioccolato. Di rado si fermava nella stessa città per più di tre, quattro mesi. Aveva preso centonovanta treni e il doppio degli autobus, timbrato cinquecentosettanta biglietti – a tariffa ridotta, s’intende – e incontrato ventidue controllori. Aveva usurato centosessantuno camicie, molte delle quali già passate di moda decenni addietro, e centosessantadue maglie della salute. Aveva stretto centomilanove mani sconosciute, e disinfettato le proprie, di mani, un ugual numero di volte. Ogni volta che lasciava un albergo, un ostello, una pensione, si portava appresso una valigia di cuoio dai bordi rossi, suscitando la compassione del facchino di turno, che puntualmente finiva per accompagnarlo fino alla destinazione successiva. In quei trent’anni, sette mesi e otto giorni fu a Parigi, a Madrid, a Barcellona, tre volte a Lisbona, a Rotterdam, Manchester, Budapest, Bruxelles, Roma, Francoforte, Lione, Belgado. Provò la paella di Valencia e fece il bis di wurstel con crauti. Non smise mai di dire, a chiunque incontrasse: «L’ho perso. Non è che qualcuno l’ha visto?», in media sessantatré volte al giorno – considerando come giorno le ore comprese tra le otto del mattino e le otto di sera.

Ogni volta che entrava in possesso di una nuova camera, con mirabile metodicità e un colpo di reni sollevava la valigia e la posava sul letto. Per riprendersi dallo sforzo gli occorreva sempre qualche minuto. Dopodiché apriva la valigia e distribuiva i propri effetti personali tra un nuovo armadio, un nuovo comò, una nuova scrivania. Tolti gli indumenti, non era molto ciò che possedeva: un tomo intitolato Elementi dell’algebra, lontano ricordo di quattro decadi spese a insegnare in un liceo, un porta occhiali di plastica, uno spazzolino da denti, fazzoletti di stoffa azzurra – in numero di sei – e un rotolo di scontrini tenuti insieme da un elastico. Oltre a ciò, un taccuino. Non un taccuino qualunque, sia chiaro: era un taccuino pieno di colori. Per meglio dire, era pieno di grigi; centinaia di grigi diversi, tutti uguali. Accanto a ciascuno erano annotate, in corsivo, composizione e tonalità: grigio cenere, grigio rosso, grigio perla, grigio piombo, grigio ardesia, grigio polvere, grigio antracite, grigio carbone. Un tempo, prima che l’artrosi facesse la sua entrata in scena, il vecchio era stato anche un pittore. Quel taccuino spiegazzato, costellato di aloni di tazze di tè e macchie d’unto, era tutto ciò che restava di un passato da ritrattista neanche troppo mediocre. Un ritrattista privo di ambizioni, diventato con lentezza, una ruga alla volta, un centimetro in meno alla volta, un respiro alla volta, un curvo omino esule per il mondo in cerca del colore perfetto, un colore che non voleva saperne di lasciarsi trovare. Un grigio.

Trent’anni, sette mesi, otto giorni, tredici ore, trenta minuti e quattro secondi dopo l’inizio di quel viaggio lungo una vita, il vecchio si accasciò su una panchina nel centro di Bruges, nelle Fiandre. Erano quattro mesi e due giorni che alloggiava nei pressi della piazza del mercato, in un hotel a tre stelle. Artisti di strada, habitué della città, caricaturisti e cani senza padrone si erano abituati alla sua presenza al punto di considerarlo parte del panorama, come se fosse sempre stato lì, come se non avesse motivo di andarsene altrove: un curioso vecchino con gli occhiali tondi e la faccia di cartapesta, che non si stancava di dire in qualunque momento, a chiunque passasse: «L’ho perso. Non è che qualcuno l’ha visto?».

Venticinque secondi dopo che il vecchio si fu accasciato sulla panchina, gli si era radunata intorno una folla di passanti inquieti o indiscreti, di rado entrambe le cose. Cos’ha? Non si sente bene? Non si sente bene! Qualcuno chiami un’ambulanza, presto! Fatica a respirare, lasciategli spazio, lasciategli spazio… E, in effetti, il vecchio annaspava, come fosse sott’acqua. Eppure, malgrado si facesse sempre più pallido, nonostante gli occhi gli si svuotassero ogni istante di più, il suo volto si accartocciò in un sorriso limpido, da bambino.

«Eccolo», sussurrò, a voce tanto bassa che dovettero tendere le orecchie per sentirlo. «Lo vedo, l’ho trovato…».
«L’ha trovato?».
«Cos’è che ha trovato?».
«Il grigio…».
«Il grigio?».

Cercò il portafoglio, lo trovò, ne tirò fuori qualcosa. Tese una mano, senza parlare. Dentro, scolorita dai giorni e dalle domande, c’era la foto di una donna giovane e bella, coi capelli neri e gli occhi così grandi che la vita ci si specchiava dentro. Sorrideva, anche lei.

«Il grigio dei suoi occhi», mormorò il vecchio, come se nient’altro contasse, al mondo, al di fuori del grigio incanto che un tempo la morte gli aveva rubato e che la morte, infine, gli restituiva. Trent’anni, sette mesi, otto giorni, tredici ore, trentacinque minuti e undici secondi dopo l’inizio del suo viaggio, smise di chiedere e si tuffò nel grigio.


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