Numero 38

Ad occhi chiusi

di Eva Luna Mascolino

 

“The Endless Winter of Kashmir#1” di Camillo Pasquarelli

Pulviscolo vagante nell’aria, come macchie di poesia.
Impossibile dire se la luna si stia nascondendo fra i rami apposta, o se sia un caso.
C’è un quadro di Caravaggio al posto del mondo, direbbe qualcuno. Proprio un quadro di Caravaggio. Olio su tela. Solo, senza luce.

– Io qui ci sono già stata.
– Davvero?

Scricchiolii di foglie schiacciate contro il terreno.
La notte aveva ingoiato ogni luce. Le case, le strade, le colline, tutto era un mare immobile, disumano, monocromatico.
I fanali di un’auto squarciarono le tenebre, ferirono il sipario nero del mondo attorno.

– Dovremmo essere arrivati.

L’auto si fermò. Fuori, la Notte salutò con una riverenza i fanali ancora accesi in un gesto di suprema rassegnazione – o forse di meditabonda vendetta.
Una donna abbassò il finestrino.

– Di già?
– Mamma, mamma, dove siamo?
– È un bosco, amore. Solo un bosco. Hai paura?
– No.
– Non c’è nessuno qui, credimi. Solo noi e il buio.
– Come dici?
– Davvero sei già stata qui?
– Tanti anni fa, però.
– E ricordi ancora qualcosa di quella volta?
– Sì. Fin troppo.

Silenzio. L’aria non è per niente fredda.

– Hai paura, amore?
– No.
– Qui, tempo fa, seppellirono alcuni soldati americani morti durante la guerra.
– Davvero? Dove?
– Tesoro, smetti di fare domande!
– Vedi quelle betulle, laggiù?
– Sì.
– Ecco. Si dice che, per ogni albero che è cresciuto, c’era prima un morto sottoterra.
– …
– Hai paura, amore?
– No, non ho paura, mamma. Perché continui a chiedermelo?
– Va tutto bene, state tranquille. È solo un bosco.
– Dovremo passare la notte da qualche parte, no? Conosci un posto dove si potrebbe andare?

(E’ solo un bosco, è solo un bosco, i morti americani sotto le betulle, le betulle sopra i morti americani, è solo un bosco, hai paura?, no, la guerra, la notte, è solo un bosco, sta’ zitta, non c’è niente da aver paura, è solo un bosco.)

– Qui non c’è più nessuno. Case, quelle sì. Arriviamo alla più vicina?
– Come vuoi.
– Hai paura dei fantasmi?
– No, perché?
– Allora seguimi.

Ombre nella notte. Grilli. L’aria non è per niente fredda.

Tre ombre affusolate abbracciavano la notte.

– Avete sentito anche voi?
– Cos’è stato?
– Non è niente, sono i grilli.
– Grilli?
– Sì, qui è pieno. Di tanto in tanto sbucano fuori anche dei serpenti, o dei cani randagi…
– Oddio, cani?
– Non aver paura, amore.
– Non ho paura, mamma. Non ancora. Non finché non ci sono cani.

Tre ombre affusolate abbracciavano la notte.
Una bambina si strinse nel cappotto della madre.
Lei – la madre – aveva paura. Non tanto del buio, quello no. E nemmeno del freddo tutt’attorno (freddo strisciante, freddo ballerino, freddo cane nelle ossa). Aveva paura del silenzio.
Il silenzio risucchia i ricordi, l’allegria, la vita stessa. Il silenzio ingoia tutto, è il silenzio che partorisce la notte, con le sue tenebre e tutto il resto. È il silenzio che uccide le persone, che acceca l’anima, che fa impazzire. Se tu domandi ad un matto qual è l’ultima cosa che ricorda, prima della sua follia, lui ti risponde Un grande silenzio.
E, in quel bosco, il silenzio bastonava ogni pensiero, ogni speranza, ogni canzone. C’era da impazzire, ma per davvero. Lei – la madre – avrebbe dato qualsiasi cosa, pur di frantumare tutto, pur di liberarsi, pur di non sentire più le vene alla tempia pulsare, le orecchie fremere, il corpo irrigidirsi. Lei – la madre – aveva paura, ma era una madre, doveva farsi coraggio per lei, per quell’esserino che le trotterellava dietro. È che, in silenzio, ogni gesto le riusciva dannatamente difficile, quasi eroico. Allora disse:

– Quanto manca per arrivare?
– Solo trecento metri, ce l’abbiamo quasi fatta. Intanto, vuoi vedere una cosa, piccola?
– Che cosa?
– Seguimi.

Due ombre affusolate abbracciavano la notte. Una, ferma a contemplare il cielo, con le sue stelle distratte e il suo silenzio imbottigliato di nuovo dentro al cuore.

– L’erba è altissima!
– Non importa, tu continua a camminare.
– Ma dove stiamo andando? … Aiut…!
– Attenta! Dammi la mano, andiamo assieme.
– …
– Ci siamo quasi.
– …
– Ecco.
– Ma cos’è? Io non vedo niente.
– È un aeroplano.
– Un… Wow. Un aeroplano vero?
– Sì, ha volato durante la Seconda Guerra Mondiale.
– E poi?
– E poi è caduto, proprio qui dove lo vedi adesso.
– Proprio qui?
– Sì. Nessuno l’ha mai più mosso.
– …
– Ti piace?
– Posso… Posso toccarlo?
– Certo, puoi avvicinarti quanto vuoi.
– Posso anche… Salirci?
– Be’, magari non adesso, piccola. La mamma ci sta aspettando. Torniamo indietro?
– Ma… Torneremo, domani? Io voglio salirci, è bellissimo!
– Va bene, domani ti faccio salire io stesso. Adesso andiamo, però.
– Va bene.

Due ombre abbracciarono l’altro lato della notte.

Il mondo sembrava spento, la vita in sordina.

– Mamma, mamma! C’è un aeroplano, ho visto un aeroplano vero!
– Ma che dici, amore?
– È vero, credimi, e domani voglio salirci, lui me l’ha promesso!
– Per ora cammina, su. Dobbiamo arrivare a casa, è tardissimo.
– Quanto manca, mamma?
– Non lo so, tesoro.
– Duecento metri, stiamo arrivando.
– Perfetto.
– Ah, a proposito…
– Sì?
– Voi avete paura dei fantasmi?
– Fantasmi? Ma che stai dicendo? Non far spaventare ancora la bambina, ti prego.
– No, no, non sto scherzando. Anni fa questa era la tenuta di un conte di nome Judica, che…
– Com’è che si chiamava?
– Judica, tesoro.
– Judica, sì. Gabriele Judica. Fu lui a costruire quella torre laggiù, la vedete?
– Sì.
– Ecco, quella era la sua roccaforte, per dir così. Si nascondeva lì, ogni volta che aveva qualcuno o qualcosa da cui nascondersi.
– …

E insomma, nel corso degli anni si fece dei nemici, uomini potenti, gente senza scrupoli. Un giorno, qualcuno che aveva un conto da saldare con lui, andò a cercarlo fin sopra la torre. Lo accerchiarono da tutti i lati, gli gridarono di scendere, ma lui niente, non si faceva vivo, sembrava stare benissimo arroccato là, così decisero di assediare la zona, di non allontanarsi né dormire, di stare vigili e aspettare.

– Aspettare cosa?
– Che il conte morisse di fame. O che si decidesse a scendere, semmai.
– E lui cosa fece?
– Cosa fece? Sparì.
– Sparì?
– Sì, il corpo non venne mai ritrovato. Per stare sicuri che lui non la scampasse bruciarono la torre, ma quella rimase in piedi, quasi intatta, così come la vedete voi adesso.
– E il conte?
– Il conte sparito, volatilizzato, nessuno seppe mai più nulla di lui.
– Che strana storia.
– Già, perché ce l’hai raccontata?
– Dicono che il suo fantasma aleggi ancora nella zona, volevo solo avvisarvi di tenere gli occhi aperti. Dicono che non abbia mai trovato pace e che si rifugi nella torre, di tanto in tanto. C’è chi giura di averlo visto, la notte.
– Il fantasma del conte? E tu l’hai mai visto?
– Io?
– Eh. L’hai mai visto?

– Quanto manca per arrivare?
– Eccoci qui, il posto è questo.
– Hai le chiavi?
– No, come ti dicevo è tutto abbandonato ormai. Ma ci basta sfondare la porta.
– Sicura?
– Certo. Un calcio e siamo dentro.
– Ci penso io?
– Fa’ pure.

Crack. Un calcio e sono dentro.

Lei trova a tastoni l’interruttore. Una lampadina a basso consumo illumina il suo volto e quello di lui. Sono due ragazzi. Lui non ha più di vent’anni, lei qualcuno in meno, ma non ha paura, anzi. Sembra perfettamente a suo agio.

– Il bagno è di sopra, va’ prima tu. Se la luce non dovesse funzionare, lì in fondo, in cucina, c’è una lanterna. Io ti aspetto nella stanza qui accanto, okay?
– Okay.
– Non metterci troppo.
– No.

La stanza accanto è una camera da letto. Lei si guarda attorno, come per assicurarsi che tutto sia a posto. Chiude la finestra, poi si siede sul letto. Si sfila di dosso le scarpe e i jeans, infine la camicetta. Accende l’abat–jour. Dal fondo di un armadio mezzo sgangherato, nell’angolo, prende due coperte e sistema il letto alla meno peggio. Resta in piedi a fissarsi le gambe, come con gli occhi di un estraneo, con le braccia ciondoloni.
Poi, quando sente avvicinarsi i passi di lui, si ficca sotto le lenzuola e si passa una mano tra i capelli, come per sistemarseli, ma svogliatamente.
Lui si guarda attorno senza entrare, con la lanterna in mano. Si capisce lontano un miglio che il posto non gli va del tutto a genio.

– Tutto bene?
– Sì.
– Puoi accendere la luce, se vuoi.
– Funziona?
– Dovrebbe.

Click.

– Funziona.
– Già.
– Tu… Insomma, il bagno è libero, adesso.

Lei sorride.

– Sarà meglio rimandare a domani.
– Ah.
– Sai com’è, si è fatto tardi.
– Certo.
– E poi tu sarai stanco.
– Io?
– Sì, tu. Dài, spogliati e vieni qui. Io mi giro dall’altra parte.
– E perché?
– Preferisci dormire per terra?
– Preferisco dormire vestito.
– Farà caldo, stanotte.
– Non importa.
– Come vuoi.

Lui poggia per terra la lanterna e solleva le coperte. Si accorge che lei è nuda, ma sembra non farci troppo caso. Si sdraia sospirando.

– Sei stanco?
– E tu?
– Voglio raccontarti una cosa.
– Di che si tratta?
– Tu hai paura dei fantasmi?
– Ti ho detto di no.
– Io quassù ci sono già stata.

– Sì, l’hai già detto.
– Tanti anni fa, con mia madre.
– …
– Mamma aveva un amico, qui. Era il custode dell’agriturismo. Adesso hanno smantellato tutto, ma prima anche questa casa faceva parte del villaggio. Era un bel posto.
– …
– In quegli anni venivamo spesso, questo era diventato una sorta di rifugio dal reale, dalla vita di sempre. La montagna ci proteggeva dalle nostre paure, dai rimpianti…
– …
– Be’, era mamma ad averne, più che altro. Io avevo i sogni, e le fiabe, e i pensieri sciocchi. Bisognava proteggersi anche da quelli, comunque.
– Dai sogni?
– Più dalle fiabe, veramente.
– Capisco.
– Poi venne quel giorno.
– Che giorno?
– Quel giorno. Poco prima di Pasqua. Mamma mi svegliò presto, disse che stava andando dall’altra parte del villaggio a sistemare la casa per alcuni turisti tedeschi. C’era del lavoro da fare e voleva aiutare il custode.

Non te ne andare, mamma, ti prego!, io qui non so cosa fare se resto sola, magari viene il fantasma di Judica, oppure quei cani randagi, mamma, non te ne andare, ti prego, posso venire con te?, ci metto poco a vestirmi, mamma, mamma, mamma, ti prego…

– Disse anche che sarebbe tornata presto e che non avevo da preoccuparmi. Mi presentò un uomo che non avevo mai visto. “Lui ti terrà compagnia, amore”. E se ne andò. Io rimasi a letto per un po’, poi sgattaiolai fuori dalla porta sul retro e raggiunsi la piscina. C’è ancora quella piscina, sai? Proprio a due passi da qui.
– Ah sì?
– Già. Io non c’andavo quasi mai, se non in estate. Ma quella mattina faceva caldo. Mamma non avrebbe mai voluto che facessi il bagno, ma c’era caldo, capisci? Sarei pronta a giurarlo fino alla morte, un caldo della Madonna, e io avevo solo sette anni.
– Posso andare in piscina, mamma?
– Fa troppo freddo, tesoro.

Troppo freddo, troppo freddo, troppo freddo…

– Mamma, mamma, non fa freddo! Posso andare in piscina?
– Ci vediamo più tardi, tesoro. Fa’ la brava, mi raccomando.

Non andare in piscina, tu non ci devi andare, niente bagno, fa ancora freddo, non è neanche Pasqua, non andare in piscina, e se incontri Judica?, guarda che poi la mamma ti rimprovera, resta a letto, fa freddo, è ancora presto per fare colazione, non andare in piscina, non andare in piscina, non andare in piscina…

– Sta di fatto che feci il bagno con il pigiama addosso. Dieci minuti, massimo. Poi tornai a casa, correndo. Ero fradicia e mi sentivo tremendamente in colpa. Lì c’era ancora quell’uomo, quello che mi aveva presentato mia madre – ti ricordi?
– Sì.

Ehi, piccola, sei tutta bagnata!, vieni qui, santo Cielo, ma dove sei stata?, … come dici?, in piscina?, e se ti avesse vista la mamma?, guardati, stai bagnando casa, aspetta che prendo uno straccio, dobbiamo fare qualcosa o ti prenderai una polmonite, coraggio, vieni qui, vieni qui, vieni qui.

– Lui accese la stufa. Non preoccuparti, nessuno saprà niente, mi disse. Si procurò un phon e mi fece sedere sul divano accanto a lui.
Pausa.
– E poi?

Non aver paura, su, vuoi che la mamma ti trovi bagnata?
Ti aiuto ad asciugarti, vieni qui e togliti la maglietta, così, da brava… Sì, anche il pigiama di sotto. Con calma, tranquilla, non c’è fretta, adesso asciughiamo tutto.
Vieni qui, vieni qui, vieni qui…

– Hai detto qualcosa?
– Ti ho chiesto come sia andata a finire quel giorno.
– Io… Non ho mai avuto paura di questa storia, sia chiaro. Solo una grande frustrazione per aver capito l’accaduto a tanti anni di distanza. Ricordo il calore del phon e quello delle sue mani enormi. Ricordo la sua lingua nella mia bocca, con forza, a lungo. Lui era arrivato da poco lì da noi, era un indiano. Si faceva chiamare ___ , era un amico del custode. E io ero una bambina. Una bambina, capisci?
– …

Ma sai che sei proprio una bella bambina?, la mamma mi ha detto che hai paura dei cani, è vero?, eh, ma tu non hai paura di me, vero?, no che non ce l’hai, e fai bene!, i cani sono randagi, possono mordere, ma non devi aver paura di me, avvicinati ancora, aspetta, dai, non sei ancora asciutta, ora ci penso io, la mamma non si accorgerà di niente, vedrai… Vieni qui, ho le mani fredde?, aspetta, ci riscaldiamo assieme, tu però sta’ ferma, va bene?, ferma così, coraggio, non è niente, non è niente, non è niente…
Mi dài un bacio, bella bambina?

– E poi?
– E poi niente, assolutamente niente. Lui si fermò, non so perché. Non l’ho mai capito. A un certo punto si fermò e sorrise. Poi tornò a toccarmi con quelle mani enormi, finché non sentimmo tornare mia madre. Allora mi lasciò andare e spense la stufa.
– Cos’è successo qui?
– Nulla.
– E cos’è quell’acqua per terra?
– No, niente, la bambina ha rovesciato per sbaglio un po’ d’acqua dalla bottiglia.
– E la stufa?
– In che senso?
– La stufa non stava qui, stamattina.
– Avevo freddo e l’ho accesa per un po’.
– È ancora calda.
– Sì, infatti, l’ho spenta poco fa.
– E la bambina?
– Eh?
– Mia figlia, dico. Ha mangiato?
– Io veramente non lo so.
– Come sarebbe, non lo sai?
– Non lo so, non ci ho fatto caso…
– Lei dov’è, adesso?

– Io, nel frattempo, ero corsa in bagno e mi ci ero chiusa dentro. Ero completamente asciutta. Mi guardai allo specchio, ma non mi riconobbi. Avevo le labbra umide e mi ricordai di quel sapore orribile nella mia bocca, mi ricordai della sua lingua. Aprii il lavandino e mi lavai per interi minuti, ma quello schifo non veniva via, non c’era proprio verso. Non se n’è mai più andato.
– …

Stai bene, amore?, vieni qui, sembri spaventata, hai mangiato?, la mamma è tornata, non piangere, shh, ma che diamine ti prende, amore?
Mamma, mamma, mamma, mamma, mamma… Faceva freddo, mamma, hai ragione, io in piscina non dovevo andarci, ha fatto freddo per tutto il tempo, mamma – lui aveva le mani fredde, e poi non era delicato come te, quando mi toccava… Mamma, mamma, mamma, lui mi ha baciata, lo sai?, proprio nella bocca, mamma, e faceva freddo, io non dovevo andarci in piscina, mi dispiace, avevi ragione tu, c’era troppo freddo, ho quasi avuto paura di morire, per quanto freddo faceva… E poi quel silenzio, mamma… Silenzio per tutto il tempo, te lo giuro, lui parlava ma io non lo sentivo, vedevo solo le sue mani nere, la sua barba, e poi il silenzio, il phon, la stufa, c’erano dei rumori, ma io non sentivo niente, mamma, solo le sue mani addosso, sono una stupida, non dovevo andare in piscina, mi dispiace…

– Prima ti ho chiesto se hai paura dei fantasmi e hai detto di no. Una volta mi raccontarono di un conte che aveva infestato una torre qui vicino, o qualcosa di simile. Be’, non importa se tu hai paura, io non ne ho. Una volta l’ho perfino incontrato, quel conte, ma non c’è davvero niente da aver paura, fai bene a restare calmo. Solo che… Tu ci credi, almeno?
– Nei fantasmi?
– Eh.
– …
– Io ne ho uno ancora in bocca.
– …
– …
– …
– Vuoi baciarmi?
Come, scusa?

Lei pensa che lui non abbia sentito davvero, allora dice:

– Puoi baciarmi?

Lui sorride. Le passa un braccio attorno alle spalle e le si avvicina lentamente.
Si guardano negli occhi per interi minuti. Hanno i cuori che sono come biglie di vetro, rotolano tremando da un petto all’altro.
Lui la guarda e la scopre bella, di una bellezza lancinante, forse per la prima volta. Ha la pelle morbida, i capelli sottili, i piedi freddi. È nuda, ora se ne accorge. Il suo corpo sembra un guscio vuoto, che qualcuno ha riempito di storie dell’orrore, ma gli occhi sono acquosi, ancora sinceri, vivi. Sotto le sue mani – le mani di lui –, lei sembra bagnata.
Deve essere una suggestione, nient’altro. Sembra fradicia, come quel giorno di tanti anni prima, ma deve essere solo un’illusione tattile dovuta a quel silenzio che pesa come un macigno sui loro sguardi.
Allora lui si chiede se tutta quella storia sia vera, se lei non se la sia inventata giusto per poter essere vista così in quel modo, senza compassione, anzi, quasi con rispetto, con sacra meraviglia. Si chiede se non stia per caso sognando, se quella escursione sui monti – com’era iniziata tutta quella storia? Com’è che si erano ritrovati lassù? Era stato lui a chiedere a lei di salire fin sopra alle grotte, o viceversa? – non sia un’invenzione della sua mente ormai vinta dalla stanchezza.
Lei trema senza scomporsi. Non ha freddo, no. È quel silenzio di sospensione a mettere i brividi, il tempo che si è incrinato, le parole che si son bruciate, il corpo di lui che si è accostato al suo – non erano mai stati così vicini, non erano mai stati così vicini ad amarsi.
Lei aveva capito da sempre che lui avrebbe potuto salvarla da quell’incubo, restituirle schegge d’infanzia che, nell’esplosione di una bruttura indelebile, le erano sfuggite dall’esistenza. Sapeva che i viaggi dei suoi fantasmi interiori l’avrebbero ricondotta in quella casa, presto o tardi. Con lui.
Si chiede se lui abbia capito, se voglia salvarla, ora che sa. Se possa asciugarla, una volta per tutte, da quella cascata nera come la notte. Se possa portarla via da se stessa, dalle betulle con sotto i militari americani, dagli aeroplani precipitati, dalla notte fedifraga, dalle colline, da un pigiama infangato, da una piscina arrugginita, da quelle mani enormi, da quel sapore osceno, da quei fotogrammi indelebili, dal silenzio disumano che, come un incantesimo, spoglia l’anima cupidamente e impicca per sempre l’ingenuità.

C’è bisogno di aspettare, solo di aspettare.
Anni, minuti, forse ore.
Dentro la notte, dentro il bosco, dentro una vecchia casa abbandonata, dentro un letto, abbracciati. Aspettare insieme, come spettri di una vita ancora lontana anni luce dalla loro pelle.
Poi, quasi impercettibilmente, nell’immobile silenzio di un meccanismo messosi in moto da chissà quanti attimi, di un miracolo che accade, di una maledizione che si sbriciola grazie al calore di due corpi vicini – corpi come fantocci, corpi come catene, corpi come destini –, lei chiude gli occhi.
Lui capisce.
Non dicono niente, mai più niente, per tutto il tempo.
Lei chiude gli occhi. Non come un animale braccato dal suo cacciatore, ma come una ragazzina nuda, con un fantasma in bocca, l’inferno nella memoria e l’amore al suo fianco.
E lui capisce. Non come uno scienziato che abbia teorizzato un nuovo esperimento di reazione molecolare, ma come un uomo che abbracci una ragazzina nuda, terrorizzata da sé stessa, e innamorata. Una ragazzina da salvare, in ultima istanza, da baciare e da amare, per tutta la vita, con tutta la vita di cui un essere umano può essere capace.
Non dicono niente, mai più niente, per tutto il tempo.
Lei chiude gli occhi. Lui capisce.
E la bacia.


freccia sinistra freccia