Eros e Thanatos
di Giada Tommei

di Bartolomeo Pampaloni
Non c’ho voglia, capisci? Io. Non. C’ho. Voglia.
Ripeteva questa frase immersa in un invadente loop mentale che la rendeva inaspettatamente fragile e indifesa. La sua disperazione era ferma e composta: uno sconforto immobile, come una roccia di consapevolezza erosa da un mare di confusione. Il risultato, era l’immagine di una donna avvilita seduta sul muretto di casa a guardare l’orizzonte senza però riuscire a vederlo.
Non fa per me, davvero. Non c’ho voglia.
Le sue braccia esili si muovevano compulsivamente verso gli occhi, asciugando quelle poche lacrime che vi si affacciavano costrette a tornare con velocità all’interno del corpo. Probabilmente, non aveva voglia nemmeno di piangere. L’unico suono percettibile oltre al brontolio ripetuto e il fruscio delle cartine per tabacco, era il continuo tirar su del suo naso gocciolante di inettitudine, malinconia e irrimediabilità. Le sue Birkenstock ciondolavano appese al calcagno come medici dopo un duro, ma riuscito intervento. Erano pieni di vita, i suoi sandali: in qualche modo l’avevano riportata a casa, dopo la follia di quella notte.
Non l’ho chiesto io, di venire al mondo, capisci? E adesso non riesco a gestirla questa vita. Non c’ho voglia.
Aveva sempre avuto una forte propensione al suicidio. La morte l’affascinava come un corpo asciutto trasudante di ormoni, calore, mistero ed avvenenza. Era come se vi fosse qualcosa che l’attendeva, al di là dello spazio fisico e temporale: un universo tutto suo nel quale si sarebbe finalmente amata. Forse, pensò Abad, questa estrema fatica di vivere è la prova che il suo personale aldilà esiste davvero: probabilmente dovrà vivere i suoi giorni come una fatica da scontare che le farà poi guadagnare il paradiso che merita.
Alzarmi, andare a lavoro, uscire, conoscere persone, fare cose. Io non mi ci trovo con le persone. Tutto quello che voglio è restarmene qui, a casa, a guardare film e carezzare il mio cane. Di tutto il resto no, non c’ho più voglia.
Abad pensò che avrebbe a lungo pregato per lei, affinché Allah parlasse al suo Dio per chiedergli di essere clemente nel giorno del giudizio. Maddalena aveva, all’apparenza dei molti, una vita di tutto rispetto: una casa propria, un lavoro sicuro, una famiglia che la sosteneva e tanta libertà di muoversi nel mondo. Abad non riusciva a capirla. Non la capiva, ma la sentiva. Capire e sentire sono due cose apparentemente affini ma in realtà totalmente opposte. Comprendere la difficoltà di un comandante al timone di un mare in tempesta è constatare un fatto oggettivo il quale ci rimanda all’effettiva pericolosità della situazione alla quale consegue un particolare sforzo da parte di chi la gestisce. Sentire il comandante in un momento di burrasca è diverso. Magari non si può fare niente perché anche il solo avvicinarci gli sarebbe d’intralcio, ma la percezione profonda della sua paura, del suo tremore e del terrore di non farcela ci entra dentro la carne come un’infinita trasfusione di sangue. Ed ecco che, seppur distanti e al sicuro, sentiamo i brividi, le pulsazioni in aumento e le gambe molli. Il sentire è quel sentimento che ci porta a restare accanto a una persona anche se non siamo in grado di darle un aiuto concreto; anche se l’unica cosa che riusciamo a fare è fornirle una quieta presenza, come a dire: io ci sono.
È la terza volta che ci provo. La terza maledettissima volta. Eppure niente, sono sempre qua e senza un graffio per di più. Penso che ci sia qualche stramaledettissima forza che mi vuole qui, ancora. Qualcosa di fottutamente stronzo che non vuole che io me ne vada. Prima di lasciare i pedali ho immaginato quando da piccola, sopra l’ottovolante, aprivo le braccia chiudendo gli occhi. La giocosa sensazione di volare alimentata dalla giostra procedeva nel mio cervello come un cerchio concentrico al centro del quale un intenso pensiero era sempre rivolto alla morte. A 8 anni già mi chiedevo se quella sensazione liberatoria e benevola che sarebbe inevitabilmente finita al termine del giro sarebbe invece durata per sempre in caso di decesso. Quando esponevo in giro il mio quesito mi hanno sempre intimata a non parlarne nemmeno, di certi argomenti. Non mi meraviglio se poi ho continuato a cercarla tutta la vita, la risposta.
Abad le porse il cornetto alla crema portato poco prima. Maddalena lo spezzettò lentamente, ora con i denti ora con le mani, portandosi alla bocca delle misere briciole. Lo gustava come aveva sempre gustato la vita: un’assaporare tanto intenso quanto disilluso segnato da un inevitabile senso di caducità. La sua spada di Damocle, in effetti, era proprio quella: qualunque cosa facesse aveva la netta sensazione che tutto sarebbe giunto a un termine. Esperienze, viaggi, lavoro, amicizie, amore: seppur meraviglioso tutto le sarebbe sfuggito di mano, con o senza la sua volontà. E allora perché crederci fino in fondo? Abad pensò che il fatto di esser labile è una delle caratteristiche più belle della vita: il succo della stessa e ciò che ti rimane dopo la fine delle cose. È lì che l’entusiasmo e la serenità si mescolano con la delusione e la tristezza per permetterci di salire un gradino in più nella crescita personale. Per Maddalena, invece, la fine sembrava essere un tremendo cappio intorno al collo: una massiccia corda poggiata sulle spalle come fosse una collana. Provateci a esser felici con una fune avvolta su voi stessi! Una grande quantità di energie viene inevitabilmente dedicata ad accarezzare la corda: farci amicizia, tenerla buona, amarla o odiarla nel tentativo di sentire meno dolore possibile quando sarà inevitabilmente stretta attorno al nostro collo.
Quel muro maledetto, non era nemmeno così duro. Ma chi cavolo li costruisce? Adesso mi ritrovo a dover pagare il salato biglietto del ritorno alla vita. Oltre al danno, la beffa: non sono morta e devo ricostruire non solo me stessa, ma anche la macchina. Praticamente, senza accorgermene, mi sono comprata il ticket per il concerto dei giorni che tornano a scorrere. Una merda di concerto al quale non volevo essere, perché l’orchestra proprio non la sopporto.
Il sole si fece sempre più alto ed iniziò ad essere un gran caldo. Il cornetto non era finito e le formiche ne avevano ormai preso possesso. Il cane dormiva lì accanto e lo specchietto retrovisore dondolava su se stesso. Tirava un bel vento, però. Abad era rimasto sempre zitto. Avrebbe voluto dire tante cose, ma la verità è che ogni essere umano è una storia a sé stante e tutto ciò che avrebbe proferito non sarebbe stato altro che il frutto delle sue esperienze passate, con tutti i fuochi e gli acidi che ancora la corrodevano. Le avrebbe detto che la sua vita, in fondo, non era poi così male e che compiere quel gesto estremo poteva essere un’offesa ai problemi di molta altra gente. Avrebbe inevitabilmente finto una morale pensando in realtà a quel giorno in cui suo padre andò in depressione e sua madre lo lasciò solo per Natale dopo che l’aveva fatta arrabbiare. No, non aveva voglia di riversare quel vecchio odio, soprattutto su di lei. Guardò Maddalena e pensò alle sue esperienze oltre le righe. Pensò al suo animo romantico che negli anni aveva dato vita ad amori così intensi da fare male, alla sua propensione per coccole e coltelli e alla sua vena artistica. Guardò la sua amica e poi osservò se stesso, seduto su quel gradino fissando ora le montagne ora il lastricato. Gli mise una mano sulla spalla e sospirò forte. Maddalena si voltò verso di lui e rimase in silenzio. Qualcosa però, nel suo volto, era cambiato. Il suo sterno dolorante le aveva appena suggerito che, di fronte ad ogni fine, in fondo c’era sempre stato qualcuno. Non era mai stata sola e se lo era stata, forse lo aveva deciso lei. Evidentemente non se n’era mai accorta, sempre per questa mania di volere a tutti i costi ciò che non può avere e perché è così tanto abituata alla confusione che al silenzio, ormai, non ci fa nemmeno più caso.
Me ne vado a letto, Ab. Grazie per le parole non dette. Non me le scorderò mai.
Maddalena si diresse a letto, esausta e debole. Sul comodino, un libro appoggiato ormai da anni regalatole da una persona che fu speciale. “Eros e Thanatos”, fermo a cinque pagine dalla fine. Esattamente cinque, come le ore appena trascorse dell’ennesima fine divenuta, questa volta, un vero nuovo inizio.