La tempesta
di Eva Luna Mascolino

– Secondo me siamo finiti nel bel mezzo di una tempesta.
– Si tratterà di una tempesta silenziosa, perché io non ho avvertito niente.
– È una tempesta non ancora esplosa, infatti, ma, se in questo momento tu smettessi di tenermi per mano, io affogherei.
– Perché? Cosa ti trascina verso il basso? Tu sei in un punto ben lontano dagli abissi, sei ancora in superficie.
– Eppure, credimi, io e te siamo nel bel mezzo di una tempesta.
– Spiegati meglio, per favore.
– D’accordo… Come dire? Qualcosa ci ha messo a tacere.
– Ci ha messo a tacere – venne ripetuto a mo’ di un’eco stanca ma fedele al proprio compito.
– Esatto. Abbiamo smesso di muoverci. Ci commuoviamo soltanto, ma restando fermi.
– Stiamo fermi – nuovamente la stessa eco.
– Precisamente.
– E qualcosa ci ha messo a tacere, giusto?
– Giusto.
– Perché non reagiamo, allora?
– Perché è pericoloso muoversi durante una tempesta, è pericoloso prendere delle decisioni.
– Tutte le decisioni definitive sono prese in uno stato d’animo che non è destinato a durare, sosteneva qualcuno.
– Stavo pensando proprio a quella citazione, mentre ti parlavo.
– Lo so.
– L’hai recitata apposta?
– Sì.
Ci fu un silenzio che avrebbe avuto bisogno di qualche carezza in più, per sciogliersi, oppure di qualche parola specifica – niente di impegnativo, sarebbe bastato un sono qui, un sarò qui, oppure un se tu sei qui, resto anche io – di una di quelle frasi in cui ci si imbatte settimanalmente nei romanzi degli scrittori emergenti dell’ultimo decennio.
– Parlami ancora di questa tempesta – venne richiesto.
La risposta venne articolata mentre chi la pronunciava fissava punti diversi, tutti impeccabilmente situati nel vuoto, ma collegati l’uno all’altro da un filo rosso immaginario, con il quale qualcuno avrebbe potuto legarsi i capelli, o impacchettare un regalo di Natale in ritardo.
Nessuno l’avrebbe fatto, comunque. Non quella volta.
C’era troppa tensione nell’aria, troppa pesantezza all’orizzonte per via delle nuvole grigie in avvicinamento.
La tempesta era prossima e tutti sarebbero rimasti fermi al proprio posto.
– La tempesta cancella anche i baci – aggiunse lei – ti ricordi?
– Come potrei ricordarlo, se non è mai successo?
– È successo proprio a te.
– A me?
– In un’altra vita.
– Davvero?
– Me lo hai raccontato tu.
– Eppure non me lo ricordo.
– Questa è una fortuna, ma è capitato veramente. Io non l’ho dimenticato, l’ho quasi sperimentato con te.
– Tu dici? Eravamo insieme?
– Cronologicamente parlando, no, non eravamo ancora insieme. Però, in qualche modo, tu mi hai riferito tutto.
– E come mai lo stai rievocando adesso?
– Perché c’è una tempesta e bisogna che ciascuno sappia cosa fare. Bisogna che chi ha esperienza peschi nella propria memoria il pesce giusto da sacrificare agli dèi marini e che conservi i tesori sommersi che non vuole né scoperchiare né perdere. Bisogna stilare una lista delle priorità, capisci? Bisogna svegliarsi dal sonno, perché altrimenti la tempesta distruggerà tutto e non ci restituirà più nulla.
– Comincio a capire – si sentì mormorare – questa dinamica mi sembra familiare.
– L’hai già sperimentata, credimi.
– Ti credo. Rammento vagamente che tu non eri con me.
– No, infatti.
– Ho combattuto contro dei mulini a vento costruiti in acciaio.
– Esatto.
– E tu come hai fatto ad arrivarmi accanto e a non farmi sgretolare, allora?
– Lo abbiamo deciso insieme, in una sera vicina a Capodanno.
– È passato tanto tempo, da quel momento?
– Sì, è trascorsa un’intera esistenza.
– E perché dunque dovrebbe colpirci una tempesta proprio adesso? Ci siamo già salvati da ben altri cicloni neri.
– Perché siamo in pericolo.
– Tu e io?
– Sì, proprio noi.
– In un pericolo molto grave?
– Dipenderà da come sapremo reagire. La tempesta è arrivata per metterci alla prova.
– Ma io non la sento.
– È perché hai dormito molto a lungo. Adesso devi svegliarti, se vuoi salvarti. Scatterà il timer fra poco: se ci troverà impreparati, siamo perduti.
– Dobbiamo salvarci necessariamente, non è vero?
– Certo. Io voglio che tu ti salvi.
– Anch’io voglio salvare te.
– E non dobbiamo perderci.
– Non dobbiamo perderci – un’eco lontana.
– Non dobbiamo fare in modo che questo discorso faccia il girotondo.
– Va bene.
– Dobbiamo arrivare fino alla fine.
– Fino alla fine.
– Insieme.
– E come si fa?
– Dovremmo sforzarci di non addormentarci.
– Tu credi?
– Sì. Il nostro problema è che abbiamo smesso di muoverci, ci commuoviamo soltanto, ma non ci veniamo a trovare a vicenda.
– Non è vero.
– Io non ti confido più nulla.
– Non è vero.
– Quando le mie giornate sono impegnate, i miei occhi per poco non traboccano a causa di tutto ciò che non possiamo fare insieme, che altri faranno al posto nostro, che noi rimandiamo all’infinito, che tu rifiuti di improvvisare, che io non ti propongo perché non ne vedo il motivo.
– Non è vero.
– E cosa è vero, dunque?
– A tutti capita di piangere a testa in giù.
– Non a noi, non a noi.
– Non è vero.
– Ci stiamo svuotando, ci riempirà la tempesta già da domani.
– Non è vero, non a noi.
– Raccontalo a qualche regista di telenovele.
– Invece lo racconto a te, perché tu sai ascoltare.
– So ascoltare e mi commuovo perfino, ma non mi muovo. La tempesta sta arrivando e nessuno mi insegna cosa fare per non affogare. Tu mi tieni per mano a stento e io vorrei mille abbracci, di nuovo i brividi, di nuovo l’insonnia piena di affanni dolcissimi… Dov’è finito questo universo a bolle? Dove diavolo ci stiamo appoggiando, adesso, se non ai vuoti d’aria che contengono il nostro segreto condiviso più grande?
– Noi non abbiamo dei segreti condivisi. Abbiamo due biografie, un amore e quattro mani.
– Hai visto? Hai dimenticato. La tempesta sarà terribile, fra poco.
– Cosa avrei dimenticato? Non capisco.
– Com’è che si inizia ad amare – spiegò.
– Insegnamelo da capo, allora.
– Non so se lo desidereresti davvero.
– Lo desidero. Insegnami.
– Sarà sufficiente sentirci forti. Se saremo delle persone forti, potremo concederci il lusso perfino di essere deboli.
Scoccò un’occhiataccia.
― Perché parli sempre per paradossi?
― Stavolta non si tratta di un gioco di parole, credimi.
― Ah no?
― No. Se avrai dei punti di riferimento ben saldi interiormente, porterai il sole ovunque andrai. La gente si stupirà nel sentirti cantare, anche se sarai stonato, e nessuno riderà di te se inciamperai per terra. Si avrà più comprensione per te, se dal tuo viso emanerà il calore umano che appartiene solo alle persone forti.
― Come si fa ad essere delle persone forti, così, da un momento all’altro? Non è qualcosa che ci si può imporre.
― Hai ragione, non lo è, però può diventare un esercizio quotidiano.
― E in che modo si deve procedere, secondo te? Hai una “ricetta” già pronta, con tanto di ingredienti e di dosi? Quand’è che tu hai imparato ad essere forte?
― A dirla tutta, io non ho mai imparato. Un giorno mi sono svegliata e lo ero già. Non so come sia avvenuto, devo aver saltato tutta la fase preparatoria, che fra l’altro è quella più dolorosa e complicata.
― Quella durante cui ci si può smarrire senza fare ritorno?
― Infatti. Perciò non saprei quale “ricetta” rifilarti, posso solo garantirti che a me ha fatto bene essere forte.
― Sei diventata in atto ciò che eri in potenza, suppongo.
― Esatto. Oggi le tue conclusioni hanno un che di poetico.
― Direi piuttosto che il tuo fare filosofeggiante mi ha contagiato. Anche se non mi hai ancora spiegato in cosa consista il vantaggio di essere forti.
― Potrei metterci del tempo per raccontarti ogni cosa come si deve.
― Sono tutto orecchi.
― Ebbene, secondo me si riesce ad essere forti solo se non si nutrono dubbi circa il proprio universo interiore.
― Non tutti sono in grado di certezze stabili, però. Per me va a periodi, per esempio.
― Lo so, ma essere forti è qualcosa di più dell’avere autostima. Si è forti quando si sa che non si ha niente da temere dalle proprie paure, o dagli imprevisti quotidiani. Si è forti quando si risponde ad un insulto con una risata.
― Stai scadendo in una forma di stoicismo quasi popolaresco, mi sa.
― No, no! Tu devi provare a sentire quel che sto dicendo, non a recepirlo con la mente. Lo devi sentire qui ― e l’una toccò la pancia dell’altro il palmo della mano ― devi proprio fare tuo ogni singolo termine.
― Se credi che funzioni…
― Eccome se lo credo! Per qualche minuto credici anche tu.
― Come vuoi.
― Perfetto.
Per qualche attimo calò il silenzio.
― Stavo dicendo… Cosa stavo dicendo?
― Che, se si ride quando si viene derisi, significa che si è forti.
― Non intendevo propriamente questo, ma non importa. Il punto è un altro: bisogna stare in piedi senza oscillare, ecco cosa voglio dire. Una persona zoppa sta inevitabilmente concentrata sul proprio equilibrio, non riesce a fare altro. Una persona senza problemi motori, invece, dopo aver imparato a camminare non presta troppa attenzione al movimento delle proprie gambe, lascia che quelle facciano tutto da sé autonomamente. Mi spiego?
― Non del tutto, lo ammetto. Dove va a parare questa metafora?
― Va a parare dritto al centro della questione. Quando si è giovani e ci si sta formando a poco a poco una personalità, è naturale che si badi eccessivamente ai propri modi di fare e di reagire: si mettono in discussione molti atteggiamenti, ci si interroga, si teme di essere sbagliati. È un processo che può durare anni, suppongo tu lo sappia meglio di me.
― Eppure, dopo un po’ uno smette di essere così concentrato su sé stesso, no?
― Per l’appunto. Dopo un po’, si sposta lo sguardo e si osserva anche il mondo circostante, tanto si comprende che la propria interiorità è ormai definita, solida, sicura di sé. È a quel punto che si è forti, se capisci cosa intendo.
― Adesso un po’ di più, in effetti.
― Bisogna aver imparato ad amarsi, dopo essersi rimproverati mille volte e aver sbagliato direzione ogni giorno. Bisogna essersene accettati, dopo essersi plasmati per diventare la persona che si desiderava. A quel punto, si diventa stabili, si sta in equilibrio con sé stessi, lo capisci? Si diventa forti perché non si ha più niente di cui aver paura, dall’interno. Si capisce che i pericoli adesso possono provenire dall’esterno, ma che si è cresciuti al punto da sentirsi protetti da qualsiasi tempesta. Ne convieni, finalmente?
― Non saprei, non del tutto.
― Perché?
― Continuo a pensare che non si tratti di un procedimento irreversibile, che inizia e finisce una sola volta nella vita.
― Va bene, ma ha meno momenti di crisi quando ci si è stabilizzati, no?
― C’è chi resta a terra anni, per un solo momento di crisi.
― Quelli sono casi eccezionali.
― E se fossero la norma? Se anche per una sola persona al mondo fossero la norma? Non dico che essere forti sia un’utopia, dico solo che non può essere uno status duraturo. Prima o poi qualcosa crolla, nel meccanismo che ci si è fabbricati. Si deve essere preparati al peggio, in qualunque istante, così come noi stiamo tentando di affrontare questa tempesta.
― E preparati al meglio? Non si dovrebbe essere anche preparati al meglio?
― Cosa intendi dire?
― Esci un attimo dal tuo pessimismo radicale, prova ad ascoltare quel che dico senza muovere obiezioni. D’accordo?
― D’accordo.
― Rifletti su come sarebbe la tua vita, se tu avessi dentro di te quattro pilastri indistruttibili. Ci riesci?
― Sì.
― Concentrati su questa sensazione, chiudi gli occhi.
L’uno obbedì, l’altra proseguì:
― Hai quattro luci che ti guidano, dentro di te.
― Ho quattro luci che mi guidano.
― Ti senti forte.
― Mi sento forte.
― Descrivimi questa sensazione.
― Quale sensazione?
― Quella di essere forte.
― Ma io…
― Hai quattro luci che ti guidano. Che altro senti?
― È una sensazione che posso immaginare fino ad un certo punto.
― Non è un problema, descrivila.
― Sono forte.
― Sei forte.
― Se inizi a ridere di me, non mi fai a pezzi.
― Non ti faccio a pezzi.
― E se mi volti le spalle io distolgo lo sguardo.
― Distogli lo sguardo?
― Sì, c’è di meglio da vedere, attorno a me.
― E poi? Che altro?
― Sono forte.
― Sei forte, lo so.
― Non ho più bisogno di essere ipocrita.
― Allora siamo sulla buona strada.
― Sono anche più umile, adesso.
― Più umile?
― Sono forte, posso concedermelo. Non lascerò che mi si scambi per una persona ingenua.
― Complimenti, hai capito il gioco.
― Se mi capiterà di commuovermi, non tratterrò le lacrime.
― Non le tratterrai.
― E abbraccerò tutte le volte che ne sentirò la voglia.
― Senza alcun pudore.
― Senza alcun pudore.
― Che altro accade, ora che sei forte?
― Non ho paura di non andarmi a genio. Ho quattro luci che mi guidano.
― Risposta esatta! Vai avanti.
― Potrò dire di no, potrò smentire, potrò rifiutare.
― Potrai essere libero, quindi.
― Sì. E volermi bene.
― E agli altri non vorrai più bene?
― Ne vorrò loro il doppio. Sono forte, posso essere affettuoso quanto voglio senza rischiare di annullarmi per qualcun altro.
― Gli altri potrebbero scambiare i tuoi comportamenti per una serie infinita di debolezze. Come farai a spiegare loro che si sbagliano?
― Non avrò bisogno di spiegarlo: se ne accorgeranno da soli.
― Tu dici? E come?
Lui cercò la mano di lei nel buio.
― Senti la mia stretta?
― La sento.
― Accadrà lo stesso con tutti. Sentiranno qualcosa, quando mi avvicinerò. Sentiranno che sono illuminato dall’interno, che ci sono quattro fari a guidarmi. Non si ride di chi ha quattro luci dentro di sé, non trovi?
– Certamente.
― Comincio a percepire che è bello essere forti, se ci si riesce. Si è più leggeri.
― Già.
― Si sa sempre cosa fare.
― O quasi sempre. Essere forti non vuol dire essere infallibili: vuol dire essere sempre animati dalle migliori intenzioni. Anche quando si sbaglia, il proprio errore non diventa un’onta, perché non ne avrebbe motivo.
– Hai ragione.
― Pensi di riuscire ad essere così, tu? Pensi di poter essere forte, a partire da oggi stesso?
― Non lo so. Essere forti è una prerogativa appartenente soltanto a coloro che sono forti.
― Hai iniziato ad esprimerti anche tu per paradossi?
― Dovrebbe essere un buon segno.
― In effetti lo è. Significa che ti stai lasciando andare, che pensi più al contenuto che alla forma di ciò che dici.
― E scommetto che anche questo sia una peculiarità delle persone forti.
― Hai indovinato. Bada, però: essere forti è un modo di essere, non di atteggiarsi. Non si smette di esserlo, è come imparare ad andare in bicicletta: puoi arrugginirti un po’, se non fai pratica per parecchio tempo, ma non dimentichi mai del tutto la dinamica, chiaro? Una volta che inizi ad essere forte, una volta che scopri il trucco e ti tieni stretto il segreto per restare come sei, è andata.
― È andata.
― E non si torna indietro.
― Nemmeno se uno lo volesse?
― Nessuno sceglie di essere fragile, se sa come essere forte.
― Neanche una persona cronicamente fragile? Neanche un vile, neanche un perdente, neanche…
― No, neanche tu.
― È una specie di promessa, la tua, vero?
― È una specie di promessa. E se non si avvera, sai…
― Si avvera, ci scommetterei la testa.
― Come fai ad esserne sicuro?
― Perché sono forte. Decido io cosa si avvera e cosa no.
― Bravissimo, hai imparato.
Ci fu una pausa.
Avevano ancora bisogno entrambi di rassicurazioni, perché nessuno li aveva addestrati a combattere senza le armi dell’amore in mano. Sia lui che lei erano troppo acerbi per dare un nome a tutti gli impulsi che crescevano come edera fra le ossa e la tempesta era già troppo intensa per essere ricacciata indietro da una ninna-nanna, da una preghiera o dalla promessa che entrambi sarebbero stati forti.
Il dialogo non riprese.
Lei si addormentò per via di un sonno improvviso ed annebbiato.
Si spensero le parole nelle loro gole perché nelle bocche non c’era più niente da regalare a peso d’oro. Era rimasto solo un filo del rasoio ad unirli – non più rosso, mai più rosso – ad incatenarli per gioco e a solleticarli in modo da farli impazzire di dolore.
Si stavano addormentando entrambi e nessuno sarebbe arrivato per svegliarli. Unici comandanti di una nave troppo grande per due persone, si illudevano di poter restare vigili ed innamorati più a lungo di quanto il loro entusiasmo iniziale avrebbe consentito. La tempesta era già dietro l’angolo e loro non avrebbero potuto scorgerla, perché il mare non aveva spigoli.
Se si fossero destati un secondo più tardi del previsto, sarebbe stato troppo tardi per sempre. Se non si fossero svegliati più, si sarebbero portati dietro la convinzione che ci sarebbe stata ancora una possibilità da sfruttare, ma non avrebbero potuto né saperlo consapevolmente né ricordarlo, perché la tempesta avrebbe cancellato via tutto, mangiandosi i loro pensieri e i loro abbracci di ieri.
Lei aprì gli occhi che era ancora inverno.
Lui, volto di spalle, stava piangendo di indifferenza.
A lei faceva male l’idea di non provare dolore, perché si accorse irrimediabilmente che entrambi erano stati anestetizzati. Da cosa poi? Forse dalla routine. Ci si abitua sempre troppo presto all’abitudine, in effetti. Si dimentica facilmente l’amore anche quando ha fatto sanguinare di gioia, anche quando ci si giura che si diverrà più forti.
Non a caso, entrambi erano rimasti incolumi, sebbene monchi di tutt’e quattro le mani. Non avrebbero potuto più tenersi a vicenda e lui, volto di spalle, piangeva di indifferenza mentre lei impazziva di rimpianto, perché si sentiva affetta da un adeguamento alla normalità che non le era mai appartenuto.
La banalità aveva sconfitto la tempesta e adesso considerava quel relitto d’amore un bottino imperdibile.
Allora, lei richiuse gli occhi. Non c’era più niente da osservare.
C’era solo lui che piangeva di indifferenza, ma era volto di spalle e non avrebbe mai incrociato la sua sonnolenza.
Se c’era un momento in cui fare cominciare la fine, si disse lei, doveva essere proprio quello.
Ecco perché aveva richiuso gli occhi.