L’incontro
di Fiorella Malchiodi Albedi

Eravamo alla fermata ormai da dieci minuti e Silvia cominciava a mostrare segni di impazienza. Decidere di muoversi con i mezzi, quel giorno, non era stata un’idea felice, ma lei aveva insistito, tante sue compagne di classe prendevano l’autobus tutti i giorni, per andare a scuola, almeno quella mattina, in cui non avevamo orari da rispettare, potevamo farlo anche noi? Avevo accettato, ma ora, al ritorno dal museo, eravamo entrambi stanchi e cominciavo a pentirmi della scelta. Così, con gli occhi fissi sull’angolo da cui aspettavo con ansia che sbucasse il nostro autobus, non ho riconosciuto Elena finché non mi si è piantata di fronte, a un metro dal mio naso. Anche se poi, ripensandoci, forse avevo colto qualcosa di familiare nell’andatura un po’ sbilenca della persona che si stava avvicinando. “Cammini in diagonale come a volte fanno i cani” le avevo detto una volta, e lei, che li adorava, ne era stata felice.
– Beh, sono così cambiata? – mi ha apostrofato sorridendo. – Allora, che si dice?
– Tutto bene, e tu?
Lei ha cominciato a raccontare, con naturalezza, come se fossero passati pochi giorni dall’ultima volta che ci eravamo visti. Quanti anni erano, invece? Almeno cinque, se non sei. La disinvoltura, e la leggerezza, erano sì quelle di sempre, ma come un po’ offuscate. “È la patina del tempo” pensai.
– Lo sapevi che ho vissuto due anni a Cagliari?
– Sì, l’ho saputo.
– Ah, la Sardegna, che posto fantastico, ci ho lasciato il cuore.
E lì a parlare dei luoghi, del lavoro, degli amori, perché ovviamente c’erano stati anche quelli. Silvia la guardava con curiosità. Chi era quella donna che lei non aveva mai visto e che parlava con tanta confidenza con suo padre, come se lo conoscesse da sempre? Intanto l’autobus era arrivato e ripartito, senza di noi. Io l’ascoltavo, e la guardavo. La trovavo cambiata, ma era difficile dire in cosa, era come se i suoi tratti si fossero un po’ sgranati e le linee avessero perso di definizione. Lei continuava a blaterare, inesauribile, mettendo in una specie di macedonia narrativa amici comuni, film, libri, politica, ricordi e speranze per il futuro, senza aspettare risposte o commenti. Per la prima volta, trovavo eccessiva la sua straripante comunicativa. Era cambiata lei o ero io, a essere meno tollerante? Erano ormai quindici anni che ci eravamo lasciati. Era stata una storia tormentata, fatta di continue rotture e riappacificazioni. Poi, all’improvviso, era arrivata la fine, insolita e certo inaspettata, per un legame così passionale. Ad un tratto, senza cause apparenti, avevamo cominciato a incontrarci di meno, e poi ancora di meno, e nessuno dei due aveva chiesto conto all’altro della scarsa assiduità, finché alla fine avevamo smesso di cercarci del tutto. Sette anni di sofferenze che finiscono quasi senza che ce ne accorgessimo, in maniera impalpabile. Ma forse era un epilogo prevedibile. Nel corso di quegli anni avevamo dato fondo a tutto il nostro repertorio di drammaticità, con abbandoni dilanianti e riavvicinamenti faticosi; alla fine le energie ci erano mancate e la storia aveva finito per spegnersi da sola, come per morte naturale.
Non aveva fatto nessun accenno alla sua situazione sentimentale presente, notai.
– Ho saputo che ti sei sposata, – le ho detto interrompendo il suo sproloquio. Per un attimo ha taciuto. Poi ha detto, per una volta seria:
– Una storia finita, ora sono sola.
E subito ha cambiato di nuovo registro e ha ricominciato a parlare della sua ultima passione, la fotografia.
A un certo punto quel monologo ha cominciato davvero a infastidirmi; erano almeno venti minuti che parlava di sé, possibile che non avesse la minima curiosità per la mia vita? Aveva totalmente ignorato Silvia, che abituata alle moine degli amici dei genitori, la guardava sempre più perplessa e ogni tanto mi tirava la mano, anche se non aveva il coraggio di chiedermi di andarcene. E forse un po’ mi bruciava pensare a quanto mi fossi perso dietro a quella donna, che adesso trovavo così egocentrica e in fin dei conti noiosa. Così, quando ho visto di nuovo il nostro autobus profilarsi all’orizzonte, ne ho approfittato.
– Beh, Elena, è stato un vero piacere, ma dobbiamo proprio andare.
– No, aspetta, ti prego, devo chiederti una cosa.
Il suo tono mi ha colpito. Di nuovo si era fatta seria. Questi cambi repentini mi lasciavano perplesso, era qualcosa che non ricordavo di lei. L’ho guardata interrogativamente.
– Ti prego! – ha chiesto fissandomi intensamente.
L’autobus ha richiuso le porte e si è allontanato. Silvia mi ha guardato indispettita. Ha lasciato la mia mano e si è andata a sedere su un muretto, tirando fuori dal suo zaino il giornalino che le avevo comprato, ormai rassegnata.
Ho guardato Elena.
– Allora, dimmi.
– È che ho fatto un sogno. Ed è già una cosa insolita, lo sai che io non sogno mai.
– Non è che non sogni, è che non ti ricordi…
– Ma sì, sì, lo so. Sempre il solito pedante. É che preferisco credere che non faccia sogni, non che li dimentichi. Mi secca pensare che c’è una parte della mia vita di cui perdo regolarmente traccia, come una storia parallela che io vivo ma che mi resta sconosciuta; tutte quelle immagini che so che si sono formate nella mia testa durante la notte, appena apro gli occhi, puff, scompaiono, come se non fossero mai esistite. Mi sento sempre un po’ defraudata. Questa volta, invece, forse perché mi sono svegliata di soprassalto per un rumore forte nella strada, quando ho aperto gli occhi ricordavo il sogno con grande precisione, e c’eri tu che mi dicevi: “Hai poi trovata la glassa?” Io ti chiedevo: “Ma che glassa?” Tu non mi rispondevi e continuavi a ripetere “La glassa, la glassa, l’hai poi trovata?”. É andata avanti per un po’, ed è stato allora che il rumore mi ha svegliato, e il diavoletto spazza sogni non ha fatto in tempo a cancellarlo. Ma come nel sogno, così da sveglia, non so niente di glasse. Ti viene in mente qualcosa?
L’ho guardata in silenzio, mentre sorrideva in attesa della mia risposta. Mi stava prendendo in giro o davvero non ricordava la storia della glassa?
Alla fine mi sono risolto a parlare.
– Certo che mi viene in mente. Era il giorno che arrivasti tardi alla festa per il mio compleanno, il primo che festeggiavamo insieme. Quella sera, dopo che gli amici se ne furono andati, mi arrabbiai con te per il ritardo. Litigammo, uno dei nostri litigi epici, e alla fine mi confessasti che eri arrivata tardi perché avevi incontrato Nicola, e che mi tradivi con lui ormai da un mese. É stata la prima volta che ci siamo lasciati. Quel pomeriggio eri uscita dicendo che andavi a cercare la glassa per la mia torta.
Avevo parlato di quell’episodio che era stato così doloroso, mi rendevo conto con stupore, come se commentassi un fatto qualunque della mia vita, privo di implicazioni emotive. O, meglio, il fatto della vita di un’altra persona. E poi mi stupii del mio stupore: era naturale che avessi ormai elaborato quel lutto, perché lo trovavo strano? O fino a quel momento ero stato convinto, senza rendermene conto, che non sarei mai potuto uscire davvero da quella storia, che mi aveva irrimediabilmente segnato?
Lo sguardo di Elena era indefinibile.
Alla fine ha detto:
– Ti ricordi ancora tutto.
– Non ho dimenticato niente, né il bene, né il male.
Elena guardava fissamente un punto dietro la mia testa.
– Soprattutto il male, suppongo.
Non ho risposto, e invece ho chiesto:
– E quando avresti fatto questo sogno?
Il mio tono era ostentatamente dubbioso.
Ha fatto per protestare, poi ha rinunciato.
– La scorsa settimana.
– E subito dopo il sogno, dopo sei anni che non ci vediamo, ci incontriamo per caso?
Quel pensiero molesto mi era venuto in mente all’improvviso, ma più ci pensavo più mi sembrava che la casualità dell’abbinamento incontro sogno fosse davvero improbabile.
Mi ha guardato con aria di sfida.
– Pensi che abbia orchestrato tutto? O che mi sia inventata la storia del sogno? E per quale motivo?
– Non lo so, dimmelo tu. Certo che è una ben strana coincidenza, non trovi?
Elena ha abbassato lo sguardo, abbandonando l’aria sfrontata.
– Già, sono d’accordo con te, è difficile credere nelle coincidenze.
Adesso aveva un’aria rattristata, e mi dispiacque di essere stato brusco. Volevo dirle qualcosa, ma non mi venne in mente niente. Finché lei ha rialzato la testa.
– Eppure fai male, è come non confidare nel destino, non avere fiducia che il corso delle cose possa prendere una svolta improvvisa, che ti salva la vita.
Quel tono, così intenso, che lei a volte prendeva, e che ti arrivava dritto al cuore, l’avevo dimenticato. E anche quello sguardo, profondo, con cui sembrava offrirsi senza schermi, ora sì che lo riconoscevo. Una nostalgia calda mi ha invaso. Ricordai quanto mi sentivo orgoglioso, quando quello sguardo si posava sui miei occhi, e privilegiato, che decidesse di elargire proprio a me quel dono che mi sembrava così prezioso. Gli anni trascorsi si sono polverizzati e per un attimo mi sono sentito perduto, di nuovo in balia di quella donna, ma felice di lasciarmi scivolare nel gorgo.
Ho continuato a guardarla, incapace di replicare, e lei a un tratto si è girata e ha visto che dall’angolo stava spuntando l’autobus che io e Silvia aspettavamo.
– Salvata dall’ATAC! – ha esclamato, cambiando di nuovo tono, quasi sollevata – Su, su, coraggio, sbrigatevi, non vorrete perdere anche questo!
Ha aiutato Silvia a rimettere il giornalino nello zaino e ha preso a spingerci verso le porte. Io non ho saputo che dire, e mi sono lasciato condurre, come sempre succube della sua forza di volontà.
– Ciao, Silvia, è stato un vero piacere conoscerti.
Siamo saliti e abbiamo trovato un posto a sedere in fondo. Mi sono girato e ho visto che continuava a guardare l’autobus allontanarsi, la mano sulla fronte a ripararsi dal sole.