Dire addio
di Elena Ramella

“Ho sempre pensato che gli uccelli migratori avessero delle bussole incorporate. Lasciano il nido, ma torneranno sempre.”
Camminavano avanti e indietro sul Pont Alexandre III, 160 metri, passo dopo passo, con la luce dei lampioni che si rifletteva nell’acqua torbida della Senna e gli ultimi bateaux mouches che si allontanavano dalla riva carichi di turisti con gli occhi luminosi e le macchine fotografiche in mano.
Avanti e indietro.
“Ti aiuto a traslocare, se vuoi.”
“Grazie, avrei davvero bisogno di una mano.”
“Bene.”
Silenzio.
“Vorrei essere un acquerello e semplicemente dissolvermi.”
“Non serve. Non voglio. Non importa. Abbiamo abbattuto le barriere perché siamo due. Ci siamo denudati fino all’osso. Mi sembra impossibile tutto questo ora. Che possa finire in questo modo.”
Camminavano, lentamente, lei con le braccia intrecciate contro il petto, lui con una mano nella tasca della giacca e l’altra libera per portare nervosamente la sigaretta alle labbra.
La gente li guardava, appuntava lo sguardo su di loro, in quel secondo in cui si incrociavano in direzioni opposte, per poi andare oltre. Guardavano il loro silenzio e i loro occhi bassi, nella penombra. I fasci di luce dei fari delle auto proiettavano ombre lunghissime dietro i loro passi, e quel ponte, di notte, illuminato, era un capolavoro di oro e di linee inafferrabili.
“Ti vorrei ancora implorare, ti vorrei ancora chiedere un tempo nostro, ancora un tempo nostro in cui tu potrai mettere radici in questa città, in me, e le tue mani ostinate, e il tuo cuore violento, potrebbero conoscere un’altra felicità.”
La sua voce era ormai ridotta ad un sussurro soffocato. Era privo di forze, impotente, all’ultimo spasmo, all’ultima mossa, l’ultimo scatto di chi si sta lentamente addormentando, quando tutte le parti del corpo sono già abbandonate al sonno, l’ultimo movimento di chi sta sognando di cadere e si sveglia di soprassalto, per la paura.
Chi li vedeva arrivare al fondo del ponte e poi girarsi, e ripercorrere i loro passi, rimaneva per un attimo stranito. Ma quella era la terra di nessuno, un territorio neutro. C’erano confini immaginari che non andavano sorpassati, le strisce pedonali erano l’ultimo segno tracciato col gesso bianco che indicava che bisognava ricominciare da capo, mentre si faceva sempre più buio.
Improvvisamente, a metà del ponte, lei si fermò, in mezzo al marciapiede, con lo sguardo perso.
“Cosa c’è?”
“Sto salutando. Sto guardando queste luci che si confondono e che mimano se stesse. Sto guardando queste auto e sto esponendo il mio cuore a loro, a quelle che vanno ad est, e a quelle che vanno ad ovest. È notte, è nero, i contorni sono sfocati. È il momento migliore per dire addio.”
Poi riprese a camminare. Gli passò una mano sotto al braccio e si aggrappò a lui con tutto il peso del suo corpo sottile.
“Tutti i miei giorni con te, qui, sono stati come una calda, avvolgente, nebbia.”