Graceless
di Giampaolo Giudice

“You can’t imagine how I hate this.”
Quante stelle ho dimenticato in questi anni? Almeno tante quante le volte che ho voltato lo sguardo lontano dal cielo.
È parecchio che non mi fermo a guardare il cielo; c’è sempre qualcosa da fare, qualcuno a cui dedicare le mie attenzioni od il mio tempo. Nulla che possa, o che voglia, aspettare.
E che avrebbe dovuto, invece.
“I’m trying, but I’m graceless.”
Per aspettare devi stare bene, altrimenti è una tortura. Devi stare bene con te stesso per aspettare. Perché in quei momenti sei lì, da solo con le tue aspettative, con il tuo immondo ed atroce fondo che fingi non esista il resto del tempo e da cui fuggi quando dormi.
“I am not my rosy self.”
Mettere in attesa la vita di dentro, quella reale, a favore di quella recitata di fuori.
Per quanto cerchiamo di convincere e convincerci non sia così, ci troveremo sempre a dover fare i conti con il nostro intimo modo di essere occultato, secondo noi, agli occhi altrui.
E questo ci fa sentire tanto bravi, tanto adatti e riusciti da fare finta che non esista nessun mostro nascosto sotto il nostro letto. Impariamo a mentire da bambini. Uno dei primi meccanismi di adattamento. Fare come ci dicono, mentire a noi stessi e poi agli altri. Se padroneggi il mentire a te stesso puoi estenderlo e sembrare convincente anche con chi non è te, a chi sta fuori. Fuori hai sempre un personaggio da recitare. E funziona, più o meno, la maggior parte delle volte. Strategie fallimentari adottate quando il cuore è ancora ingenuo. Roba che vai raffinando con l’età.
“There’s a science to walking through windows.”
Ce n’è un bel dire che non è vero, che non è così. Ma la realtà è che devi essere un po’ quello che vogliono gli altri per poterti muovere in una vita fatta di socialità. Per essere accettato, per far scolorire un poco il senso di colpa di aver ferito o portato dolore a qualcuno a cui hai detto di voler bene o amare.
Sei foderato di chiodi e vetri rotti, e ti chiedono solo abbracci. Chiodi e vetri rotti piantati nel burro. Senza stadi intermedi.
“Now I know what dying means.”
Distogliendo lo sguardo da quello che ho visto e non dimenticato.
Sotto un cielo di marmo abitato da nuvole sterili; niente azzurro, niente grigio. Non un vero cielo.
Calderone senza colore in cui vanno a finire i pensieri evaporati fra sonno umido e pigrizie di stagione.
A chi pensi quando siamo distanti?
Chi vedi se chiudi gli occhi mentre suona De Gregori?
Quale indirizzo conosci a memoria?
Domande che vanno bene per un primo appuntamento come per una lettera di addio. Lati diversi di medaglie uguali.
Pezzi di relazioni passate. Fantasmi storpi nei corridoi. Mani tese verso mani voltate ad altre mani ancora. La danza del rifiuto pacato di un amato non amante.
“Grace”
Gli occhi sbagliati sugli altri. Sapendo di loro solamente quanto decidono di lasciar intravedere. Sappiamo di loro solo quello che sono per noi.
Chi sono gli altri, i nostri altri, per altri ancora?
L’aspetto nascosto. Quello di cui ti si parla con trasporto, con una luce diversa mai immaginata prima.
Qual è il tuo?
Quell’aspetto di cui gli altri parlano ad altri di te.