A una passante
di Eva Luna Mascolino

– Cameriere? Dell’altro rum, per favore.
– Questo è il quarto bicchiere, signore.
– E con questo? Sei pagato per servirmi, damerino, non fare tante storie.
– Sissignore, subito signore.
Bene, cominciamo ad esserci. Ma tu guarda, nemmeno un po’ di rispetto per l’ars poetica e per chi si sforza di farla sopravvivere lasciandosi ispirare dall’ebbrezza.
Maledetta ignoranza! Dove arriveremo? Cosa ne sarà della cultura, quando anche noi verremo censurati, quando il Novecento spalancherà le porte al progresso, al positivismo, alla pura e fredda tecnologia, alienante nemica dell’arte?
– Il vostro rum, signore.
– Grazie, ragazzo.
Il giovane in giacca e pantaloni bianchi fa per allontanarsi.
– Ehi, tu!
– Mi avete chiamato, signore?
– Sì, mi chiedevo… Hai un pezzo di carta da portarmi al tavolo?
– Un pezzo di carta?
– Sì, carta. Quel materiale bianco e liscio che non serve solo per asciugarti il naso, ma anche per scriverci sopra qualcosa.
– Sissignore, ma non abbiamo pezzi di carta, qui al bar.
– Non avete pezzi di carta?
– Nossignore.
– E tu dove prendi le ordinazioni, allora?
– Io… Torno subito, signore.
– Ecco, appunto.
Il cameriere si allontana, sparisce dietro il cappello di piume di un’anziana signora e ritorna poco dopo, con aria trionfante.
– Il vostro pezzo di carta, signore.
– Finalmente! Devo pagare anche questo?
– Nossignore, offre la casa.
Un mezzo sorriso viene smorzato sul nascere da un’occhiata gelida del cliente – un uomo sui trent’anni, robusto ma raggrinzito, con le pupille scavate in viso, grandi labbra, capelli neri indomabili. Quel che colpisce, a una prima occhiata, è l’andatura dondolante e gli occhi spiritati. Chiunque lo senta parlare, rabbrividisce. Dicono sia incastrato in un processo, per via di una bestemmia. A giudicare dalle volte che sputa per terra, non risulta difficile crederci.
Il galantuomo, comunque, torna a sorseggiare il proprio bicchiere di rum con aria assorta, giocherella con una stilografica e non sembra preoccuparsi delle occhiatacce di chi lo circonda – d’altra parte, è convinto che Montmartre sia, ormai, irrimediabilmente mal frequentata, a dispetto degli sforzi di pittori e poeti d’ogni sorta che vorrebbero elevarlo a cenacolo, luogo di raccolta, punto di riferimento per ogni circolo culturale che si rispetti.
La stilografica, un rigo dopo l’altro, cancella l’abbozzo di un racconto (così sembrerebbe), il cui titolo recita: MEMORIE SEGRETE DI UN PARIGINO, OVVERO: VITA E CONFESSIONI DI C. B.
Il foglio di carta portato poco prima dal cameriere resta immacolato sul tavolino color avorio, che gode, davanti a sé, della spettacolare vista della Basilica del Sacro Cuore, distratta – e quasi inutile – scenografia per quello strano cliente seduto al Bar du Coin.
Poco dopo, quest’ultimo afferra il foglio e inizia a scribacchiare qualcosa. Versi, si direbbe.
– Da dove cominciare, perdiana? “La folla, frenetica, attorno a me s’ingarbuglia”. Troppo lungo, ridondante. Ci vorrebbe dell’altro rum, ma non vorrei vedermi riapparire qui davanti il ragazzetto di poco fa neanche per duecento franchi! Torniamo a noi. Ero per strada, in mezzo al suo ronzare... Troppo poco gentile, troppo poco vero! Sarà meglio fare due passi per schiarirmi le idee, seduti qui non si ragiona.
L’inconfondibile frastuono di una sedia strisciante contro l’asfalto fa voltare l’intera clientela del Bar du Coin dalla parte dell’eccentrico galantuomo che ha da poco sgridato il cameriere più giovane. Egli inforca una pipa nera e dalla forma particolarmente ondulata, poi si dirige verso nord, come rapito da uno strano impeto psicofisico.
Chi lo conosce – se mai qualcuno ha potuto affermare di conoscerlo – direbbe che sia nel pieno di una rivelazione mistica, ma la verità è che l’uomo è in profonda e seria riflessione. Un anacoluto mancato lo tormenta, non riesce a scrivere in maniera contorta come vorrebbe, e ciò lo gonfia di frustrazione.
Proprio mentre il suo sguardo imprigiona nella retina la forma baroccheggiante di una nuvola sopra la bianca cupola della basilica, volta la testa di centottanta gradi.
Capelli fini, sembrano fili d’erba. Solo, neri come la pece. Gambe lunghissime, statuarie, da scultura greca. Proporzioni perfette fra le labbra semichiuse – oh, un sorriso! – e le scapole. Le dita delle mani sono affusolate, le orecchie piccole, la gonna troppo larga perché si possa intuire cosa essa stia celando.
Al collo dell’apparizione sta un monile, deve essere argento… Ma no, ma no, è solo una conchiglia infilzata da un laccetto nero. Una conchiglia su una Venere di Botticelli. Ha lo sguardo lontano, perso, annegato chissà dove. Piange in silenzio, con l’anima a fettucce, il corpo inchiodato al terreno, un’aria inafferrabile – è cobalto la sfumatura degli occhi? È dolcezza la crudele bellezza di cui si circonda, mentre attraversa la strada?
L’uomo la insegue. Sa di essere stato notato, è rimasto come un ebete a fissarla, socchiudendo la bocca a mo’ di carpa presa all’amo. Altro che poesia!, altro che Catullo! Una figura da manuale, degna di essere perpetuata di generazione in generazione fino all’anno millenovecento, ma che dico?, millenovecentocinquanta, anzi, ottanta, anzi, duemila!, voilà – maledette gambe, volete muovervi?
– Posso… Posso offrirvi un…
– …?
– Buon pomeriggio, madame.
– Mademoiselle, prego.
– Mademoiselle, chiedo scusa. Avete per caso bisogno di… Io, cioè… Voi…
Pausa.
– Scusatemi, è che ho appena corso e…
– Vi occorre qualcosa, monsieur?
– Come dite? Oh, nulla, figuratevi! Mi stavo solo domandando se voi… Da che parte siete diretta, di preciso?
Un sorriso. – Io sono giusto arrivata.
– Ah, ma che coincidenza!
– Dite?
– Sì, io… Sono arrivato anche io, sapete…
– Dunque abitate anche voi qui? E ditemi: di chi siete ospite? Perché non vi ho mai visto prima, da queste parti. Dovrà certo ospitarvi la vedova Dupont, o forse siete il cugino di quel tale Chal…
– No, io non… Non abito affatto qui, mademoiselle. Stavo solo… Sono di passaggio, io.
– Di passaggio?
– Proprio così, precisamente, stavo… Ero al Bar du Coin, vi ho vista attraversare in tutta fretta ed ho pensato che voi… Che io… C’est-à-dire, voi mi capite…
Un altro sorriso. – È tutto a posto, monsieur. Vi sono grata per la premura.
– Per la premura, certo… Per la premura.
– Però, vogliate scusarmi, io dovrei…
– Ma prego, prego, fate pure! Non badate a me, io stavo solo… Ero di passaggio, l’ho già detto? Avevo in mente un’idea e mi ero allontanato, ma adesso ho perso l’idea e ho perso pure voi, e…
– Come dite?
– Chi? Io?
– Ma sì, voi! Come avete detto, proprio adesso?
– Non ricordo, ho detto di aver avuto un’idea, mi pare…
– E di averla persa. Di aver perso anche me, avete detto.
– Diavolo! Ho detto proprio così? Non dovevo, voglio dire, non sapevo…
– Basta così, ve ne prego.
– Avete ragione: voi dovete andare e io vi ho fermata, ne sono addolorato.
Un sorriso. È già il terzo. Ed è passato non più di qualche minuto.
– Non agitatevi, suvvia. Avrete bevuto qualcosa, non è vero? Dall’odore si direbbe rum.
– Rum, sì, proprio rum, mademoiselle.
– Può capitare, non fatevene una colpa. Ci rivedremo quando sarete più sobrio, magari.
– Più sobrio, sì…
– D’accordo, allora. Io abito proprio qui, vedete? Se doveste alloggiare da queste parti, non dimenticatemi, je vous en prie.
– Non dimenti… Non dimentichiamolo…
– Buona giornata, monsieur.
– Buongiorno, sì, buongiorno a voi!
“Silenzio” non sarebbe il termine esatto. Sarebbe piuttosto riassuntivo, ma non del tutto esatto. “Costernazione” è la parola giusta. Smarrimento, devozione cieca, allucinazione, tempesta, fango e miele, folgore, fungo velenoso misto ad ambrosia.
L’uomo ritorna barcollando verso il tavolino che aveva occupato. Non è ubriaco, no. È solo stordito, senza più fiato, con un guizzo negli occhi, un fremito orrido, simile alla possessione o all’illuminazione più alta.
Con il pollice e l’indice afferra il bicchiere (ormai vuoto) e lo capovolge. Ci poggia sopra la pipa e guarda la signora dal cappello di piume attraverso il riflesso stesso del bicchiere. Ha un ghigno, cerca a tentoni il foglio di carta bianca rimasto intatto, finalmente lo agguanta nel pugno sinistro e lo avvicina alla stilografica. Rintraccia il profilo della donna, ne fa uno schizzo abbastanza fedele, per un profano del disegno ornato e della ritrattistica.
Gli si avvicina il cameriere.
– Avete bisogno di qualcosa, signore?
– Ancora tu? Si può sapere chi ti ha chiamato, somaro?
– Nessuno, nessuno – farfuglia quello. – Vi ho visto tornare, così, all’improvviso, e ho creduto voleste bere dell’altro, o mangiare qualcosa.
– Bere, mangiare? Tu farnetichi! Mettiti accanto a me, piuttosto! Ecco, da bravo, non farti pregare.
– Signore…
– Silence. Ascoltami. Tu hai mai visto passare angeli, da queste parti?
– A… Angeli?
– Proprio così, zuccone. Angeli. Ne hai mai visti?
– Io non credo, signore.
– Non dire sempre “signore”, non sono un tuo superiore!
– Io lavoro qui, signore, è il mio mestiere.
– Al diavolo il mestiere! Sai qual è il mio mestiere, belloccio?
– Nossignore, no.
– Scrivo.
– Capisco, signore.
– Invece continui a non capire nulla, credi non lo sappia? Io scrivo, faccio il poeta, la gente mi evita per questo. Mio padre è morto tanti anni fa, non ricordo nemmeno come, so che mia madre è diventata la sgualdrina di un bastardo e io non sono più figlio di nessuno, in questo schifo di mondo, hai capito, adesso? Sta’ zitto, era una domanda retorica… Io scrivo per maledire tutti, i miei sono anatemi, condanne, c’est clair? Ma sono anche benedizioni, odi, sonetti d’amore! È raro, oh, se è raro!, ma capita di essere catturati in una rete invisibile, una rete triste e fittissima, come la cella di un innocente condannato all’ergastolo. Che ci fa un innocente in prigione per tutta la vita, eh?, me lo sai dire? Niente, ecco cosa! Non ci fa un bel niente: impazzisce!
– Signore…
– E quella donna, quell’angelo lì, mi ha proprio fatto impazzire. Così, da un momento all’altro! È passata e ha distrutto secoli di poesia, millenni di sculture, lustri e bilustri di musica polifonica… Ha fatto crollare le cattedrali, ha chiamato a raccolta i venti e i terremoti. I tifoni hanno assistito i suoi passi, il suo sguardo atterriva e graziava, lo vedi, il suo sguardo assassino e salvifico, lo vedi?, mi sta chiamando, mi allontana dalla Morte, mi porta con sé. Non so dove, ma lontano, lontano dal tuo rum e dal tuo misero stipendio, lontano da quel cappello di piume là dietro, lontano dalla civiltà, dagli uomini in frac, dai salotti dei borghesi, dai ritrovi degli impressionisti… Che orrore! Che miseria! Lei conosce l’Olimpo, è arrivata da chissà quali monti, da chissà quali Paradisi terrestri! È scesa così, in un pomeriggio qualsiasi, ha perfino attraversato la strada e ha permesso che io le rivolgessi il saluto, questo lo capisci? Io non sarò più solo, dovessi anche morire adesso – oh, ma non morirò, lei mi ha salvato, com’è vero che io mi chiamo Charles, lei mi ha salvato e io non morirò – questo lo capisci?
Silenzio.
– Lascia perdere, sei un buono a nulla, tu e le tue ordinazioni maledette!
– Signore, io…
– E se non dovessi più trovarla? E se svanisse, se fosse già un’illusione della mente, uno scherzo dei sensi? Ah, benedetta poesia, devo immortalarla, devo raccontarla, con le sue dita e quei capelli, con le gambe, lo sguardo, la veste, in mezzo alla feccia di questa città, santo cielo, che apparizione! Io devo… Dov’è quel foglio? E dove diamine è il mio bicchiere? Ragazzo, altro rum e altra carta, sbrigati!
Il cameriere scatta in piedi, richiamato finalmente all’ordine.
Scivola fra i tavolini, non fa in tempo a sparire che è di nuovo a fianco del cliente di cui ha ascoltato ogni singola parola.
Porta con sé il bicchiere vuoto su un vassoio, e lascia all’uomo un foglio ancora vergine, assieme al rum.
– A voi, monsieur.
– Grazie, grazie, finalmente. Finalmente, dov’ero rimasto? Ero per strada, in mezzo al suo ronzare… No, no, adesso ci sono!, ecco qui…
Ero per strada, in mezzo al suo clamore.
Esile e alta, in lutto, maestà di dolore,
una donna è passata. Con un gesto sovrano
l’orlo della sua veste sollevò con la mano.
Era agile e fiera, le sue gambe eran quelle
d’una scultura antica. Ossesso, istupidito,
bevevo nei suoi occhi vividi di tempesta
la dolcezza che incanta e il piacere che uccide.
Un lampo.. e poi il buio! – Bellezza fuggitiva
che con un solo sguardo m’hai chiamato da morte,
non ti vedrò più dunque che al di là della vita,
che altrove, là, lontano – e tardi, e forse mai?
Tu ignori dove vado, io dove sei sparita;
so che t’avrei amata, e so che tu lo sai!
(A una passante – Charles Baudelaire)