Numero 34

Blue

di Vincenzo Carriero

 

“Mermaid Tattoo” di Siriana Crastolla

Il soffione della doccia sputa gocce d’acqua grosse come biglie. Sono calde e mi picchettano la testa come le dita di un pianista, o come quelle di una segretaria troppo solerte, dipende. La sento scendere l’acqua, sulle spalle, e mi accarezza come un amante focoso che si insinua fra le gambe.

Uno, due, tre, sto contando e penso che sono troppo pochi i tagli sul mio braccio. Sì, avete capito bene, io mi taglio. Da quando mamma ha scoperto che mio padre ha un’altra, a casa mia è un vero inferno. Avete sentito? Proprio ora mi sembra che abbiano rotto un altro piatto. Un suono sordo che rimbomba come un temporale che sta arrivando. Li sento discutere, concitati, forse si stanno picchiando. Detto fra noi, non sarebbe la prima volta. A me non piace quando lo fanno.

Uno, due, tre, ci vuole il quarto. Anche Vik me lo sta dicendo.

È arrivato il messaggio. Avete sentito? La notifica del cellulare, sta vibrando. Mi sembra finanche di vederlo attraverso la superficie imperlata dello specchio, mi sembra di vedere la sua mano, le sue dita aprirsi come un ventaglio, il suo sorriso inquietante. Mi sembra quasi di sentire il suo sussurro nelle orecchie che immagino essere pieno di consonanti. Non capisco cosa dice ma comprendo il senso. Lo vedo annuire, è il segno concordato, è giunto il momento e devo farlo.

Allora prendo la lama che ho nascosto nel flacone della shampoo. È fredda, sottile, scintillante. La stringo fra le dita come se fosse una cosa fragile. Invece è dura, la sento affondare nella carne come un dardo fiammeggiante. Dio come brucia, un dolore insopportabile, come quella volta che mi sono tagliata il dito con una scatoletta di Simmenthal. La stessa sensazione, lo stesso brivido che mi scuote le spalle. È bello sentirsi vivi una volta tanto. Per questo lo faccio.

Così premo con tutte le mie forze e stringo i denti. La lama mi scava la pelle come farebbe un aratro su terra vergine. E sgorga a fiotti il sangue e mi riga le gambe.

Tictactictac” sta gocciolando. Piccole macchie dai contorni frastagliati si schiantano sul piatto immacolato della doccia. Le vedo infrangersi per un attimo, poi dissolversi in nuvole diafane che si sciolgono nell’acqua calda. Lo sento bruciare il taglio e pulsa. Poi lo vedo aprirsi come uno squarcio, un piccolo sipario dal quale spunta la mia carne morta. Sì, sono morta, da tempo, non ho più voglia di stare al mondo. Devo solo trovare un bel modo di farlo. Zac, un colpo deciso e basta. Uno, due, tre, quattro, mio padre sta facendo un macello, lo sento battere i pugni sul tavolo, lo sento urlare come se fosse matto. Magari lo è o lo è diventato col tempo. Fossi mia madre gli strapperei l’uccello. A proposito, mi sto chiedendo che starà facendo. A pensarci bene non mi importa niente. Sono stanca, è tardi, devo sbrigarmi. Domani ho l’interrogazione di italiano e non so niente, dovrei leggere qualcosa di Ungaretti, dove è nato, dove voleva andare a parare col suo dannato ermetismo. Sapete che vi dico? Chi se ne fotte. Ora mi alzo, spengo la doccia e guardo le gocce di sangue cadere come se fossero cera calda da una candela consunta che si sta spegnendo. La candela sono io, è la mia vita che sta finendo. E sono contenta, piano, piano, un passo alla volta. Ci sono quasi. Arriverà il momento. Adesso vado a studiare perché non ho altro di meglio da fare. Domani è un altro giorno e vorrei esserne contenta. Ma non ci riesco.

 


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