Dietro le quinte
di Eva Luna Mascolino

Era la metà di luglio del 1902.
Lei, discreta compagna dei miei accorati deliri peripatetici al limite della pineta, mi stava seguendo anche quel giorno con passo felpato, instancabile e riservata.
– Vorrei tanto scoprire quali pensieri vi rendono tanto silenziosa, oggi – la provocai a un tratto.
Lei sorrise abbassando lo sguardo, poi replicò con un’altra domanda.
– È vero quello che dicono, signore? Che voi scrivete poesie?
Questa volta fui io a sorridere. – E chi lo dice, madame?
– Non saprei, ma lo dicono. Pare abbiate pubblicato già delle opere, secondo i più. Perciò riflettevo su questo: vi conosco da così poco tempo da non potermi accertare di persona che dicano il vero, Gabriele, e ho solo la vostra parola su cui contare.
Mi fermai, piacevolmente sorpreso, e mormorai:
– Come avete detto?
– Io volevo dire che… Oh, scusate, era solo una curios…
– No, il mio nome, Ermione. Pronunciate ancora il mio nome.
– Gabriele…
Mi chiamò in un sussurro, in un lampo che si rifletté immediatamente nel cielo.
Mentre cercavo di ricompormi dal brivido che mi si era appena disegnato sulla schiena, cominciò infatti a piovigginare.
Né io né lei osammo allora muoverci di un passo. Il suo ombrellino era chiuso e stretto nel suo pugno sinistro, la mia mano destra torturava la tasca dei calzoni neri.
– Perché ha tanta importanza scoprire se io sia un poeta o meno, Ermione? – ripresi intanto, vinto dalla curiosità e determinato a proseguire la nostra passeggiata nonostante il maltempo.
– Ho la tendenza a diffidare degli scrittori, sapete.
– Qualcuno di loro ha forse deluso le vostre aspettative?
– Non uno in particolare, per la verità. Ho però l’impressione che per chi scrive per mestiere sia semplice giocare con le parole, sfruttarle un po’. Ingannare gli altri, perfino, sapete.
– Vi sbagliate, Ermione. Non basta essere un bugiardo per diventare uno scrittore e, mio malgrado, non basta fare lo scrittore per imparare a mentire.
– Vostro malgrado, avete detto?
– Certo. Se fossi bravo nell’arte delle truffe, ora stesso vi avrei teso una trappola raccontandovi che scrivo solo per necessità, aborrendo però chi ci si dedica per passione. Voi avreste allora riacquistato una qualche fiducia in me e avremmo cambiato presto argomento, dedicandoci a una conversazione più piacevole. Invece, credetemi, sono un poeta tremendamente ammaliato dalla lingua e uno sciocco che, nonostante questo, non sa bene come trarne vantaggio.
– Vi credo, Gabriele. E forse, perfino, vi ammiro. Siete fra i pochi ad essere rimasti immuni alle stregonerie della scrittura, seppure non al suo fascino.
La guardai ed ebbi come l’impressione che il suo corpo fosse diventato impalpabile, quasi di vetro. La pioggia le scivolava sul volto senza scalfirlo e la sua intera figura rivelava una grande calma, e delicatezza, e magnificenza.
– Hai sentito anche tu? – mi chiese lei un attimo dopo, quasi sobbalzando.
(Tu, tu, aveva detto tu.)
– No, non ho sentito niente.
– Ci sono delle cicale, qui intorno. Stanno cantando.
Mi bastò tendere le orecchie per constatare che era vero: sembrava esserci un sottile graffio d’argento tutt’intorno a noi.
– Non sembra anche a te di essere capitato all’improvviso dentro a una favola, Gabriele?
– Dentro a che favola, madonna?
– Alla favola del mondo che si risveglia. Non il mondo che crediamo di conoscere da sempre, con i suoi manuali e le sue invenzioni smaniose, ma quello che si disseta ad ogni stagione di una linfa nuova. Alla favola delle cicale sugli alberi, che a qualche viandante distratto sembrano lì per lì delle foglie tremanti. Non senti il coro della natura che accompagna quest’incanto struggente, questo segreto di pochi, questo straordinario risveglio di chi troppo a lungo è rimasto assopito? Non sembra anche a te che questa pioggia stessa sia un pianto commosso per chissà quale dolce illusione?
Io non risposi. Non sapevo se fosse stata davvero lei a parlare o se avessi sognato tutto da solo, in preda a un’inspiegabile allucinazione dei miei cinque sensi.
Dimenticai d’essere bagnato, dimenticai d’essere in piedi, dimenticai d’essere un uomo. Dimenticai Ermione e il suo essere donna: eravamo due esseri viventi, nient’altro. Entrambi impregnati d’infinito tra i pini, i mirti e le ginestre, eravamo ora battiti, mani e ciglia chiuse, ora spiriti in ascolto di altri spiriti, nell’aria salmastra d’un paradiso sepolto dal Novecento appena sopraggiunto.
Dimenticai il mio nome, chi ero stato e chi avrei voluto diventare, prestando fede solo all’odore dei nostri brividi e delle promesse che ci stavamo scambiando nel cristallino tentativo di non parlare tra di noi.
Grazie a te sento le tamerici finalmente umide, Ermione. Sento la meraviglia di riscoprirci bagnati, con le mani congiunte e ignude, mentre navighiamo nella luce di un pensiero comune e nell’abbagliante certezza di essere avvinghiati insieme a questa terra odorosa.
Vorrei accarezzare i tuoi capelli, così simili alle fronde che ci circondano, e finché non arriva la sera contemplare e fare mia la tua giovinezza, mentre ci lasciamo coccolare dall’immenso miracolo che è questo luglio.
– Sai cosa credo, Ermione? – le domandai, schiarendomi la voce.
Le mie gambe ci resero intanto più vicini, complici di anonime visioni zuppe di nostalgia.
– No, signore, che cosa?
– Chiamami di nuovo Gabriele, te ne prego.
– Che cosa credi, Gabriele?
– Che tu sia una musa. Hai ispirato questo temporale, poco fa, e hai ispirato adesso un terremoto di meraviglia dentro di me, illuminando con la Poesia questa giornata ombrosa.
– Con quale poesia, di grazia?
Fu allora, grazie al suo ingenuo fraintendimento, che concepii per la prima volta quella folle, folle idea.
Lasciai a malincuore le sue mani con un gesto deciso.
Vidi i suoi occhi spalancarsi in un atto di stupore e disorientamento. Sembrava chiedermi la ragione di quel brutale addio alla sua pelle, ma non si scompose e lasciò che solo la pioggia le carezzasse il collo.
Io, nel frattempo, avevo già una stilografica alla mano e mi frugavo le tasche alla ricerca di un qualsiasi foglio utile.
– Gabriele, ti bagnerai tutto! – esclamò a gran voce, quando mi inginocchiai per terra e provai a scrivere.
Per tutta risposta, io le sfilai dalle dita l’ombrellino, lo aprii e le chiesi di reggerlo per entrambi, giusto una manciata di minuti.
Inizialmente lei non capì. Continuò a fissarmi con un misto di curiosità ed ironica disapprovazione: dovette credermi invasato, nell’accorgersi di come la frenesia si fosse impossessata del mio atteggiamento.
Scrivevo convulsamente, correggevo, andavo a capo, imprecavo, ricominciavo da capo agitandomi, mi passavo le mani fra i capelli in preda a una fretta illogica, pulsante e inconsolabile. Stavo dietro a un uragano di moti interiori che non mi dava requie e gettavo sguardi apparentemente casuali alla gonna di Ermione, mentre ad ogni battito sentivo il mio petto balbettare ancora le stesse due sillabe alternativamente: mu-sa, mu-sa.
Quando finalmente tornai in piedi, ero frastornato e affannato.
Non ebbi il coraggio di baciare il suo sorriso, ora più che mai divertito dalla mia euforia, né tuttavia volevo evadere da quell’oasi di spaventosa estasi di cui mi sentivo prigioniero.
– La pioggia nel pineto –dissi a mezza voce ad Ermione, porgendole quel pezzo di carta sgualcito e umido. – È per te.