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PACE
di Ferdinando Morabito

Perché parlare? Posso pensare…purché prima…praticamente…pausa.
Proviamo.
Parlare provoca pericolosi precedenti. Perdi poesia, posizioni, prestigio.
Pensare può portare promettenti premi, previsioni pacate, preziose personalissime perle pregiate, programmi puliti: pensieri puri.
Premessa: pensiamo, però poi parliamo. Prima però, pensiamo.
Profondi problemi pendono pericolosamente.
Pistole puntate possono privare persone premurose, padri perfetti, piccole pesti, pensionati.
Possono portare perdizione.
Pensare, poi parlare. Persino Platone prima pensava. Pure Proust pensa, poi parla. Può preservare popoli. Purtroppo parlare provoca pericoli.
Parole prorompenti possono portare paura. Parole patetiche provocano pressioni pericolose.
Popoli provati perdono presto pazienza. Poi…
Parlare per provocare. Peccato. Parole preziose perse.
Parlare per punzecchiare persone provate, per provocare processi perversi, per promuovere problemi perenni. Perché?…Continue reading
Nuvole senza contorni

Yambo era faccia in giù, le braccia oltre il collo, i palmi attaccati alla terra. Assorbito dalla sabbia e dal sale.
Dall’altra parte della città, Ester, seduta al tavolo di un bistrot arredato male, stava in silenzio. Aveva lasciato che l’aria entrasse fra le sue mammelle, che si incanalasse lungo il suo seno. Il tizio che le stava seduto di fronte si agitava, ogni tanto scendeva con gli occhi sul suo corpo, sui suoi morbidissimi contorni. Era sempre stata orgogliosa delle sue forme, il resto del suo corpo le piaceva in base alle stagioni.
La maggior parte della gente si allontanava dalla battigia per non incrociare il corpo di Yambo, che si era adagiato al suolo davanti all’ombrellone di Ginetto. Era lì in pieno giorno e sotto un sole caldo, sdraiato a terra, apparentemente senza respiro. I coraggiosi lo saltavano elegantemente mettendo in risalto tutta la loro grazia, l’armonia del movimento.
Il tizio continuava a sparlare, a sputare frasi fatte, citava i suoi intellettuali di riferimento: “mi sono fatto da solo”, “se solo avessi voluto, mia madre mi avrebbe raccomandato ovunque. Io, però, non ho voluto…”, “prenderò il posto di mio padre in macelleria, vedrai…e dopo…”. Diceva frasi a caso, interconnesse fra loro come la vita di un fiore a quella di un bollitore elettrico con la resistenza bruciata. Ester era felice, parlava bene con quel tizio. Avevano già cenato insieme un paio di volte nei mesi precedenti. Ad Ester le bastavano quelle chiacchiere…Continue reading
Fratelli d’Italia
di Eva Luna Mascolino
Genova, 17 marzo 1861
Caro Goffredo,

Dio solo sa quanto mi sia costato tacere in tutti questi anni, rispettare la promessa di non inviarti più nemmeno un biglietto e di non venirti a trovare fino a casa. Sei rimasto nei miei pensieri fin da quel settembre 1847, fin dalla maledetta sera in cui ci hanno costretto a separarci, ma nemmeno quando la tubercolosi mi ha strappato mia madre dalle braccia ho osato infrangere il nostro patto, certa che sarebbero presto sopraggiunte stagioni migliori, primavere in cui avremmo dimenticato il vostro patriottismo e celebrato il nostro amore.
Oh, se solo tu sapessi quanto ho odiato i vostri ideali, il vostro cocciuto spirito di sacrificio, la vostra sciocca ambizione di unificare questa povera e disillusa Italia da quella notte in poi! Venivi a trovarmi in sogno, avevi il tempo di sciogliermi i capelli e poi fuggivi via, risucchiato da un vortice di colori, urla, spari… Mi hai lasciata sola, Goffredo Mameli, continuavo a ripetermi e a gridarti nel sonno. Hai preferito la patria a me e mi hai lasciata sola sola sola sola sola sola.
Ad ogni inquieto risveglio, per ogni indomito sole che è sorto senza che i nostri corpi potessero riabbracciarsi, maledicevo te, Novaro e la vostra marcetta di qualche decennio fa…Continue reading
Feuilleton Il francese inesistente – Parte seconda
di Fabio Cardetta

“Macchie_004” di Nicola Lonzi
Svetlan si sentiva così simile a Schubert, forse perché Schubert era morto di sifilide. Ma Svetlan non era ancora morto di sifilide e non si fregiava nemmeno di avercela la sifilide.
Aveva comprato da tempo i biglietti per il grande concerto del tardo pomeriggio nella Cattedrale di San Martin e non aveva chiesto a nessuno di accompagnarlo.
La musica classica era per lui un momento di preghiera ed estasi solitaria. E la Cattedrale era per lui il posto esatto per celebrare quel rito mistico. Non era la prima volta che assisteva a questi concerti. L’ultima volta, per il Requiem di Mozart, ne era uscito elevato e devastato. Ma Schubert era Schubert, il suo preferito, e non appena aveva saputo che avrebbero eseguito il componimento ‘La Morte e la Fanciulla’ si era proiettato in biglietteria per accaparrarsi i posti migliori.
Ora sedeva, proprio al centro della chiesa, sotto la grande cupola gotica ornata di sculture mostruose e angeliche, con una gamba che sporgeva nella grande navata centrale tremando e l’altra come paralizzata, inchiodata alla panca.
La moltitudine di gente era silenziosa e incantata dai componenti dell’orchestra, che con un roboante e stridente movimento di violini raccontavano il potente ultimo canto di Schubert, quella misteriosa melodia dedicata alle figure di Ade e Proserpina, un misto di note paradisiache e infernale rumore.
Uscito che già erano le 21.00, Svetlan rimase un po’ a fumarsi una sigaretta seduto alle scalette d’un portone di fronte alla Cattedrale…Continue reading
L’anno in cui sembrò piovere per sempre

Lo passammo come fossimo stati degli sconosciuti; l’anno in cui sembrò piovere per sempre.
Lo passammo cercando giornalmente di evitare il contatto, quasi fossimo un pericolo reciproco. E questo ha pure senso nel suo paradossale accadere: tenere a distanza qualcuno o qualcosa che potrebbe infilarsi nel cuore senza nessuna fatica, o che magari è già dentro e tu stai disperatamente cercando di strapparlo via da lì per rimarginare.
L’anno in cui parve piovere per sempre fu un periodo denso, così come erano dense le nuvole sopra la testa dei passanti; grigio denso di acqua in atto di diventare goccia. Che poi, anche questa storia dell’acqua che crea se stessa sarebbe da scoprirne il miracolo, ma facciamo un’altra volta, un giorno di sole, magari. L’anno in cui sembrò piovere per sempre fu dunque un periodo denso, animato da minuti affilati come rasoi, attraverso cui occorre muoversi con attenzione massima; tanta da lasciare sfiniti la sera come dopo una maratona. Sì, ecco. I giorni affilati dell’anno in cui parve piovere per sempre sembravano srotolarsi lentamente lungo la strada come il percorso di una maratona, una corsa ad ostacoli foderata di pensieri taglienti di cui evitare il filo.
L’anno in cui parve piovere per sempre era iniziato con gocce sottili, piccoli aghi d’acqua che si infilavano ovunque col passare dei giorni. Si infilavano in ogni anfratto, riempivano ogni crepa, bagnando tutto ciò con cui entravano in contatto. Come quando si rimane così a lungo sotto la pioggia da non avere più nulla di asciutto, vi è mai capitato? Restare così a lungo sotto l’acqua tanto da avere l’impressione di avere persino i ricordi allagati?…Continue reading
I miei eroi
di Ferruccio Mazzanti

Abbiamo atteso questo giorno
abbiamo pianto insieme
come un deserto sotto la pioggia
quando il sole non c’è più
e quando riesco ad essere giovane
ballo su terrazze
la musica che
mi manca così tanto
e queste persone
intorno
che ballano con me
sono i miei eroi
provenienti da un paese lontano…Continue reading
Di ponti e sensi di colpa
Giada Tommei

“Come quella volta alla torre delle ore, quando mi dicesti che non avevi mai amato e io ti risposi che chi si ferma a guardare un violoncellista abusivo, noncurante del gelato che si scioglie nel polso, nasce già innamorato. ”
Io sono innamorata solo del senso di colpa
“Il senso di colpa è innato e non guarisci. Hai presente le urla strazianti delle madri durante il parto? Come si fa a non nascere colpevoli, quando si ha la consapevolezza di esser causa di un enorme sofferenza? Pur gioiosa che sia, la nascita ti inietta nel corpo come un dovere specifico: riscattare la madre dal dolore subito nel metterti al mondo. E allora , spesso, quella stessa pena provata dalla madre durante il parto diventa il motivo ricorrente della vita del figlio. Come l’allungamento di una radice di dolore: ti rendi conto cosa significa aver vissuto nove mesi uniti da un cordone?”
Mi rendo conto di non essere più un cordone
“Ovvio che non lo sei, provocatrice che non sei altro. Dico solo che c’è un legame profondo che nemmeno tutto il rancore del mondo può uccidere. E’ come se il cordone ti rimanesse per sempre impigliato in un piede, o in un braccio, o alla gola”
Partoriscono cumuli di ansia, non bambini!
“Non essere ironica, è una cosa seria: se aspetti di liberarti del senso di colpa per cominciare a vivere, non vivrai mai!”. E allora perderai occasioni. Non parlo di chissà cosa, ma anche solo di momenti di bellezza che andranno perduti. Devi solo imparare a cullarlo, conviverci, parlarci, farci la pace. Non è così difficile: tu gli spieghi dolcemente quello che vuoi e ciò che sei, e lui piano piano diventa quieto come un cucciolo appena preso al canile. Finisce che lo comandi tu…Continue reading
A colloquio con Rossella
di Gaia Tomassini

“Buongiorno, mi trovo impossibilitata a rispondere al telefono in questo momento, ma lasciate un messaggio dopo il segnale acustico e vi richiamerò appena possibile. Arrivederci, Rossella”.
31/5/1999
Biiip; “Ciao mamma! Nel pomeriggio parti col Club per la Fiera del Libro vero? Senti se riesci prendimi l’ultimo libro di quell’autore finlandese, ora non mi ricordo quale… vabbè insomma, lo riconoscerai! Baci e divertiti, ti voglio bene!”. Ore 10.12
Biiip; “Mamma dove sei? Dovresti essere a casa a preparare la valigia e invece come al solito sei in giro per il paese! Vedi di non dimenticarti niente e – mi raccomando- chiama quando arrivi. Sai che poi sennò sto in pensiero. Ti voglio bene, ciao ciao”. Ore 10.41
Biiip; “Ti prego mamma quando arrivi chiama Alessandra che sennò poi telefona a me preoccupata. Fallo per gli altri tuoi figli e per evitare che i tuoi nipoti vivano in una casa di gente stressata. Detto questo, ricordati del finlandese e divertiti”. Ore 11.32…Continue reading
La marchesa
di Vincenzo Carriero

Era una serata come questa, uggiosa, fredda. Il cielo grigio d’argento brontolava parole senza senso. L’asfalto lucido di pioggia fine, fitta, illuminato di rosso, di giallo, di bianco, dai fari delle auto in coda. Era l’ora di punta, un macello. Qualcuno smadonnava suonando il clacson, altri ingannavano l’attesa su WhatsApp, altri ancora parlavano del tempo, che banalità! La marchesa, invece, era ancora lì, imperturbabile, dietro il grosso vetro del suo ufficio megagalattico, all’ultimo piano di un grattacielo fatto di specchi, sulla Avenue, in pieno centro. E osservava tutta quella gente andare avanti. Dove? Se lo chiedeva da sempre senza darsi una risposta soddisfacente. Quel giorno osservava le gocce di pioggia trasparente disegnare cuori, fiori, serpenti, segmenti lunghissimi sul vetro dove il suo respiro lasciava il segno. La condensa, migliaia di particelle di vapore acqueo più caldo del mondo esterno.
– Che bello – pensava mentre ci disegnava un cerchio, con le dita nodose, deformate, come fossero rami di ulivo rinsecchiti, scheletriche appendici sopravvissute allo scorrere inesorabile del tempo. Già, il tempo. Aveva lasciato il segno. Sul viso, sul corpo raggrinzito, nei suoi occhi spenti. Aveva assopito appetiti altrimenti incontenibili. Era sempre stato difficile soddisfarli. In certi ambienti, una persona in vista come lei, una donna importante. Talmente tanto da spostare capitali così ingenti da far fallire una banca.
O scatenare guerre. Magari finanziando estremisti. Le guerre di religione, poi, erano le sue preferite, le più cruente. E più ci pensava, più il suo appetito diventava insostenibile. Da un po’ di giorni era così, come una presenza ingombrante, un compagno di viaggio oscuro, assillante…Continue reading