Numero 33

Fratelli d’Italia

di Eva Luna Mascolino

 Genova, 17 marzo 1861

 

Caro Goffredo,

“Carly” di Francesca Ligios

Dio solo sa quanto mi sia costato tacere in tutti questi anni, rispettare la promessa di non inviarti più nemmeno un biglietto e di non venirti a trovare fino a casa. Sei rimasto nei miei pensieri fin da quel settembre 1847, fin dalla maledetta sera in cui ci hanno costretto a separarci, ma nemmeno quando la tubercolosi mi ha strappato mia madre dalle braccia ho osato infrangere il nostro patto, certa che sarebbero presto sopraggiunte stagioni migliori, primavere in cui avremmo dimenticato il vostro patriottismo e celebrato il nostro amore.

Oh, se solo tu sapessi quanto ho odiato i vostri ideali, il vostro cocciuto spirito di sacrificio, la vostra sciocca ambizione di unificare questa povera e disillusa Italia da quella notte in poi! Venivi a trovarmi in sogno, avevi il tempo di sciogliermi i capelli e poi fuggivi via, risucchiato da un vortice di colori, urla, spari… Mi hai lasciata sola, Goffredo Mameli, continuavo a ripetermi e a gridarti nel sonno. Hai preferito la patria a me e mi hai lasciata sola sola sola sola sola sola.
Ad ogni inquieto risveglio, per ogni indomito sole che è sorto senza che i nostri corpi potessero riabbracciarsi, maledicevo te, Novaro e la vostra marcetta di qualche decennio fa. Con quale coraggio l’avete definita un inno?, mi dicevo. Con quale inorgoglito ardore cantate d’esser pronti alla morte senza pensare alle vostre donne, chiuse in casa, ad aspettare che rientriate dopo ogni sciagurata insurrezione?

Non ti ho mai scritto, Goffredo, e di questo mi rammarico – ma perché nemmeno tu, quando sei stato al sicuro, hai preso un calamaio e mi hai inviato qualche riga? Quando, nel 1849, ti sei unito a quel folle di Garibaldi, fui certa che la tua fine era vicina, che eri ormai precipitato nell’abisso di un’utopia testarda e senza nome, eppure seppi anche che nessuno avrebbe osato catturarti, torturarti, trucidarti, finché fossi stato al fianco di quel filoargentino. Allora, mi dissi, finalmente mi scriverà, verrà a trovarmi e a rinnovare i suoi giuramenti d’un tempo in mezzo ai campi di grano. Allora, mi dissi, smetterò di sognarlo e potrò disegnare le sue labbra a memoria mentre mi disseterò nei suoi occhi, affogando assieme a lui fino all’ultimo respiro della mia relegata esistenza.

Tu, però, non hai mai più chiesto di me, mai più. Non ti sei mai domandato se mi avessero dato in moglie ad un monarchico, se per caso m’avessero portata dalla loro parte né, tanto meno, se fossi in salute e se mi ricordassi ancora di te. Oh, Goffredo, è stata forse colpa mia? Aspettavi forse che fossi io a riprendere o meno la nostra corrispondenza? Ma come avrei potuto disobbedirti, rischiando di mettere a repentaglio la tua vita stessa?
Quando hai difeso la nostra immensa e coccolata Roma dai francesi in quello spaventoso tre giugno ero lì anche io, sai? Ho visto i tuoi compagni portarti via dalla ressa, le tue braccia lasciate andare verso terra, il tuo capo reclinato, la tua gamba sanguinante. Che terribile morsa è stata per il mio cuore, Goffredo! Mi chiedevo quale Repubblica avrebbe mai potuto restituirmi il mio uomo, quale vittoria avrebbe potuto sostituire la meraviglia di saperti al mio fianco negli anni a venire. Non ho mai potuto confessarlo a nessuno e sono tornata a Genova in lacrime, in silenzio, desiderosa soltanto di non essere riconosciuta dai tuoi, per arrivare a casa il prima possibile. Ti ho scritto parole di rimorso e condanna, di guarigioni e di rinascite – l’accenno di una lettera che ho recentemente bruciato, pur pentendomene ora amaramente.

Adesso, infatti, ho finalmente capito di essere stata un’ingrata e di non sapere come implorare il tuo perdono. Ti sei battuto per non so quanti vigliacchi, me compresa e sei rimasto in prima fila fino a quell’ultimo e diabolico sei luglio fino a quanto la cancrena, l’infezione e la morte, ti hanno sfigurato l’anima. Io avrei dovuto carezzare i tuoi graffi e la nostra lontananza, piuttosto che diventare contraria alle vostre ambizioni.
Avrei dovuto esultare e benedire Garibaldi, quando nel ’49 ha proclamato la Repubblica, anziché strappare il tricolore da tutte le finestre dell’isolato. Perdonami, amore mio, se non ti ho scritto neanche dopo quel tuo addio silenzioso alla patria, perdonami se mai ho osato visitare la tua lapide, fra i sentieri del cimitero. Sento che le mie gambe non reggerebbero, che troppo angosciosa sarebbe la solitudine, troppo agghiacciante la consapevolezza che mai più mi disegnerai addosso una carezza, Goffredo.

Mi chiederai, dunque, perché ti stia scrivendo proprio oggi, a distanza di anni, e perché abbia aspettato tanto per chiedere la tua clemenza.
Ebbene, mi sento così smaniosa e sorpresa da non essere quasi più in me, e sono certa che non troverò le parole per descriverti con quanto entusiasmo, con quanta impudica fierezza, io sia corsa fuori da casa mia stamane, amore mio…
Tutto il paese è in festa, perfino i bambini, perfino le vecchie signore che lavano in cortile – perfino io, così sola, riesco ad essere felice, a baciare quella bandiera dapprima tanto odiata, nel tentativo di ricordare il tuo nobile inno, il ritmo di una nazione che, proprio ieri, è stata proclamata Regno.
Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa… Lo senti anche tu, nell’aria, Goffredo? Lo ripetono tutti, ci sono i tamburi che vibrano dentro il petto, nelle piazze e nelle botteghe che oggi non hanno venduto lo straccio di un sacchetto, ma che sono aperte in segno di esultanza. Siete stati tu e Novaro ad insegnarci come gioire, a consentirci di levare un unico grido di vittoria – dov’è la vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò, lo senti anche tu, dall’altra parte della vita?
Sono stonati ma cantano, hanno la vittoria sulla pelle e si sono dimenticati delle malattie, dell’infelicità, della povera vita quotidiana, addirittura dei morti di ieri e dei dibattiti di domani… Roma è tutta in subbuglio, Goffredo, e ringrazia il Cielo del vostro coraggio come se non esistesse nient’altro su questo pianeta degno di essere benedetto!

Ti chiedo perdono in questo giorno, dunque, per non avere mai capito quale straordinario progetto tu stessi disegnando fra te e te. Ti chiedo perdono per non avere avuto fiducia nei vostri mezzi e nelle vostre parole di sprone, per aver aspettato così tanto prima di scriverti e per non essermi sforzata di leggerti negli occhi la certezza che, un giorno, noi tutti saremmo stati sul serio italiani. Soprattutto, poi, perdonami per non avere colto quanta passione ci fosse dentro di te quando sei stato ferito e per non esserti stata vicina nelle tue ultime settimane di sospiri…

Ho pregato con ogni muscolo del mio corpo perché tu ti salvassi, eppure solo stamani realizzo che proprio tu sei stato il primo a salvarti, fra tutti noialtri burattini in mano allo straniero: proprio tu hai mosso le acque perché si agitassero contro coloro che ci tenevano soggiogati, foss’anche solo con quella marcia, con questa musica, con tutto il delirio che ci pervade dalle Alpi a Quarto, dalla Sardegna alla Puglia, secondo per secondo, attraverso tutto lo Stivale.

Sento ormai che il Signore è dalla nostra parte. Si è seduto alla nostra mensa per brindare come un nostro pari e per vegliare sul nostro popolo. Niente potrà strapparci il coraggio di essere un tutt’uno con il suolo natio, ormai, e sento che uomini saggi e giusti governeranno per sempre sulle nostre teste, sento che nessuno mai deluderà il nostro nome, finché anch’egli sarà italiano. Sento che saremo i più colti, i più valorosi, i più onesti; sento che parleranno di te nei libri di Storia, fra non molto, e che la cattiva sorte non incomberà più sul nostro futuro.
Sento che presto torneremo a splendere e fiorire come ai tempi dell’antico impero di Augusto, Goffredo. Dicono che Roma sia già tornata solenne e fiera, con il suo Colosseo splendente sotto il sole, con milioni di giovani a correre per i suoi viali, mentre si dirada il presagio di un oltraggioso ritorno alla sottomissione austriaca, spagnola o francese.

D’ora in avanti, te lo giuro, tornerò a parlarti e a scriverti. Ho inteso che non ti sei mai allontanato realmente da me e che l’idea di non contattarci più è stata indispensabile per la riuscita dei vostri intenti. Ho inteso che anche tu devi avere sentito la mia mancanza, che non mi hai mai dimenticata e che, anzi, mi avrai sognata anche tu, in quelle fredde notti di tanti anni fa in durante le quali il tuo amore per gli individui era sovrastato dall’amore per la collettività.
Sono stata una sciocca a prendere coscienza della tua immortale fedeltà nei confronti miei e della nostra terra solo in questo 17 marzo 1861, quando l’incerto avvenire si è trasformato in un presente radioso. Ho commesso tanti sbagli e adesso lo sai anche tu, Goffredo, ma sappi anche che d’ora in avanti sulla tua tomba porterò rose e parole benevole, intrecciate alle bandiere di questa nuova nazione finalmente unita.

Da oggi in poi ti rallegrerai con noi per il dono che ci hai fatto, da oggi in poi renderò finalmente onore a colui che sopra ogni altro ho amato, a colui che oggi ama tutta Italia, a colui che per primo e ancora più del re ha onorato il Regno d’Italia con tutta la forza dei suoi più nobili sogni.
Da oggi in poi tornerò ad essere

 

Tua per sempre,

Geronima Ferretti


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