Nuvole senza contorni

Yambo era faccia in giù, le braccia oltre il collo, i palmi attaccati alla terra. Assorbito dalla sabbia e dal sale.
Dall’altra parte della città, Ester, seduta al tavolo di un bistrot arredato male, stava in silenzio. Aveva lasciato che l’aria entrasse fra le sue mammelle, che si incanalasse lungo il suo seno. Il tizio che le stava seduto di fronte si agitava, ogni tanto scendeva con gli occhi sul suo corpo, sui suoi morbidissimi contorni. Era sempre stata orgogliosa delle sue forme, il resto del suo corpo le piaceva in base alle stagioni.
La maggior parte della gente si allontanava dalla battigia per non incrociare il corpo di Yambo, che si era adagiato al suolo davanti all’ombrellone di Ginetto. Era lì in pieno giorno e sotto un sole caldo, sdraiato a terra, apparentemente senza respiro. I coraggiosi lo saltavano elegantemente mettendo in risalto tutta la loro grazia, l’armonia del movimento.
Il tizio continuava a sparlare, a sputare frasi fatte, citava i suoi intellettuali di riferimento: “mi sono fatto da solo”, “se solo avessi voluto, mia madre mi avrebbe raccomandato ovunque. Io, però, non ho voluto…”, “prenderò il posto di mio padre in macelleria, vedrai…e dopo…”. Diceva frasi a caso, interconnesse fra loro come la vita di un fiore a quella di un bollitore elettrico con la resistenza bruciata. Ester era felice, parlava bene con quel tizio. Avevano già cenato insieme un paio di volte nei mesi precedenti. Ad Ester le bastavano quelle chiacchiere. Lui faceva finta di essere gentile. Nessuna poesia recitata a memoria, nessuna frase romantica, lei era felice così. Con la semplicità che le adornava i pensieri passò la notte a casa del tizio, che dopo aver assolto al suo compito evacuò la cena, sputò nel lavandino e si addormentò sul divano.
Le urla dei bagnanti avevano lasciato posto alla notte e al silenzio, Yambo era ancora lì, bagnato dalla marea che si alzava, con la guancia destra che si impregnava sempre più degli odori del mare, che si raggrinziva come quella di un vecchio.
Ester si rivestì e, con la semplicità che custodiva gelosamente in borsa, ritornò a casa. Chiuse la porta alle sue spalle, si lavò per togliere l’odore del tizio dal suo collo e dai suoi piedi delicati e si addormentò semplicemente. Per fortuna non c’era nessuno accanto a lei a sbavarle il cuscino e a russare. Spense la lampada.
Yambo chiuse gli occhi mentre lo portavano in ospedale. Correvano i suoi ricordi mentre il suono dell’ambulanza si intrecciava indissolubilmente alla sua vita, al suo futuro. Nella confusione di quelle mani che cercavano di rianimarlo corse veloce indietro alla sua vita passata, alle colline arse dal sole della sua terra, corse indietro ai teneri baci di sua nonna materna, corse indietro alle notti passate con le sue due mogli, al calore di quei due corpi giovani, a come si sentiva protetto, al colore dell’ambra scura, alla carne profumata di eccitazione. Tornò a quelle quattro mani con le lunghe dita affusolate e fece finta che fossero proprio quelle mani che conoscevano il suo corpo e non quelle dell’anestesista e dell’infermiere che tentavano di rianimarlo disperatamente. Fece finta che fossero palmi delicati che gli accarezzavano il petto vigoroso e non le piastre metalliche del defibrillatore.
Fece finta di dormire mentre, in obitorio, lo chiusero in una cassa.
Fondatore de L’Irrequieto, nato nella valle del Sauro, in Lucania, il 28 giugno del 1986.
Ha pubblicato due silloge poetiche: La vita di una morte, LibroItaliano, Ragusa 2005 e Gl’oratori del nulla, Amorsog et Oream, Il filo, Roma 2007.
Scritti pubblicati su L’Irrequieto.
Donatello Cirone: donatellocirone@irrequieto.eu