Feuilleton Il francese inesistente – Parte prima
di Fabio Cardetta

“Macchie #5” di Nicola Lonzi
Il tuono provocato dal percuotere monotono e dal brulicare di migliaia di persone che sobbalzano in uno stadio: è un’esperienza a cui i tifosi sono abituati. Una massa omogenea che fracassa ritmicamente i propri timpani al suono dei cori e dell’esaltazione generale provocata dall’evento sportivo.
Lo stadio era pieno, come sempre, quando giocava lo Slovan.
Si giocava il derby: le curve brandivano fumogeni e l’aria era satura di tensione e sudore, mentre in campo le squadre si affrontavano a viso aperto.
Quel giorno sarebbe stato uguale agli altri, se non fosse stato per la sfida che due volte all’anno puntualmente si ripeteva fra chiasso, rabbia, frustrazione e spirito di gruppo nella curva a cui Srecko apparteneva. Perché Srecko apparteneva a quella curva, ci era cresciuto ed era diventato uomo con quella curva. Una ferita sul braccio dovuta ad una frustata di catena lo stava a testimoniare.
La sua testa rasata si conformava alle altre, i suoi tatuaggi erano diversi, ma nascosti dal giubbotto a vento.
Quel giorno Srecko si sentiva strano, o meglio così appariva agli altri.
Non era un tipo loquace, durante le partite semplicemente inveiva, cantava e alzava le mani al cielo. Il massimo degli scambi con gli altri era limitato a una battuta fugace su possibili scontri o qualche parola di stizza su qualche giocatore. Ma quel giorno non c’era stato nemmeno quello. Srecko non parlava, era pallido, più del normale.
“Stai male?” – gli fece uno dei Grizzlies, tra quelli più accaniti della Curva. Srecko rispose con gesto secco del mento. Poi con un sussurro rauco, fece:
“Non ho voce. Devo avere la febbre.”
L’altro lo guardò con un’aria interdetta, quasi preoccupata.
Poi gli dette una pacca sulla spalla e approvò:
“Sei tosto. Io sono come te. Sarei venuto pure in barella per questo match.”
Srecko sorrise, a modo suo.
Il compagno ultras tornò nella calca da dove era venuto. I cori continuavano e Srecko riprese a tifare, alzando le mani al cielo.
Nessuno ci fece caso al fatto che fosse solo.
Marek, il cognato, quasi un fratello di vita, di solito lo accompagnava a quegli eventi. Facevano coppia fissa i due, sia nel lavoro che nella vita. Ma Marek quel giorno era in vacanza a Piestany, dai parenti della moglie, e non sarebbe tornato prima di tre giorni.
La partita finì con un pareggio e senza scontri.
La folla si dileguò lentamente e lo stadio tornò a restare desolato, come un rudere antico pieno di rifiuti, come una lorda Necropoli.
Srecko sparì nella folla come era apparso. E nessuno si curò di lui.
D’altronde il tifoso apparteneva sì a quella Curva da tempo, ma molti della Curva non sapevano nemmeno della sua esistenza. Altri lo conoscevano solo di vista o semplicemente lo salutavano come membro del branco.
E lo era, Srecko, un membro del branco. Un componente importante, sì, ma non necessario, di quella fitta e roboante massa di gente che condivideva la stessa passione, lo stesso ideale, la stessa finalità mistica: il Tuono.
Quel rumore che li pervadeva ad ogni colpo di tamburo e che li estasiava come un ruggito. Quel rombo di tuono che dava senso alla loro vita.
Lo stesso tuono, di una cassa questa volta elettrica, era quello della musica house che scuoteva uno dei locali più frequentati di Bratislava. Era un fracasso ritmico, come la luce accecante proiettata in pista, in una tipica serata dove corpi di uomini e donne si fondono, si sfiorano e l’alcol inebria i cervelli stanchi. Cervelli che vogliono alienarsi dalla routine della settimana passata, cervelli che si dimenano in cerca di qualcuno per non passare la notte da soli, cervelli che vogliono solo dimenticare o semplicemente divertirsi.
Jules era uscito da solo quella sera, come gli era già capitato molte volte soprattutto nell’ultimo periodo. Girovagava per la pista, puntava una donna, le si avvicinava, una parola all’orecchio, alcuni ‘no’ e passava avanti facendosi una risata.
Era uscito da solo, anche quella sera. Non faceva altro che bere e fumare, andare in pista, tornare sul divanetto in veranda e ingurgitare quintali di fumo per poi proiettarli con stanchezza nell’aria.
Era ubriaco fradicio e non ci pensava nemmeno a cambiare locale. Semplicemente continuava a bere. Sapeva che ormai non poteva tornare a casa. Avrebbe aspettato l’alba per tornarci e per finalmente trovare il meritato riposo, in un letto che lo attendeva come una terra straniera.
Era cosciente di essere diventato un altro, non sapeva nemmeno perché fosse capitato tutto così velocemente. Ma non perdeva nemmeno tempo a farsi troppe domande. Il vortice di emozioni e di follia in cui era precipitato lo faceva sentire vivo, gli faceva sentire che ancora ne valeva la pena, ancora c’era qualcosa da fare.
Riuscì a malapena ad alzarsi per andare a pisciare.
Imboccò lo stretto corridoio che portava al bagno, tastando a tentoni il muro per non tracollare, ed entrò. La porta s’aprì, e Jules come un gatto si diresse verso il pisciatoio in fondo. Si calò leggermente i calzoni e quasi un orgasmo lo prese nel proiettar fuori i suoi liquidi alcolici.
E pensava a quello che non era più, a un lavoro di merda che avrebbe voluto lasciare, a quell’avventura che finalmente gli aveva dato un altro motivo per vivere, alle sensazioni che quella nuova vita gli aveva fatto provare. E si accorse in fondo di essere felice. Un giovane uomo che finalmente, forse, aveva trovato la strada che cercava e il senso a tutto quello che era venuto prima.
Jules sorrise a se stesso come solo gli ubriachi sanno fare.
Poi tornò alla realtà e si riabbottonò i pantaloni.
Fu allora che, girandosi distrattamente verso l’uscita, vide un uomo.
Un lampo, poi un tuono gli spaccò i timpani.
Jules cadde a terra, accasciandosi al muro.
E gli occhi si spalancarono verso l’uomo col braccio teso.
Solo dopo vide la pistola.
E la fissava… come si fissa un giocattolo.
Non si era ancora accorto di essere morto.
(continua sul prossimo numero)