Numero 32

Era solo amore

di Donatello Cirone

 

“Voglia di casa” di Antonella Restagno

Un grosso fiume di sospiri attraversava la stanza di Erminia, penetrava nei muri, nel materasso ricamato, si infiltrava tra le crepe, riempiva i cassetti metallici, si arrampicava lentamente sul soffitto umido, si nascondeva fra la credenza e la scrivania, proprio come faceva lei da bambina quando in tavola c’era la sogliola. Lunghissimi sospiri agitavano l’intero reparto, così profondi che sembrava provenissero da una gola stretta e profonda, come se tutti i venti del mondo salissero impetuosi da quell’unica fessura, lastricata di granito ruvido, disegnata da soprarilievi antichi. Mille gocce di ansia le perlavano il collo, il petto, il seno, si concentravano sull’areola, sui capezzoli appuntiti dal freddo e dalla paura, mille goccioline che formavano un laghetto dentro il suo ombelico. Il pube era asciutto, le grandi labbra adagiate secondo natura e le piccole divelte, le cosce strette, le caviglie e i polsi segnati dalle legature, le dita dei piedi una sull’altra. Il collo era rigido, i capelli lisci, gli occhi lucidi, le unghie spezzate come la sua speranza. La fronte brillava sotto la luce bianca. Le mani erano fredde, il cuore sezionato da uno specializzando boia.
La gravità doppia la spingeva verso il pavimento gelido, verso il basso, un basso fatto di mattoni chiodati. Acuminate spine le trafiggevano il corpo magro, segnato dalle cinghie e dalle mani pesanti, dalle urla, dai rimproveri, dalle sue lacrime che le corrodevano l’anima e il viso, senza ciglia ormai. I capelli, prima lisci e setosi, erano diventati negli anni fragili, si spezzavano come si spezzano adesso le vite d’Africa sul Mediterraneo. Rannicchiata in un angolo, aspettava che tornassero quelle mani callose a percuoterla come un sacco polveroso, aspettava le onde di dolore che si sarebbero formate sulla sua pelle bianca a ogni colpo e per ogni lacrima. Il cielo dentro la stanza dell’isolamento era gravido di pioggia, pregno di una disperazione mariana. Una leggera umidità calava sul letto di contenzione e ne bagnava il metallo freddo per farlo brillare sotto una luce tremante. Minuscole goccioline le entravano dentro: dal naso, dalle orecchie, dalla bocca e uscivano con violenza da tutti i pori della sua pelle, si facevano strada con la stessa forza di un gregge di pecore cieche inseguite da ululati notturni. Diventava sempre più piccola quella stanza mai costruita, le pareti si allontanavano per poi correre veloci contro la sua fronte, perdeva il contatto con la sua parte felice, la porta chiusa, la finestra murata, la luce assente, i pacchi vuoti.

Rachele si lamentava in un’altra stanza. Dove era suo figlio? E sua madre come aveva potuto dimenticarla?
Dimenticarla in quel parco che si apriva davanti ai suoi occhi, dietro quei vetri appannati dal suo stesso respiro. Si era innamorata, Rachele, e aveva ceduto al desiderio, la carne era colpevole. Il dolore prima, e poi un leggero piacere durato troppo poco, un fiotto a impregnarla di vita, e poi un ritardo e un ricovero coatto. Un primo unico meraviglioso vagito e poi il silenzio e un leggero tiepido contatto alle tempie, le cinghie e un manicomio arrivato come quel figlio, come l’amore. Tutto così velocemente e maledettamente inaspettato. Ma era stata la carne che aveva vinto e gli occhi celesti di Mario, il figlio del sindaco, che era scappato poi verso la città. Dottore doveva diventare. Rachele si era innamorata del nasone a patata di Mario, il nipote del questore, che era scappato a Bologna. Dottore doveva diventare. Rachele si era innamorata e l’amore, come diceva la madre di Mario, figlia del commissario, si paga sempre. Rachele si era innamorata e pagava dentro una stanza e mentre le suore sbucciavano le pere, Gino, infermiere e figlio illegittimo della badessa Lucia, legava Rachele un paio di volte alla settimana, la incaprettava come, a Pasqua, Camillo il pastore faceva con gli agnellini da vendere e le entrava dentro con la violenza di un cinghiale braccato, senza pietà, senza misericordia. Rachele piangeva perché aveva solo guardato le lunghe dita della mano destra di Mario, pronipote del Maresciallo, che poi era scappato.
Rachele si era innamorata e riposava trafitta sotto un albero, nella terra, tra i vermi, senza croci, senza misericordia, senza grazia. Gino aveva esagerato a stringerle il collo e adesso riposava sotto un albero, in una fossa nascosta. Riposava come una principessa abbandonata. Mario era lontano, Dottore era diventato. Rachele non urlava più.

Erminia contava e sperava. Stava zitta Erminia, anche lei aveva amato. Era finita fra quelle mura perché aveva baciato di nascosto e intensamente le labbra scure di Giulia.
Erminia contava e sperava che sarebbe ritornata ancora a ridere, che sarebbe ritornata sulla giostra in quel luna park che ricordava a mala pena. Stava zitta mentre Gino, senza pietà, sbrindellava il suo corpo debole. Stava zitta Erminia. Gli alberi proteggevano gli ultimi pezzi d’anima che le erano rimasti. Un enorme acero avrebbe custodito i suoi sogni fin quando sarebbe uscita, fin quando i muri sarebbero crollati, fin quando tutti, in cerchio, avrebbero recitato Pablo: “Da lì vedremo la verità spartita,/ la semplicità instaurata sulla terra,/ il pane e il vino per tutti.”[1]

Rachele in un’altra vita si sarebbe comunque innamorata.

 

 

 

 

 

 

Il racconto è nato alle tre di notte del 28 aprile al rientro dalla “Passeggiata nell’ex manicomio di San Salvi, C‘ERA UNA VOLTA… IL MANICOMIO” viaggio– affabulazione di e con Claudio Ascoli.

[1] “La Città” è una poesia scritta da Pablo Neruda nel 1951 e dedicata a Firenze.


Fondatore de L’Irrequieto, nato nella valle del Sauro, in Lucania, il 28 giugno del 1986.
Ha pubblicato due silloge poetiche: La vita di una morte, LibroItaliano, Ragusa 2005 e Gl’oratori del nulla, Amorsog et Oream, Il filo, Roma 2007.
Scritti pubblicati su L’Irrequieto.

Donatello Cirone: donatellocirone@irrequieto.eu


freccia sinistra freccia