Numero 31

Non gli era sfuggito nulla

di Riccardo Meozzi

 


“Spider’s web” di Domenico Giovanni Della Rocca

Quella mattina, come le due precedenti, il primo pensiero del ragazzo fu quello dell’acqua calda. Immaginava di allungarsi sotto il getto stirando i muscoli delle cosce e muoveva un piede per capire se avesse dovuto fare un salto all’indietro. Nella fantasia succedeva anche questo: il suo corpo nudo di uomo docile e longilineo accaldato dalle coperte rifiutava d’istinto il gelo della doccia.
Sul sito a cui era iscritto avvisavano che il rischio maggiore era quello di non avere acqua calda durante le prime ore del mattino, specialmente se l’appartamento era situato nel centro della città. Lì per lì non ci aveva badato, aveva scritto alla ragazza che offriva il posto letto e le aveva domandato quanto distasse da piazza San Venceslao. Two minutes on foot era stata la risposta, così non ci aveva più pensato e aveva prenotato il primo volo disponibile.
La ragazza si chiamava Pétra e lo aveva accolto all’ingresso del grande palazzo. Il posto letto era una poltrona dei tempi dell’Unione Sovietica. Gli aveva chiesto se andasse bene, lui aveva assentito e le aveva spiegato che per la maggior parte della giornata sarebbe stato fuori. Solo un paio di birre e qualche giro da turista.
Si stava comportando come un quindicenne in fuga dai genitori. Pétra, che aveva il viso di una donna senza immaginazione, non era interessata alla sua storia. Gli aveva chiesto i soldi in anticipo e si era messa a parlare del suo lavoro. Era un’operaia metalmeccanica che di denaro doveva guadagnarne così poco che alla vista del suo portafoglio pieno di contanti aveva deglutito. Dopo avergli spiegato gli accorgimenti da tenere e avergli dato una copia delle chiavi di casa era scappata giù dalle scale stringendo una borsa di cuoio.
Rimasto solo nella mansarda, il ragazzo aveva cominciato a vederci chiaro: il soffitto era sottile, le finestre piccole e la luce che vi filtrava poca. In cucina c’era a malapena lo stretto indispensabile. Niente lavastoviglie, solo una piccola lavatrice dall’aria vecchia e infetta. Dalla cucina si accedeva al bagno, la stanza più dignitosa: un piccolo gabinetto dalla copertura floreale, un lavandino bianco senza capelli nello scarico, una piccola doccia con le porte a scorrimento. Su tutto questo svettava una finestra che inquadrava una minuscola porzione di cielo. La cura vigorosa e perlacea con cui Pétra si era preoccupata di sistemare il bagno gli fece sorgere il desiderio di lavarsi da cima a fondo, di spazzolare le unghie, di togliere ogni pelo dal corpo.
Prima di lavarsi aveva sfatto la valigia. Aveva cercato le piccole lozioni che aveva comprato al duty-free dell’aeroporto. Pensava già all’acqua e alle goccioline rapprese ai peli del petto. Aveva aperto il rubinetto, allungato un piede e controllato che la temperatura fosse quella desiderata, poi aveva appoggiato le boccette vicino allo scarico ed era entrato con tutto il corpo.
Il sudore era scomparso, la stanchezza pure. Aveva tenuto gli occhi chiusi per il tempo necessario a operare la docile scomposizione di fatiche e affetti.
L’immagine di Pétra che puliva l’arredamento del bagno era giunta pian piano, come succede quando si guarda un film con poca attenzione. L’aveva immaginata togliere l’ultima macchia di sporco dal lavandino e poi spogliarsi di ogni vestito e ripiegarlo con cura, entrare in doccia e dedicare al corpo le stesse attenzioni che aveva dato agli oggetti inanimati.
Questi pensieri l’avevano fatto sentire ancora più sporco. Aveva ripreso a strusciarsi con più foga sotto le ascelle ed era tornato alla testa, alle orecchie, alla nuca. La temperatura dell’acqua era crollata proprio in quell’istante. Aveva urlato aprendo gli occhi verso il lembo di cielo puro e perfetto.
Il caldo se n’era andato all’improvviso, così come l’immagine di Pétra. Erano rimaste due cose: il suo corpo e la finestrella, legati da una violenta sensazione di distacco e diffidenza. I suoi occhi avevano cominciato a cercare un appiglio, un gradino più alto dove appoggiare il piede e continuare a muoversi.
Da quella prima doccia le cose erano andate peggiorando: l’acqua calda durava sempre meno e quella fredda invece si era fatta più ostinata. Aveva chiesto a Pétra se si potesse far qualcosa, ma lei si era dimostrata dispiaciuta e inflessibile. Se ce la faceva lei con i capelli lunghi allora poteva anche lui con i suoi quattro peli in testa, no?
Non le aveva fatto altre domande, l’aveva guardata salutarlo e poi andarsene al lavoro. Ogni giorno gli stessi movimenti.
Quella mattina, come la prima volta, l’acqua venne fredda e gli scappò un’altra imprecazione. La notte prima però aveva pregato senza chiedere, e la sua preghiera era stata un ringraziamento.

Pétra gli aveva lasciato la colazione.
Il ragazzo mosse qualche passo sospettoso attorno al tavolo, indeciso se addentare le gallette di riso con marmellata di prugne oppure no. Sembravano sottili dischetti di cemento bianco con una strana gelatina viola spalmata senza attenzione. L’improvviso ritorcersi delle viscere gli fece capire che avrebbero gradito altri tipi di cibo.
In cinque minuti fu pronto e scese le sette rampe di scale che lo separavano dalla strada. Nel tragitto si strinse nel doppiopetto e tastò le tasche assicurandosi di avere il portafoglio. Camminò per un po’ e decise di fermarsi a un vecchio bistrot sotto la Torre dell’Orologio. Si sedette senza nemmeno controllare i prezzi. La cameriera si avvicinò e tornò nei meandri del locale con l’ordine di un caffè espresso e un dolcetto ai frutti di bosco.
Avrebbe voluto essere a Praga per una vacanza con la moglie o con gli amici, un viaggio di lavoro al massimo, ma sapeva di trovarsi lì per prepararsi alla realtà. Assieme alla colazione arrivò anche il conto. Per primo bevve il caffè: lo mescolò e l’ingurgitò in due sorsi.
Passò al dolce senza troppa convinzione. Era una fetta di torta con panna, pan di Spagna e qualche mirtillo sparso qua e là. Strinse la forchetta e fece per prenderne un morso, poi la rimestò e mise in bocca soltanto un mirtillo ancora congelato.
Quello era il momento adatto per aprire la lettera che si era portato. Frugò nella tasca del cappotto e strinse la busta. Ordinò un altro caffè.
Era trascorsa più di una settimana, un cumulo di movimenti e tempi dei quali non possedeva ricordi. Con l’indice e il medio forzò l’angolo in alto a destra ma si fermò per contemplare il proprio nome scritto sopra. Era una bella calligrafia, piena di pieghe e cerchietti asimmetrici leggermente inclinati.
Si rimproverò e alla fine strappò l’angolo. Infilò l’indice e fece un lungo squarcio lungo tutto il lato superiore.
Dispiegò la lettera sulle ginocchia e la portò vicino agli occhi. In un primo istante riuscì a notare che la carta era stata ripiegata tre volte, che la penna usata era nera e che la calligrafia del contenuto era la stessa della busta. Tentò di concentrarsi, invano. Alzò il braccio e la cameriera si avvicinò. How much in euro? le fece notando il prezzo in corone. La donna alzò la fronte e senza rispondere alla domanda gli disse che in quel locale non venivano accettate valute straniere.
Sentendosi stritolare dall’imbarazzo insistette spiegandole che non aveva potuto cambiare i soldi e che l’euro era più conveniente della moneta nazionale. La cameriera alzò il tono di voce imprecando in uno strano miscuglio di inglese e ceco.
Un uomo grasso con un cappotto verde appoggiò una manciata di monete sul tavolo e disse alla cameriera di prenderli e di andare a farsi un giro.
Il ragazzo guardò l’uomo e si meravigliò che riuscisse a respirare. Gli strinse la mano composta da dita larghe come salami e si presentò. Si chiamava Guglielmo e sedeva al tavolo accanto con la moglie. Lo ringraziò e poi si abbandonò di nuovo sulla sedia.
Un mese prima avrebbe reagito all’invettiva della donna con altrettanta violenza, le avrebbe detto che le sue maledette corone doveva infilarsele su per il culo o qualcosa di simile. Ora era mortificato, sconfitto. Si mise a cercare la lettera e la trovò sotto il tavolo. Aspettò di essere lucido e poi si accinse a leggerla. Le connessioni tornarono al proprio posto, gli occhi distinsero le singole righe e le mani smisero di tremare.
La prima riga lo fece piangere. Non era un’esplosione, ma un taglio netto e preciso, dove la carne incisa manteneva i bordi vivi e intatti, i nervi fremevano di dolore e tutti i muscoli erano percorsi da spasmi che incitavano alla fuga. Pianse in silenzio e l’orologio batté le dieci, lo scalpitio delle scarpe si affievolì e la sedia smise di essere comoda. Arrivò all’ultima riga e ripiegò la lettera con cura, la mise in tasca e stette qualche altro secondo a fissarsi le gambe. Tutto ciò che componeva il mondo circostante smise di avere un legame.
Quello che aveva appena letto si stava disgregando, come non sapeva dirlo, eppure era talmente importante che non avrebbe dovuto essere così. Provò a riacciuffarlo, ripercorse con calma le parole che ricordava, le frasi e le onde delle lettere, ma tutto svaniva e veniva lavato via.
Rammentò a stento il giorno dopo il fatto, sua madre che lo avvicinava per dargli la lettera, la confusione e il senso di impotenza che erano seguiti.
Sentì la mano che aveva stretto poco prima posarsi sulla spalla e afferrarla come se potesse sfuggirgli. Una voce cominciò a parlare e lui non la stette a sentire.

 La presenza lo costrinse a voltarsi. La consistenza dell’aria non era cambiata, il mondo era rimasto dov’era.

– Va tutto bene?

L’uomo grasso parlava mangiandosi l’ultima lettera.

– Certo, non si preoccupi.

Guardò dritto di fronte a sé. Temeva di avere un contatto visivo con quell’uomo, di farsi scrutare da quegli occhi piccoli e furbi.

– No beh sa, stava piangendo. Mi sembra normale che uno si chieda cos’ha fatto.

Ogni quattro parole prendeva lunghi respiri; forse l’esercizio di esprimersi e preoccuparsi per qualcuno gli procurava una grande fatica. Decise di non voltarsi, avrebbe mantenuto l’aspetto timido di chi si vergogna a piangere in pubblico. L’uomo grasso a quel punto avrebbe dovuto capire e tornare alla sua giornata.

– A me mica inganna, sa? Guardi che per noi italiani guardarsi negli occhi va benissimo. Non siamo frigidi come questi qua del nord, tutti preoccupati a fissarsi la punta delle scarpe. Che è successo?

Tenne duro qualche altro istante e poi girò la sedia verso l’uomo. L’espressione del viso era completamente diversa da come se l’era immaginata. Si trattava di una faccia tonda che si appoggiava su un collo largo e gonfio. Tutto era proporzionato. Gli occhi neri erano due palle tonde, il naso una cartaccia appallottolata, la bocca enorme adatta a mangiare qualsiasi cosa. Teneva i lunghi capelli grigiastri all’indietro, appuntati dietro le orecchie.

– La ringrazio per avermi pagato il conto, le ridò i soldi in euro se vuole.

L’altro sbuffò come se fosse una balena.

– Senti – disse rinvigorito – Smettila di darmi del lei e comincia a chiamarmi per nome, tanto già lo sai. Io invece non ricordo come ti chiami.

Fu costretto a presentarsi. Mise mano al portafoglio ma Guglielmo lo bloccò e prese una sigaretta. Aveva un modo grottesco e antiquato di muoversi, costruito con cura.

– Fumi? – tenne la sigaretta sospesa. Sembrava minuscola a confronto con le dita.
– No, ho smesso. Comunque grazie mille.

L’osservò armeggiare con la scatola di fiammiferi. Prese fra le dita uno di quei sottili bastoncini di legno, lo sfregò sulla striscia abrasiva e lo ruppe.

– Cazzo – sibilò a denti stretti – Mia moglie si ostina a comprarli anche se sa benissimo che con le dita che mi ritrovo non faccio altro che romperli. Ti spiace?

Il ragazzo ebbe un moto di repulsione. Guglielmo gli passò la scatola e lui la prese dal suo palmo. Era morbido e sudato.
Lo schiocco del fiammifero e l’odore dello zolfo bruciato lo fecero avvicinare come una falena alla luce. Si trovò le sue labbra a qualche centimetro dalle dita, lo vide aspirare e subito dopo gettare fuori la prima boccata.

– Sei in vacanza? – proseguì Guglielmo.
– Più o meno. Sì.

Ebbe la percezione che quell’uomo sarebbe andato avanti con la conversazione fin quando non avesse saputo tutto quello che voleva. Stava cercando di inghiottirlo nel suo mondo, nella sua giornata, e per quanto gli facesse resistenza sapeva di non potersi sottrarre.

– Come posso sdebitarmi? – gli chiese.
– Intanto smetti di darmi del lei, te l’ho già detto – si fece pensieroso – Ci farebbe piacere passare un po’ di tempo in compagnia. Due vecchi come me e mia moglie hanno sempre bisogno di qualcuno per non sentirsi soli.

In un piccolo settore del panorama apparve una donna. Era completamente diversa dal marito, aveva un corpo basso e magro che stringeva nel cappotto. Teneva gli occhi chiari fissi sul tavolo. La donna biascicò un ciao.

– Lei non è italiana – bisbigliò Guglielmo – È nata a Praga. È più giovane di me.

Rise a labbra strette fissandola. Aveva un aspetto dismesso, poco curato. Gli occhi grigi erano tempestati da tanti piccoli solchi sulla pelle bianca che li circondava. Lei non ricambiò lo sguardo ma sorrise.

– Vogliamo andare a fare una passeggiata? Che dici?

Assentì e Guglielmo parlò alla moglie. Lei sembrò protestare, ma alla fine si alzò con dignità e si districò fra i tavolini. La seguirono.

Gli parve che non stessero proseguendo verso un luogo specifico, sembrava piuttosto un lieve gironzolare fra le vie del centro, un procedere lento e indifferente ai ritmi urbani. Guglielmo gli parlava veloce in un orecchio.

– Io ero un ingegnere edile a Padova, lavoravo e facevo una valanga di quattrini che mia moglie e mio figlio ingurgitavano a bocca larga. Io cacavo i soldi e loro li spendevano. Non ci trovavo niente da ridire se stavamo bene e ci potevamo comprare l’auto nuova o la casa al mare, ma poi nel Novanta mi dissero di fare un viaggio e prendere un paio d’appalti nell’Est Europa. Sai no, era appena caduto il muro e tutti correvano di qua e di là come formiche.

Ogni tanto si interrompeva per le troppe risate e si passava un fazzoletto di seta sotto le palpebre cadenti e rilassate. Lasciava che la moglie si immergesse nella folla fino al punto in cui poteva essersi persa.

– Venni qua con un paio di amici e ci mettemmo a fare il nostro lavoro. Fra una cosa e un’altra chiesi alla mia ex di smontare la baracca e trasferirsi. Abbiamo divorziato. Sai che? A me non me n’è mai fregato niente.

A quel punto anche lui dovette dire qualcosa per far sì che l’uomo si sentisse appagato dal racconto.

– E ora che fai?

L’altro si sfregò le mani grasse e si accese una sigaretta. Erano arrivati fino alla banchina della Moldava. Là il fiume nero generava un vento più freddo che altrove. Guardò lo scorrere dei flutti e si chiese se qualcuno vi ci fosse mai tuffato.

– Dieci anni fa ho smesso di lavorare e ho investito parte dei soldi in un bel negozio di antiquariato. Non avrò più di cinquanta clienti, è vero, però acquistano tutta roba di valore.

Non riusciva a provare un briciolo di simpatia per Guglielmo, eppure non poteva fare a meno di essere gentile, di far parte della sua vita attraverso quel racconto.

– Tu perché piangevi? – gli chiese.
– Una lettera.

Cercò di rispondere debolmente, di lasciare dietro sé una traccia abbastanza insipida da frenare qualsiasi istinto indagatore. L’uomo invece si gettò sull’ultima frase come se si trattasse di un enorme piatto succulento: gonfiò il viso in un sorriso di soddisfazione e fece schioccare la lingua.

– Una donna? Magari una che fugge, una che se n’è andata. Vero?
– No.

Guglielmo disse altre cose senza importanza. Lo inondò di parole ma nessuna di queste lo toccò. Le sillabe rimasero attaccate all’aria, al vociare della gente. Alcune affondarono nel fiume nero. La realtà si disgregò e il ragazzo accolse quella sensazione con calore. Era divenuto un processo naturale, come lo era respirare o bere caffè. C’era qualcosa di dignitoso in quella fuga.
Stavolta però qualcosa che non funzionò. Per quanto si sforzasse di abbandonare la realtà la figura di Guglielmo restava imprigionata a terra senza scomparire. Tutto rimase fermo e lucido, ben definito.

– Non sono affari suoi – lo accusò – Che gliene frega a lei?

Si incamminò nella direzione opposta. Di striscio vide il volto della moglie di Guglielmo fissarlo senza battere ciglio. Corse fin quando non realizzò di essersi perso. Gli ci volle qualche minuto prima di ritrovare il palazzo. Girò la chiave nel portone e pensò soltanto a camminare, ad ascoltare le gambe cedere sotto il peso della gravità. Era tutto ciò che considerava reale.

Non era mai rientrato così presto. Aveva sempre pranzato fuori ignorando gli orari di Pétra e le sue abitudini. Togliendosi il cappotto si accorse che un lieve velo di sudore gli imperlava lo spazio tra il collo e le scapole. Il tessuto della camicia non era bagnato né emanava odori sgradevoli, ma quella sensazione gli penetrò in testa. Erano passate due ore e mezzo da quando era uscito. Non aveva fatto nulla tranne camminare e sedere al tavolo di un bar; non aveva visitato musei, non aveva girovagato. Era stato fermo al suo posto.
Si sbottonò la camicia e l’appoggiò sul divano. A torso nudo si rese conto che il sudore era sbucato anche da altre parti: sotto le ascelle, sulla parte finale della schiena. Poteva essere febbre, certo, era più che plausibile. Si avvicinò al borsone e dalla tasca interna prese un’aspirina. L’ingollò a stenti, la sentì forzare l’epiglottide e venire spinta a forza giù per l’esofago. Senza pensarci una volta di più si spogliò. Entrando in bagno richiuse la porta a chiave.
L’acqua era fredda, una liscia colonna trasparente nella quale non riuscì a riflettersi. Stavolta il corpo non la rifiutò. L’attimo più difficile fu quando il gelo arrivò alla punta dei piedi, li avvolse e poi si assestò in basso, nel punto tra il pavimento e la cute. Le sue mani accolsero il bagnoschiuma e lo passarono ovunque: sfregarono, cercarono il punto d’origine e insistettero, strinsero la carne dov’era in eccesso, la martoriano e provarono a cancellare la macchia di sudore, la sozzura della sua agitazione.
Era colpa delle parole di Guglielmo, delle sue grasse mani che gli avevano indicato la realtà e l’avevano puntata come se fosse un’oasi felice. Iniziò a opporsi a quei pensieri creandone altri che potessero fermare il flusso di sudore che si mescolava all’acqua.
Tornò l’immagine di Pétra che si sfiorava il corpo nudo per bagnarsi i capelli e i peli del pube, per grattar via ogni traccia di contaminazione, il suo volto sereno, le labbra rilassate, le gambe flesse, lo sguardo indagatore, gli occhi pronti a riconoscere ciò che avrebbe disturbato la quiete.
Si sentì uno scoppiettio e il boiler entrò in funzione. L’acqua si scaldò e lui se ne accorse in ritardo. Aprì gli occhi e le sue pupille intirizzite accolsero la luce della finestra. C’era il cielo e c’era il suo corpo. Fu in quel momento che udì la porta aprirsi, il rumore di passi lenti ma precisi, una voce che diceva Hello. Chiuse l’acqua. Stavolta non gli era sfuggito nulla.


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