Slow show
di Giampaolo Giudice

“I’ll overdo it”
Rumore di onde che arrivano da lontano. Passi su un tappeto di sassi e scarpe che calpestano i giorni come roba vecchia. Roba vecchia di nessun valore sotto un sole sopraffatto dalle nuvole.
Il solito marzo con il suo mantello del colore logoro di un inverno agonizzante. Rami e foglie danzano nel vento e ci sono anche occhi.
Occhi così presi dal contorno da dimenticarsi il soggetto della foto.
Chi era? Dove eravamo? Chi eravamo appena un anno fa?
Magari riuscire a ricordarlo. Magari riuscire a ricordare.
Fra le parole di un antico me stesso e quelle di una donna oggi sconosciuta passavano le ore. Concentrarsi sulla strada, questo sì. Questo serve, oggi. La strada. Non già il paesaggio.
Resta un cuore liso e consunto. Qualcosa di cui sentir quasi vergogna. Come se ci fosse qualcosa di cui vergognarsi in questo. Righe fitte. Il mondo reale di una interiorità massacrata dal giudizio affilato di coloro ai quali è affidata la scala su cui misurare il proprio valore.
E rimane solo la notte. La notte del sonno interrotto da sogni cattivi; quelli che rubano le parole e ti mettono a sedere sul bordo del letto a respirare il buio con affanno.
Quanto è saggio il buio. Si prende cura dei dolori, anche di quelli che vivono una sola notte. Anche di quelli che spezzano ogni appiglio alle proprie bugie in cui avvolgere il proprio cuore di bestia.
Vallo a capire di cosa si tratti. Ho difficoltĂ a capire. Non sono lucido, non lo sono quasi mai. Sono lucido quando sono da solo. Vorrei stare da solo ma non ho il coraggio di dirlo ad alta voce.
Anno dopo anno a commettere gli stessi errori, sempre ammesso che lo siano. Che ci sono sempre almeno due modi di guardare a quel che accade.
“you know I dreamed about you, for 29 years”
Io la volevo. La volevo con me. Volevo che mi volesse a sua volta, ma questo non accadde, non a lungo come speravo. Solo un paio di volte sembrò così. Quella della foto, ad esempio. La foto che le feci mentre sedevamo al bar. Fuori era buio, tornavamo da una giornata al mare. Erano i primi caldi della stagione, ma la sera era ancora da giacca. Come da buona tradizione delle stagioni di mezzo con i loro freddi notturni. E la sera che ci baciammo. Dio che freddo la sera del nostro primo bacio. Inaspettato; dopo una lunga chiacchierata seduti sempre più vicini su una gelida panchina di marmo nel quartiere dove abitava. Mi regalò la sua sciarpa, ed io le donai la mia. Per poterci respirare ancora un po’ l’un l’altra per la notte che avremmo trascorso separati. Che sciocchezza, a ripensarci ora. Ma che bellezza limpida e vibrante a viverla da dentro in quel momento. Essere innamorati dopo tanto tempo. Che possiamo giocare ad essere cinici quanto ci pare ma quella sensazione è il motivo per cui continuiamo a credere alle farfalle nello stomaco. Drogati di quella malattia che è l’innamoramento. Stati alterati dell’essere. Dovrei averla ancora da qualche parte la sua sciarpa. Ancora oggi. Chissà se lei ha ancora la mia in qualche cassetto. Che sciocca curiosità la mia, sperare di restare. Stupida presunzione di importanza. Sperare di restare. Fosse anche solo in un ricordo, in una macchia di luce alla domenica mattina. Perché non mi piace pensare di essere finito a rubare spazio alle bollette al buio di un cassetto, sempre che abbia avuto questa fortuna. Che stranezza è questa: non riusciamo a mettere via pezzi di persone che ignorano la loro importanza nei nostri giorni, mentre loro a malapena ricordano il nostro nome. E di più, di noi, in loro non resta.
Un nome fatto di nebbia e nulla piĂą.
Chissà se mi crederebbe se le dicessi che il suo profumo sa ancora di felicità . Che i suoi spettri si aggirano ancora per le strade ed ho l’impressione come di vederla di sfuggita, ma quando mi concentro non c’è, non la vedo più. Vallo a spiegare al cuore che il cervello si è sbagliato.
“way out of sync from the beginning ”
Ho lasciato in bianco l’ultima pagina di quello che era diventato il suo quaderno. Non sono riuscito a chiuderla via, ad infilare tutto in una scatola per dimenticare un po’ più in fretta. Chissà dove stavo guardando mentre crescevano quelle pareti fra di noi.
Non è che debba succedere chissà quale evento straordinario per renderti quello che sei. E’ lo stesso principio con cui si formano le montagne; che mica sono dei sassi giganti, un blocco unico. Sono fatte di innumerevoli pietre, ciottoli, polvere, alberi, ossa e resti di animali. Sì, anche ossa e animali morti, che i morti sono fatti di terra o almeno lo diventerebbero di nuovo se li si lasciasse fare. Per il pianeta siamo tutti riciclabili. Ecco. Allo stesso modo siamo fatti noi. Un grosso accumulo di tutti i pezzi, di tutti gli innumerevoli frammenti di quello che abbiamo vissuto e visto, sentito o provato. Potrebbe dirsi, in qualche modo, che siamo fatti con gli scarti, con gli avanzi del passato. Una vecchia carezza, gli scogli in quel parcheggio sul mare, la collina che sembrava così grande da piccoli, quell’aeroporto affollato dove sibilavano aerei e saluti densi, il fondo della bottiglia, quella foto nel portafogli e la banconota di un paese lontano con cui pagare i ricordi. E ancora: tutte le frasi che iniziano con “se solamente”, ogni alba spremuta, l’odore di nostra madre. Tutta roba che sedimenta dentro di noi. Tutta roba che diventa il pavimento su cui muove i passi la nostra anima.