La generazione perduta
di Giampaolo Giudice

ma | re #20 di Roberto Pireddu¹
Non è stato un momento. Non c’è stato uno strappo. La fede nel “futuro” è stata consumata, erosa, raschiata via pian piano già con le prime pubblicità nelle reti private. È iniziato lentamente, tanto che non se ne è accorto nessuno. Non ce ne siamo accorti noi -allora bambini- e non se ne sono accorti i nostri genitori –troppo impegnati realizzarsi e guadagnare per noi… e per loro stessi-. Cominciò con la tv in cucina. Cominciò tutto con quell’affaccio serale sul respiro del Mondo, con l’arrivo nelle case di quella vespertina luce blu dell’ottimismo e del calore, a lumeggiare le finestre nella notte cittadina. Arrivò il mondo a colori delle partite di calcio, del varietà e le notizie dal fronte brillarono finalmente di prezioso rosso. Ricordo uomini, una notte di novembre, saltare e danzare sulle macerie. Ricordo che i miei occhi di bambino esitarono sui colori accesi di quei sassi e sui picconi, abbracciati come fossero vivi. Ricordo che non capivo, pur condividendo l’entusiasmo. A mano a mano siamo stati persuasi che il futuro in arrivo sarebbe appartenuto alle nostre giovani mani, che presto sarebbe dipeso solo da noi -i piccoli-, che avremmo finalmente potuto farne l’opera d’Arte non riuscita a “Loro” -i grandi- e che la stavano preparando per il “Nostro” bene. Oggi ho trentadue anni e mi dicono che quel futuro è ancora in costruzione ma che presto sarà pronto per me. Oggi i miei trentadue anni vedono che quel “Futuro” di cui mi si narrava da bambino è arrivato; solamente un poco differente da quella splendente favola raccontata ad un ragazzino agitato. Oggi ho trentadue anni, quel tempo mitizzato è qui. Ho visto la tecnologia crescere a dismisura, coprire distanze ritenute impensabili, camminare sui fondali e congelare fra le stelle; eppure ho visto anche l’uomo dimenticare, abbassando lo sguardo sempre di più; perdendo di vista l’avvenire, sempre più; fino a vedere solo il presente. Ho visto l’uomo iniziare a temere il tempo ormai nemico, ormai spettro da tenere a bada. L’ho visto spaventato da scadenze e date, l’ho visto dedicare la propria vita al demone della Fretta dimenticando la pazienza; non ricordando che il Tempo è sempre poco se vissuto con frenesia. Il Futuro tanto venerato ieri, oggi è fra noi; e sono ancora gli stessi che lo invocavano allora a parlarne adesso come se non fosse mai giunto, come se dovesse arrivare e per nulla intenzionati a mantenere la promessa di lasciarlo: perché solo “ora” e “ieri” sono certi per un uomo che invecchia. Così il tempo che sarebbe dovuto essere “Nostro” giace fra gli avanzi dei fast food, negli incarti delle merendine, nella benzina verde, nei centri commerciali, nei social network che fanno di una vita mediocre un’avventura da provare. Giace fra notizie di guerre distanti che non sanno di Guerra perché la pace ritorna cambiando canale. Ho visto la speranza di cambiare qualcosa, di lasciare un segno, spegnersi lentamente negli occhi dei genitori, cedendo posto ad uno scellerato quanto naturale istinto di conservazione. È per paura, è forse per sedare la loro paura di non riuscire a farcela, forse per esasperato egoismo o forse per la consapevolezza di non essere stati capaci di costruirlo davvero quel Futuro che avrebbero dovuto, un giorno, lasciarci dopo averlo promesso. I nostri nonni ci raccontavano della guerra, di quel terrificante mostro che si nutre di uomini e ideali. I nostri genitori ci parlavano di come si siano impegnati a cambiare il mondo durante quell’onirico “1968”, sfumato pochi anni dopo nei colori del cieco terrorismo per mano di coetanei che lasciarono le aste delle bandiere in favore di mezzi più convincenti. Per la mia generazione, invece, la guerra è poco più che un vecchio filmato in bianco e nero, un simpatico sparatutto da giocarsi in connessione con altri ragazzi: la nostra guerra si nutre di BIT; quel mitizzato “autunno caldo”, di cui si narra con toni epici a tavola, mentre si confrontano le azioni compiute da giovani fatti vecchi e vecchi ritornati giovani, nella realtà non vive che di un paio di pagine in libri sfogliati da mani svogliate durante le lezioni. Faccio parte di una generazione di mezzo: fratelli minori di Yuppies e Paninari, figli di ribelli da primo mondo, nipoti di reduci annoiati. Pericolosamente in bilico fra le parole educate del buonismo imperante che ci vuole tutti uguali, sociali e civili; e la dissennata corsa verso lo spettro del successo, del potere, del denaro (se mai vi sia distinzione fra questi ultimi due). Una generazione di fantasmi emotivi, che si affidano alla corrente della vita senza puntare i piedi: studio, laurea, lavoro (i più fortunati). Solamente per essere ascoltati, solamente per fare soldi, per essere considerati “qualcuno”. Questa generazione alla deriva: dimenticati, disillusi e già sconfitti… è la mia. Ora chiedeteci perdono. Chiedeteci perdono per ciò che siamo. Chiedeteci perdono e perdonateci per la Rivoluzione che non faremo.
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¹ “ma | re” è una serie fotografica dedicata al Poetto, la spiaggia cittadina di Cagliari, passata da essere il fiore all’occhiello della città a un vergogna per i cagliaritani. Nell’attesa che il piano di recupero del Comune prenda fine, Roberto Pireddu ha deciso di raccontare la storia del Poetto con i suoi scatti in bianco e nero.