Di spade e di cavalieri
di Giampaolo Giudice

La storia che segue non racconta la solita sequenza di eventi.
La storia che segue non ha una morale, né un finale a effetto.
La storia che segue è sconnessa e terribilmente concisa, perché è così che è stata tramandata.
La storia che vi racconterò parla di una principessa, di un principe e di un cavaliere.
Lei era la figlia dell’illustrissimo re di Altroquando, nobili origini e nobile futuro erano già nella sua vita.
Promessa, almeno sulla carta, all’erede al trono del regno non lontano conosciuto con il nome di Aimacaighé. Un luogo prospero e ospitale, i cui abitanti sono sempre sorridenti e disponibili. Ma in cui è tutto già scritto, sicuro e previsto.
Le prossime righe non verranno riempite del perché e di quanto fosse bella ed ammirata la principessa.
Quel che basta sapere di lei, e ciò che più importava era la semplice innocenza di cui era intrisa.
Conservava in maniera invidiabile quell’innocenza curiosa tanto amabilmente diffusa fra i bambini quanto tristemente rara nei grandi.
Di lui, cavaliere errante (sì, la storia ignora il principe perché non direttamente coinvolto), sappiamo poco e solamente la versione di chi lo ha conosciuto nelle taverne e nelle locande del regno di Magicamente.
Si narra di imprese scellerate, coraggio al limite dell’incoscienza, avventure e viaggi intorno e dentro al mondo, viaggi di cui porta i segni sul corpo come gradi su di un’uniforme, e donne di cui non rimane altro che un viso velato dalla nebbia dei ricordi.
Di questa nebbia erano impregnate la sua vita e le sue azioni.
Di nebbia, stavolta umidità restituita dal suolo e nuvole basse che macchiavano il cielo d’acqua, era impregnato quel pomeriggio in cui il cielo rumoreggiava impaziente in attesa di vestire di gocce la terra.
Il cavaliere era seduto sui ciottoli di fianco al suo cavallo, sulla sponda del fiume a contare e ripulire i pensieri nella corrente.
D’improvviso, come suo costume, il tuono lacerò il silenzio e il grigio del cielo, disarcionandolo dal suo pensare.
Pioggia, ora.
Frequente in quel periodo dell’anno, in cui gli alberi si fanno rossi in attesa della prima neve.
Così il paladino si alzò e si incamminò, senza salire in sella, attraverso i campi al maggese, inoltrandosi nel bosco delle fate.
Dove abitava, e dove, come si diceva, tutto potesse accadere solo credendoci.
Raggiunta la casa ai confini della radura e sistemato il destriero, si sdraiò sul suo giaciglio, e riprese i pensieri da dove li aveva lasciati. Lì, fra una sbronza e una non meglio conosciuta donna di sogno che, come tale, non ebbe mai incontrata.
Tuono,
Ancora.
Seguito dallo schiocco di un fulmine.
Grida, una rarità.
Umane, rare ancor di più in quei luoghi.
E chiedevano aiuto con la forza di una vita cui non resta altra risorsa che non sia urlare.
Il cavaliere si alzò di scatto e corse verso la voce senza dar più seguito a nessun genere di pensiero.
Come se non avesse fatto altro fino ad allora.
Come se sapesse già dove andare.
Come se sapesse già cosa fare.
Il fulmine, spontanea manifestazione della natura, aveva colpito un albero.
Nulla di straordinario, se non fosse che l’albero, cadendo, aveva colpito la carrozza in cui viaggiava la principessa mentre stava andando a trovare il futuro sposo, meglio, a conoscerlo (ma questa è tutta un’altra storia).
Nel percorso verso il molle fondo del bosco, l’albero aveva incontrato e tranciato il giogo del cavallo.
L’equino, atterrito e libero, aveva accelerato con il passo della fuga. Trascinando con sé lo sciagurato cocchiere, che il destino, maestro d’ ironia fantasiosa, aveva reso schiavo delle redini con curiosi fiocchi ai polsi. Lo strumento del comando divenne ostile al despota direzionale, ora rimorchiato dall’ungulato attraverso il fango fra puerili lamenti.
Ma mi sto perdendo in particolari superflui.
La principessa iniziava a temere per la sua vita.
Gli alberi, si sa, sono usi infiammarsi se ben consigliati dalle folgori e la carrozza bella e adorna di tende e intarsi, ma pur sempre di legno, si adattò alla situazione ricordandosi di esser stata albero a sua volta.
La combustione fu spontanea e violenta, sgarbatamente dimentica del regale passeggero.
Il cavaliere non esitò.
Con precisi colpi di spada rimosse il grosso del legno acceso e si fece strada fino alla porta da cui tirò fuori la principessa.
Quando ella riprese i sensi, era supina sul giaciglio di quella casetta nel bosco delle fate, dove tutto può accadere.
La pioggia era cessata, così come il pericolo.
L’odore di bruciato era divenuto profumo di castagne e terra umida.
Aprì gli occhi senza alzarsi e, girata di poco la testa, vide il suo salvatore di spalle, seduto ad affilare la spada con la pietra.
Sembrava indifferente, nonostante tutto, indifferente.
Ma lei non immaginava quanto fosse diventato esperto, lui, nel mostrarsi in quel modo.
Nemici, e ferite, e viaggi e donne erano state una grande scuola senza appelli o seconde possibilità.
La vita, quando addestra, non permette domande.
Affilava la spada perché, in quel momento, una forza misteriosa tiranneggiava i pensieri. Non poteva più lavarli in alcun fiume, né pettinarli. Non ne era più padrone.
Ormai l’aveva guardata dormire.
Mai era accaduto prima.
Restare lì, senza dir nulla.
E guardarla dormire.
A contarle i respiri, quante volte, e con quale intensità assorbiva la vita dall’aria, la stessa sua.
Poteva quasi vedere i sogni che la mente proiettava sul retro delle palpebre serrate alla luce del pomeriggio.
Stava respirando la sua stessa vita. Questo, agli occhi del cavaliere, aveva del miracoloso.
Lei, al contempo, non era totalmente incosciente nel momento in cui, di due, ne fu fatto uno.
Vegetava in un sonno velato, leggero, di quelli in cui si incidono i sogni nel ricordo.
In cui l’essersi scambiati la vita respirata li aveva resi parte del medesimo universo.
In cui poterono sentirsi così vicini da confondersi l’uno nell’altra.
In cui “loro” erano divenuti “noi”.
È stato un momento.
Ma ad alcuni momenti è stato donato il potere di fermare il tempo e di ricacciarlo indietro, imprigionarlo oltre le lancette, oltre il vetro, oltre la corsa senza senso del rozzo strumento che si usa per contarlo.
E quel momento diventa eternità.
A questo punto vi starete chiedendo perché non vado avanti, perché non mi sia avviato alla narrazione del finale del racconto e la fine di questa storia.
Corretto.
Ma ha davvero tutta questa importanza sapere?
Oppure ciò che conta è stato solo quell’istante.
Quell’unico e meraviglioso istante del peso di tutta una vita insieme.
Quando furono capaci, insieme, di fare in modo che il tempo si fermasse, solo per loro. E con occhi chiusi si sono respirati e scambiati l’eterno.
Umani, mortali divenuti infiniti in un abbraccio.
Lì.
Nel bosco delle fate.
Dove tutto può accadere solo credendoci.