Il colore dell’effimero
di Donatello Cirone

“La sposa” di Andrea Bondini
Si era aperto in volo come un grande aquilone bianco portato in aria da un filo invisibile, condotto dalla mano di un bimbo amato, ancora non nato. Schivava i rami senza sfiorare nemmeno le foglie con la punta delle sue lunghe penne bianche. Sulla strada che costeggiava il fiume, con il naso all’insù, Bea ammirava quella meravigliosa creatura in silenzio. Respirava lentamente. Il freddo che scendeva dalla montagna le premeva il viso, le faceva lacrimare gli occhi, inturgidiva i suoi capezzoli delicati, le arrossava il nasino. Fra gli alberi, a intermittenza, intravedeva quel magnifico airone bianco che con leggerezza invadeva la valle e quel bosco di bellezza, con la sua polvere magica cospargeva ogni foglia, ogni ramo, ogni tronco, ogni altra creatura di passaggio e anche gli occhi di Bea che incantata fissava il cielo. Accanto a lei, a pochi metri dal suo piede, un passero non solitario cinguettava, sbatteva le ali, saltellava per attirare solo la sua attenzione, per beccare come aveva fatto nei giorni precedenti dalle sue mani una mollichina di pane.
Poi, proprio come era comparso, il magnifico airone bianco scomparve dietro la montagna, Bea non si accorse del passero e passò oltre. A casa parlò un po’ con nonna Lara, giocò a ramino con nonno Smeraldo, poi guardò un film, studiò il manuale per il suo ultimo esame, lesse, si truccò per struccarsi subito dopo, pianse, rise, si rimproverò per non aver baciato, vent’anni prima, in seconda elementare il suo compagno di banco del quale era stata segretamente innamorata dal primo anno di asilo. Litigò con mamma Nunzia, prese tre baci da papà Mauro, poi andò a letto. Un infinito elenco di cose fatte con la mente persa nel sogno, rivolta al tocco di magia che poche ore prima aveva vissuto con quello splendido airone bianco, un elenco di cose fatte che forse avrebbero solo colmato il vuoto fra l’incontro della mattina, e si augurava, quello dell’indomani. Si sdraiò sul letto stanca, si addormentò sperando di sognarlo e librarsi in aria con lui.
La sveglia quella mattina non suonò, al suo orario Bea era già in piedi, pronta. Aveva fatto colazione, aveva superato la stitichezza – quella mattina si era liberata da un peso che gravava sul suo pancino da almeno tre giorni, in particolare la seconda porzione di lasagna che aveva mangiato per gola un paio di giorni prima – una doccia calda ed era pronta per rivivere la magia del giorno prima. Voleva ancora che la polvere benedetta del giorno prima le cospargesse il corpo giovane. Scese le scale di casa velocemente, percorse il viottolo che la portava al fiume e iniziò lentamente a costeggiarlo. Minuscole goccioline di rugiada, delicatamente poggiata sull’erba, venivano assorbite dai suoi calzini di spugna, le avrebbero solleticato di lì a poco le caviglie calde. Camminava lentamente. Il freddo che scendeva dalla montagna le premeva il viso, le faceva lacrimare gli occhi, inturgidiva i suoi capezzoli delicati, le arrossava il nasino, poi d’un tratto dall’interno del bosco un rumore sordo e la visione celestiale, ancora lui. Si stagliava nel cielo come un eroico aereo dopo un lancio di viveri ben riuscito, schivava i rami senza sfiorare nemmeno le foglie con la punta delle sue lunghe penne bianche. Si lasciò ammirare anche quella mattina per pochi minuti poi, proprio come aveva fatto il giorno prima, scomparve dietro la montagna lasciando tutto quel pezzo di valle nel silenzio, nel ricordo della sua bellezza. A pochi centimetri dal suo piede il solito passerotto non solitario cinguettava, sbatteva le ali, saltellava per attirare solo la sua attenzione, ma Bea non si accorse di lui, corse verso casa, rapita dalla bellezza. Aggiunse un altro elenco di cose fatte, proprio come il giorno precedente, azioni che la tenevano lontana da quell’incontro, da assorbire ancora, un’altra volta, quella bellezza.
Per oltre una settimana tutte le mattine Bea riusciva a incontrare quella magnifica creatura che dispiegava le sue ali fra i pioppi e i castagni secolari. Per oltre una settimana tutti i pomeriggi aggiungeva elenchi alla sua vita, con noia giocava a carte con Nonno Smeraldo, cucinava con nonna, leggeva con disattenzione, amava il resto del mondo senza intensità, priva di gioia, priva di speranza. Aspettava con trepidazione e passione solo l’incontro con quell’airone sconosciuto, desiderosa ancora di un nuovo incontro.
Anche quella mattina scese le scale di casa velocemente, percorse il viottolo che la portava al fiume e iniziò lentamente a costeggiarlo. Minuscole goccioline di rugiada delicatamente poggiata sull’erba venivano assorbite dai suoi calzini di spugna, le avrebbero solleticato di lì a poco le caviglie calde. Camminava lentamente, percorse la stradina che costeggiava il fiume due volte, per oltre tre ore ma anche dopo tanto camminare il magnifico airone bianco non si vide. Il passerotto non solitario cinguettò per tutta la mattina, cercò disperatamente di attirare l’attenzione di Bea, che però non si accorse mai di lui, e mentre disperata correva verso casa, non volendo, calpestò il povero passerotto che si era avvicinato troppo alla punta delle sue scarpe, affamato e debole non era riuscito a volare via, a evitare l’impatto.
Bea tornò a casa, non si accorse di nulla, si sedette accanto al fuoco e rimase in silenzio e da sola.
Dall’altra parte della montagna il grande airone bianco, bello e meraviglioso si faceva ammirare da un gruppo di ragazze capitate lì per sbaglio.
Il passerotto si spense dopo poche ore, solo, mentre Bea tagliava il pane.