Cecità
di Eva Luna Mascolino

Era una soleggiata mattina di dicembre e Irene era ancora profondamente addormentata quando venne riscossa dalla sorella Andreina.
– In piedi, dormigliona!
Irene aprì gli occhi. Attorno a lei era ancora tutto buio, come ogni volta.
– Che ore sono? — chiese.
– Le otto e un quarto. E tu sei tutta spettinata.
Irene mormorò qualcosa, poi fece per riaddormentarsi.
Si intromise Caterina:
– Non hai sentito Andreina? Alzati, Irene!
– Che giorno è oggi? — domandò lei.
– Il Giorno delle Pulizie.
Questo bastò per far alzare Irene e per farla sistemare a dovere. Mise il solito abitino ormai scolorito, verde e viola come quello di Sofia e Caterina, mentre la mamma, Andreina e Debora vestivano di grigio e arancione. La pettinatura, invece, era la stessa per tutte: i lunghi e sinuosi capelli che l’intera famiglia aveva ereditato dalla nonna venivano lasciati sciolti sulle spalle, a incorniciare il viso e a nascondere le orecchie.
A Irene quella pettinatura iniziava a stancare. Avrebbe voluto legare la propria chioma in uno chignon, tentare una treccia o una coda di cavallo, ma la mamma era perentoria. Non si può cambiare da un giorno all’altro, aveva detto, le tradizioni vanno rispettate, Irene: cerca di ricordarlo.
Irene, per la verità, pensava di condurre un’esistenza fin troppo sui binari. La sua famiglia era ucraina da intere generazioni – mamma diceva sette, la nonna (buonanima) sosteneva fossero nove, sebbene le sue antenate fossero arrivate in pessime condizioni da una meta turistica della Russia e fossero state poi rimesse in sesto lì a Kurachove, dove qualcuno aveva provveduto a dare lustro al loro nome e a rispolverarne l’antica nobiltà – e durante nessuna delle suddette generazioni si era pensato di mutare anche solo minimamente qualcuna delle tradizioni.
Irene andava fiera delle proprie origini ed era consapevole del fatto che pochi nel quartiere contassero quanto la propria famiglia, eppure, di tanto in tanto, provava un’inspiegabile nostalgia.
Essere la più piccola fra le sorelle non la infastidiva, dal momento che era stata abituata alla condivisione: non si sarebbe mai lamentata, se la mamma avesse fatto più carezze a Sofia che a lei, o se fosse stata pettinata dopo Debora. Aveva ormai nove anni ed aveva imparato ad adattarsi a qualsiasi circostanza, consapevole del fatto che, in un modo o nell’altro, l’affetto sarebbe stato ripartito equamente fra tutti i propri consanguinei.
C’erano stati giorni – settimane, talvolta – in cui nessuno le aveva rivolto la parola e un solenne silenzio aveva avvolto i visi ancora giovani della famiglia Stanislavskij. C’erano stati mesi – anni, talvolta – in cui Irene non aveva ricevuto regali, non aveva cantato o recitato le poesie che le aveva insegnate la nonna, buonanima. Vi erano stati perfino lunghi periodi della sua esistenza simili a buchi neri: pause sonore, interruzioni di ogni funzione vitale a eccezione delle uniche necessarie.
Nonostante questo, Irene non soffriva di solitudine, né era gelosa di chi sarebbe potuto sembrare può fortunato, più allegro o più libero di lei. Solo, di tanto in tanto, Irene provava una indefinibile nostalgia, poiché aveva mai visto il mondo, per lo meno non con i propri occhi.
Da Caterina aveva imparato il rumore del vento fra le foglie, dello scrosciare dei fiumi in piena, del sibilo dei serpenti nel deserto, dei boati dei vulcani in eruzione. Grazie ad Andreina conosceva l’aurora boreale, il Grand Canyon, le spiagge spagnole, i cieli stellati del Canada e il colore degli arbusti nella Savana. Da Sofia aveva appreso l’euforia del viaggiare su un treno, l’ebbrezza di un salto nel vuoto, la paura di affidarsi a un paracadute e la gioia di correre a piedi nudi sulla neve. Debora le aveva raccontato di interi sciami di api, prelibatezze orientali, banchi di scuola e soffitte impolverate. Aveva perfino sentito parlare la mamma di album di fotografie, sparatorie, ballerini, fiori, scarpe col tacco e teatri affollati.
Profumi, consistenze, sapori e colori: su tutto Irene si era informata. Chiudeva gli occhi e immaginava apparire di fronte a sé tavole imbandite, pesci in mezzo al mare, prati di girasoli o notti di luna piena. Quando li riapriva, però, si ritrovava nel posto di sempre, al buio, in un angolo ritagliato su misura nella pancia di Andreina.
Essere una matriosca, in effetti, non era semplice.
Bisognava adattarsi alle esigenze delle persone cui si era stati affidati, senza replicare né farsi aspettare. Bisognava esercitarsi a schiudersi al primo tocco, a roteare su se stesse, eventualmente ad attendere anni, secondi o settimane nell’immobilità. Non si poteva mai sapere.
La bisnonna di Irene conosceva parecchi trucchi del mestiere: sapeva come intuire l’umore di chi ci tocca, come sorridere senza apparire volgare, come mantenere la stessa espressione per interi minuti, come non far scivolare il mascara sulle guance, come non sudare e come riconoscere addirittura i rumori che precedono allo smembramento della famiglia. Ogni segreto era stato tramandato con attenzione quasi religiosa da sorella in sorella, da mamma in figlia e da zia a nipote, senza distinzioni. Ciascuna doveva dare il meglio di sé e nessuna doveva apparire impreparata, incerta o spaventata.
Essere una matriosca consisteva in una vera e propria arte, anzi, per un tipetto curioso come Irene, essa si presentava come una missione di fondamentale importanza: era necessario esserne all’altezza, rispettare le tradizioni e non deludere gli sforzi di un intero albero genealogico.
Tenendo presenti tali precetti, Irene si era adattata con serenità al buio della propria breve vita: non aveva mai visto la luce del sole ed era forse troppo piccola perché un ragazzino desiderasse rigirarsela fra le mani e coccolarla, sebbene fosse già una signorina aggraziata e composta. Tuttavia, aveva imparato a non soffrirne e trascorreva le proprie giornate come fossero state ciascuna una lunga sequenza di fremiti, gridolini, aspirazioni deluse e ripetitive “buonanotte” avvolte in uno spesso ed impenetrabile mantello nero, che attutiva ogni suono e vietava di conoscere qualsiasi squarcio di mondo percepibile attraverso i sensi.
Il febbrile interesse nei confronti dell’universo sconosciuto che la circondava, nel frattempo, cresceva in Irene di anno in anno, senza che la propria bramosia venisse soddisfatta.
A onor del vero, quando la piccola aveva ancora tre anni e mezzo, le era capitato di essere trascinata via dalla pancia di Andreina per essere ripulita e spolverata da capo a piedi, ma il tutto era accaduto nella discrezione di un camerino senza finestre, mentre Irene, mezza stordita e addormentata, tentava a denti stretti e a occhi chiusi di non divincolarsi e di non tremare.
Tante volte si era poi pentita del proprio atteggiamento infantile, pur consolandosi al pensiero che la propria età le avrebbe comunque impedito di fissare nella memoria qualsiasi percezione sensoriale degna di nota.
Già da anni, quindi, Irene chiedeva di essere svegliata soprattutto quando arrivava il semestrale Giorno delle Pulizie, nella speranza di riscattarsi e di realizzare finalmente la propria aspirazione.
Per l’occasione, la mamma faceva sempre il conto alla rovescia, Sofia la aiutava e Debora lo riferiva a Caterina, ad Andreina e a lei. Era un rito del quale la famiglia non sapeva più fare a meno: come Irene, infatti, anche le altre desideravano respirare aria pulita ed essere destate, sebbene temporaneamente, dal loro immobile torpore color pece.
Allo scoccare di quel Giorno delle Pulizie dicembrino, dunque, Irene si alzò in fretta e si pettinò con più cura del solito: rincarò la matita sugli occhi, lucidò le scarpette con la saliva e stirò con le manine le pieghe del vestitino verde e viola che le era dato di indossare.
Qualcosa le diceva che il gran giorno era arrivato: Andreina non veniva spolverata da tre settimane, Debora non era stata lavata per due e la mamma raccontava della svogliatezza del momento in cui lei e Sofia erano state sciacquate.
I possessori della famiglia Stanislavskij non avrebbero continuato così a lungo: presto il senso di colpa li avrebbe spinti a pulire ciascuna matriosca con più cura pur di farsi perdonare.
E, in effetti, quella fu davvero la volta buona.
Irene lo capì fin da subito.
La mamma stette via per interi minuti e Sofia era abbagliata dalla luce della cucina quando ritornò. Irene poteva sentirne solo le voci, ma anche Caterina e Debora parlarono di grandi carezze, di giravolte e capriole sotto il rubinetto, di stracci grandi, grossi e ruvidi come non mai.
Fu il turno di Andreina. Irene non stava più nella pelle. Sentiva il sangue pulsarle nei polsi, l’adrenalina attraversarle le gambe, la fronte, le orecchie. Avvampò senza saperlo, poi impallidì, poi quasi non si resse sulle gambe.
Nel frattempo, il corpo di Andreina si spaccò in due con uno scatto leggero.
Irene chiuse gli occhi nel tentativo di gustarsi gradualmente quella concessione di estrema e fugace felicità.
Fra poco avrebbero preso in braccio anche lei, fra poco il buio sarebbe stato solo nebbia, illusione, passato.
Lunghe dita sinuose sollevarono Irene per la testa.
L’aria le fischiava nelle orecchie e lei contò fino a tre prima di aprire gli occhi.
Uno, due…
Tre.
Silenzio. Buio.
Tre.
L’acqua stava inzuppando l’abitino di Irene.
Tre, dannazione, tre.
Niente da fare, il buio non spariva.
Irene pensò fosse uno scherzo, una beffa del destino, un disturbo agli occhi.
Tre, tre, tre. Ti prego, tre!
Non ci furono scongiuri che potessero tenere.
Irene ebbe appena il tempo di toccarsi le palpebre per essere sicura di averle spalancate, mentre veniva strofinata sotto il getto d’acqua del rubinetto.
Fu in quella che capì. Non erano stati i suoi occhi a non volersi aprire, non era stata la sua forza di volontà a essere debole, non era stata l’acqua ad impedirle di vedere.
Irene era cieca.
Il Giorno delle Pulizie finì presto.
La mamma, Sofia, Caterina, Debora e Andreina tornarono l’una dentro l’altra. Irene assieme a loro.
Un paio di giorni dopo arrivò il Natale e la famiglia Stanislavskij venne regalata a una coppia di mendicanti che aveva chiesto l’elemosina suonando al campanello della casa presso cui le matriosche avevano alloggiato fin a quel momento.
Non ci furono altri Giorni delle Pulizie per molti anni, ma Irene non ne soffrì troppo.
Solo, prese a chiedersi quale fosse la consistenza dell’acqua, perché durante l’ultimo lavaggio che le era stato riservato si era sforzata così intensamente di aprire gli occhi che aveva dimenticato di prestare attenzione a ciò che avrebbe potuto percepire con gli altri quattro sensi.
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¹ “ma | re” è una serie fotografica dedicata al Poetto, la spiaggia cittadina di Cagliari, passata da essere il fiore all’occhiello della città a un vergogna per i cagliaritani. Nell’attesa che il piano di recupero del Comune prenda fine, Roberto Pireddu ha deciso di raccontare la storia del Poetto con i suoi scatti in bianco e nero.