Mio padre
di Iacopo Accinni

Sono ebreo ortodosso. Un tempo forse praticante. Mai per mia volontà . Mio padre è il fratellastro di mia madre e ha sempre avuto una folta barba, ormai non più così tanto grigia. Mio padre ha sempre amato il calcio e tifato Manchester United, anche se da sempre viviamo a Parigi. Mio padre è diventato ricco, diciamo, commerciando ceci con dei sauditi oltre il péripherique. Farina di ceci, per l’esattezza, che viene principalmente utilizzata per fare l’houmous. Mio padre la vende all’ingrosso in tutta la Francia. Dunque, siamo diventati borghesi ortodossi benestanti, secondo una delle solite definizioni di mio padre. C’è una definizione per tutto, tranne che per Dio, ha sempre insinuato. Una volta, in classe, il maestro mi interrogò chiedendomi cosa fosse la borghesia? Io risposi, convinto, che borghesi sono quelle persone che hanno paura o si annoiano. E questo è anche quello che papà , per dir non poco spazientito, mi ha sempre ripetuto ogni volta che doveva andare a ricercare il libello per le fatture nel suo ufficio. Chissà perché quelle scartoffie andavano sempre a finire in fondo al cassetto. Mio padre ha sempre preteso che uno dei suoi cinque figli dovesse un giorno succedergli nel business della farina di ceci. Io ho studiato il talmud come tutti gli altri fratelli, ma non ho mai minimamente pensato di essere uno dei diretti interessati. Con mio padre abbiamo vissuto per lungo tempo in un appartamento di cinquanta metri quadri circa. Lo stretto necessario e un computer. Nel quartiere siamo stati tra i primi a possederne uno.
Solitamente, alla mattina presto, uscivamo tutti insieme per dirigerci in sinagoga e rincasavamo  prima che il tramonto potesse appassire. Il giorno di Shabbat era Shalpi, la nostra unica sorella nonché ultima femmina in casa, che scendeva puntualmente a mezzogiorno e mezza per venirci ad aprire il cancello della corte, il portone di ingresso della palazzina, il portone di accesso alla scala B e poi quello della scala E, la porta del nostro appartamento al sesto piano, ed infine le nostre rispettive stanze. Non abbiamo mai posseduto orologi poiché, come ha sempre detto mio padre, il tempo è solo una pretesa dell’uomo per avere un po’ di potere. Che io ricordi, mio padre mi ha dato un solo schiaffo. Una tarda sera di un afoso giorno di agosto che non voleva terminare, mi ha sorpreso mentre mi masturbavo. Stringevo tra le mani una foto della matrigna dei miei cugini, Behal e Jamel. Mio padre sicuramente non aveva capito; non lo facevo assolutamente pensando alla moglie dello zio Tzivi. Ho sempre avuto un debole nel fantasticare sulle poppe che le ragazze portano al di sotto delle magliette. Tutto qui. Mio padre non ha mai saputo cucinare, né stirare. Non ha mai amato molto sorridere alla gente, se non il giusto e necessario, come ha sempre affermato. Ma si è sempre fatto grosse e grasse risate quando in televisione veniva trasmessa una tribuna politica pre-elettorale o si faceva il nome del Generale De Gaulle.
Infine, mio padre se l’è quotidianamente presa con Dio, e anche molto facilmente. Ha sempre asserito che, essendo l’unico che lo ascolta con pazienza, è da ritenere cosa lecita prendersela con lui. Gli insulti sono permessi. Tanto, diceva, ahimè (qui è quando mio padre sospirava) siamo legati per sempre. Mio padre ha sofferto molto il giorno in cui David, mio fratello più grande, ha appeso il tiklit al chiodo. Colpa di quell’amico americano! Un incontro furtivo nel parco delle Buttes-Chaumont e non abbiamo più avuto notizie di David. Io ho sempre avuto una forte ammirazione per mio fratello, ancora oggi desidero essere come lui. Ecco tutto quello che ci ha fatto perdere, era scritto sul foglio all’interno del pacchetto di cui ero l’unico destinatario. Sul disco un post-it con dicitura americana: Play Me. Ogni volta piango e vibro ascoltando gli ultimi due minuti e mezzo di assolo di Ramble Tamble.
Dopodiché è stato il turno di Levi. Sono bastati lo scambio di un sorriso e di una carezza per far sì che le mie probabilità di diventare il diretto interessato del business della farina dei ceci aumentassero. Goliardica fu per mio padre la scoperta che gli Amish della Pennsylvania non fanno utilizzo del telefono. Che vi ha fatto la Francia?, ha esclamato la mattina che mio padre se ne è uscito di casa per non farvi più ritorno. Che cosa ha di così speciale l’America, non riesco ancora a capirlo.
Mio padre ha abitato sotto al numero civico 46 di Rue de Botzaris. Sotto, perchĂ© una mattina si è seduto sul sedile anteriore del passeggero dell’automobile del signor Pontiac e non se ne è piĂą andato via. Per piĂą di venti anni ha vissuto la dentro e la barba è divenuta di un bianco candido, pacifico alla vista. Il signor Pontiac è sempre stato un uomo scorbutico e indolente verso il mondo circostante. A lungo ha sbuffato e soventemente digrignato i denti al misfatto. Ma è un cugino buono e pur sempre cristiano, diceva papĂ . Ebbene il Signor Pontiac non è mai riuscito a farlo andare via e forse, per umana caritĂ ed un compiaciuto scambio di sguardi, è stato l’unico a saper leggere veramente nel cuore di mio padre.
Rabbino Cohen veniva una volta alla settimana per supplicare mio padre di partecipare alla funzione del venerdì sera. Dieci anni or sono, il Municipio del diciannovesimo arrondissement ha riassegnato il novero dei parcheggi del quartiere. Intorno alla vecchia Citroen Picasso del Signor Pontiac sono comparse delle strisce bianche. Il rabbinato, non sappiamo come, ma sia lodato, ha trasformato quei due metri per tre in zona residenziale. L’ultimo dono del Rabbino Cohen prima della sua dipartita. Pace all’anima sua ed un ulivo piangente per lui a Gerusalemme, diceva papà .
Una grande quercia attraversa ancora il muro di cinta del parco. In autunno le ghiande cadevano sul cofano della vecchia Citroen svegliando di soprassalto il vecchio uomo dalla camicia sempre bianca e pulita. Prima di ogni alba, Abel, il panettiere, bussava al finestrino. Portava del pane azimo e un pain au chocolat ancora caldo, ma si raccomandava di non dirmi nulla. Mio padre aveva il diabete. Ricordo una volta di aver sorpreso un corvo dal becco semi-aperto che non riusciva ad ingurgitare qualche cosa di piĂą grosso della sua stessa testa. Percepiscono cosa sia divino e cosa sia mortale, ha sogghignato mio padre la sera che portavo Buck in giro per i suoi bisogni.
Il giorno che mio padre è scomparso, mi aveva lasciato una lettera sul cruscotto. Ho dovuto farla tradurre. Non sapevo conoscesse così bene l’aramaico. Ovviamente c’era anche dell’ebraico misto a parole francesi. Ma la scrittura era ancora chiara e delicata. Parole tonde e raffinate, sapientemente pensate, timidamente poggiate su di un foglio di carta. Dapprima ho pensato fosse l’ultimo dei deliri. Narrava di un coniglio bianco sul marciapiede bagnato. Lo aveva a lungo guardato immobile, con occhi oscuri e profondi. Il coniglio era uscito fuori proprio dalla grande quercia. Cosa si siano detti non penso di essere ancora in grado di spiegarlo. Dinnanzi era parcheggiata l’autovettura del Signor Pontiac.
Ho sposato Maya, una bellissima ex-modella messicana. Insieme, abbiamo investito nel commercio di farina di mais. Le tortillas sono ottime. Mio fratello Ismaele è diventato un importante chirurgo estetico che adora gli accendini d’oro e le passeggiate in shorts inguinali sul lungo mare di Miami. Shalpi gestisce un hotel di prostitute cinesi e coreane dietro a Belleville. Sono così fragili e dolci che qualcuno dovrà pur occuparsi di loro, aveva affermato Shalpi al rientro dal primo giorno di un corso di cinese per dilettanti. Moise, invece, in questo momento si trova affacciato alla sua stanza nell’istituto psichiatrico statale nel parco di Fontainebleau. Una vera oasi di benessere e pace ove è possibile fare simpatici ma silenziosi incontri tra folletti e rabbini suonatori di viola.
Di fatti, tutto quello che ricordo della mia infanzia e del mio presente riguarda mio padre. Suppongo lo sarĂ anche per il mio futuro, oltre al gran coniglio bianco che gironzola nel parco delle Buttes Chaumont.