Numero 27

Qui e quando

di Carmine Spiga

 

“Piccolo Sud #12” di Emiliano Cribari
“Piccolo Sud #12” di Emiliano Cribari1

Nessuno era invidioso di lui. La ricchezza qui da noi non è merito del lavoro delle proprie spalle, ma casualità: nostro nonno ne aveva gli attributi stampati in piena faccia: l’iride sinistra verde, in contrasto con quella nera di destra. Questi occhi davano al suo sguardo una fissità apparente che interpellava ed esigeva risposte anche in assenza di domande. Quello sguardo quando era bonario non era mai sposo della gentilezza. Quando esprimeva furia, quella stemperava nell’obliquo sarcasmo, quando pianto, il pianto era capriccio di nozenti, o di bambino furioso. Più che spavento, quello sguardo stimolava all’obbedienza perché divino, o forse diabolico. Era simbolo di distanza dagli uomini. E le scelte divine così come quelle diaboliche (elargire la fortuna appunto) non si contestano, si accettano docilmente. Così come si accetta il giorno e la notte, la pioggia e la siccità, perché Dio e demonio dettano legge in assenza di legislatori. Non perché siano potenti, ma perché troppo lontani per temere la vendetta dell’uomo. Il limite tra Dio e uomo, tra entropia e fortuna è allora invalicabile: è un limite che sta nel succo delle cose. Lo si supera tornando avanti. Per esempio, IL NONNO E IL NIPOTE ANDRANNO COME DUE MASCHI ADULTI E FRATELLI: avremo labbra spaccate dalla sete e capelli bruciati dal sole. Vivremo insieme e insieme moriremo affogati: io dopo 12014, lui dopo appena 7298 giorni. Vedremo il soffitto azzurro di acqua salata, oppure dolce, scomparire tra le bolle d’aria. Ci piangeranno in tanti e batteranno sulle nostre bare vuote. I nostri corpi non saranno mai ritrovati.

Ma prima dovrà passare il passato e srotolarsi quel corredo d’aminoacidi che chiamo MEMORIA di mio nonno, perché è così che scorre il tempo: dentro al MIO cervello mica nell’universo. Procede il tempo, invecchiando il cielo, gli uomini, le viti, le strade del paese lassù e i suoi cani color di sole, mio nonno e me. Siccome solo l’immagine ormai riesce a superare la velocità di fuga di questa distorsione temporale, ci rivedevo finalmente: uno adulto e l’altro vecchio. Aveva trovato lui stesso la chiave. Con quella, maledicendo gli anni trascorsi nel trovarla, il nonno spegneva il motore del trattore che stava conficcato, fino alla benna, al centro della vigna di Locheli. Dopo aveva chili di polvere tra i radi capelli e sopra gli abiti, e la scuoteva con furia. Tanta di quella polvere da far venire ancora notte. Una notte di buio perfetto, assoluto, da cui non sfuggiva neppure un briciolo di luce.

DEI BUCHI NERI CONOSCIAMO SOLO IL CONFINE? Ecco allora il primo orizzonte degli eventi: quando il bosco si fece meno permaloso, qualcuno piantò sul bordo occidentale di Locheli la malvasia nera. Con quella fino a qualche decennio fa si faceva ancora il vino. Dell’ottimo vino che ho bevuto anche io dalle botti di famiglia. Il nonno raccontava di vendemmie così grandi che a Locheli da settembre mancava l’aria, le viti si strappavano l’un l’altra e in ottobre colpivano i contadini, sfasciando i pavimenti con le radici, sollevando i piccoli giacigli quando dormivano, fino a quando dovevano aizzare i cani contro i tralci più grossi. Nostro padre – che non ha saputo superare il nonno in forza di volontà, ma ha saputo superarlo con l’ostinazione, costruendosi una famiglia a Cagliari, familiarizzando con la gente di mare – parlava del suo paese col rispetto che si deve alle cose antiche, quelle cose che portavano in regalo all’oggi solo l’amarezza, ma che appunto non avevano una statura per imporsi nuovamente. Per il nonno Locheli era il presente, e di conseguenza aveva una certa tendenza (comica) a distorcere le cose del passato. Lo faceva bene. Era talmente discreto nel filare bugie che la verità si sarebbe ritrovata in seguito, ma con poco sforzo. E questo lo faceva sogghignare. Come quando numerava in ordine d’importanza i personaggi appartenuti alla nostra famiglia e che s’erano distinti nel tempo: un barbiere, tale Stochino, che aveva attaccato la sifilide attraverso un rasoio sporco al viceré aragonese Jean François de Bette (Bruxelles, dicembre 1672 – Madrid, gennaio 1725). Il Santo Francisco Galiñanes Gallén, il cui motto era no necesita de nada. Cesello e Camerino, fondatori di Torres nell’anno 2118 dalla creazione del mondo.

Il suo preferito era però tziu Eligio, suo nonno, il primo sindaco del paese per decreto regio dei Savoia: nell’atto di donazione, dove comparivano anche le seicentoventitré case disposte in maniera irregolare attorno alla chiesa di San Sebastiano, era menzionato come Eli… (illeggibile) Birdano. Si chiamava Eligio, come suo padre. Era il nome di battesimo? Non so.

Nel tempo il suo nome era cambiato e lo si ritrovava come Elias, Eligio, Remigio, Ezio. Così il suo cognome da Birdano a Virdano, poi Virdis (come il nostro), Piris, Piras, e persino in una variante aragonese, Ruju. L’incendio degli archivi vescovili del 1906 ne disperse la data di nascita così come la provenienza che oscillava col passare del prestigio e degli eventi da Isili a Silius, e viceversa.

Per nostro nonno non vi erano incertezze: tziu Eligio era un muratore di Isili, così ricordava.

Fu chiamato da così lontano per ristrutturare la canonica di San Sebastiano assieme al cugino, anch’egli di Isili, perché la segretezza di una canonica era faccenda delicata e quindi, roba da forestieri.

Dopo aver buttato giù un tramezzo trovarono tra i calcinacci dei piccoli lingotti d’oro. Li nascosero tra gli attrezzi del lavoro senza informare nessuno del ritrovamento.

ULTERIORE ORIZZONTE DEGLI EVENTI: c’era, tanto per cominciare, tutt’intorno a Eligio e al cugino, l’enigma degli uccelli che fischiavano. Si lanciavano segnali così acuti che tra loro s’instaurava opacamente un dialogo che certamente nominava i due. Avevano messo al mondo parecchie uova, che s’erano fatti pulcini e poi predatori d’insetti, d’uva, di fichi e di pere selvatiche. Avrebbero formato quegli stormi che inchiostrano i cieli di novembre. A uno a uno, questi piccoli cuori tornavano d’inverno nel bosco, senza che le persone del paese ne prendessero visione, se non per lo scempio che portavano tra le vigne.

I contadini in passato accettavano con pacatezza questa razzia, perché erano incastonati nella storia, e non potevano che essere partecipi della loro storia di contadini. Ma a fine settembre, soprattutto gli ultimi contadini che s’accorgevano di non avere trasmesso ai figli il possesso della terra (perché il vento quei figli glieli aveva portati a Cagliari o addirittura oltre il Tirreno), quei pochi contadini dicevo, comprendevano il meccanico concetto di male attraverso quelle bestie: se ne trovavano qualcuna intrappolata ai lacci, la schiacciavano col calcio del fucile. Qualche volta lo stesso concetto veniva tradotto in un linguaggio comprensibile anche all’uomo: la volontà di esistere del fucile era ferrea e non solo conferiva la forza di schiacciare le bestie, ma spiegava intimamente al suo padrone di aver fatto bene a sparare, perché solo grazie a lui aveva esercitato il diritto dell’uomo di presentare la morte all’uomo stesso. E quando il padrone si mostrava volubile non sapendo scegliere tra uomini e uccelli, era il fucile ad indicargli la costanza dello sparo e, quindi la necessità di quel diritto.

BREVE VARIAZIONE SUL TEMA DEL FUCILE CON OMICIDIO FINALE: i due cugini vollero dividersi il tesoro, o forse litigarono, anche se in realtà uno dei due non seppe riconoscere l’oro tra i calcinacci. Così uno si fece ricco e poi sindaco, mentre l’altro cugino, dopo aver compreso l’errore s’impiccò appena rientrato a Isili. Una variante della storia descrive invece questo cugino d’Eligio più scaltro: seppe riconoscere perfettamente l’oro, tant’è che Eligio gli sparò a tradimento dentro al bosco.

Entrambe le versioni concordano su una cosa: senza nessun testimone, l’immensa ricchezza di Eligio si consolidò in ventisette cavalli, dodici case con loggiato, nelle tanche di Pranu es’anguini, Funtana Miana e Mont’e Cannoni. Aveva l’iride sinistra verde. Nera quella di destra. Mio nonno ereditò entrambe le cose: le ricchezze e gli occhi.

Dal canto suo Eligio si sposò quattro volte, con donne molto più giovani di lui che si consolavano pensando: dopo il bianco arriva sempre il nero. Inutile dire che tziu Eligio invece sopravvisse a tutte le sue mogli.

L’ultima donna, la sua preferita, era bionda e si chiamava Anna. Era la piccola serva venuta da Silius che non sposò mai. In punto di morte le ordinò di mettere dentro una piccola botte gli ultimi resti dell’oro ritrovato nella canonica di San Sebastiano e di sotterrarlo giù nella vigna.

Io sapevo che, quando la piccola serva sarebbe entrata nel bosco che circondava il paese, di lei non sarebbe stato più. Lì dentro, uno dei cavalli di zio Eligio l’aspettava per riportarla a Silius, o sulla luna, o sul fondo del mare che fa galleggiare Cagliari. Tutto sarebbe stato silenzio, non avrebbe più visto esseri animati, nessuna luce alle finestre, solo lo sciacquio del porto semighiacciato. La calma sarebbe stata la minaccia silenziosa, rotta da un commando improvviso, da una parola proibita. Bambino sognavo di salvarla: avrei preso quella direzione, la stessa da dove nasce lo scirocco, oltre quella barriera di viti, lungo le atroci strade che portavano verso la pianura. Ma il vento ovviamente non nasce, anche se qualcosa di simile al vento alita scavando solchi, raschiando la corteccia alle piante, mettendo a nudo il fondo di un piccolo lago o d’una pozza preistorica, erodendo l’acqua e fortificando le strade che percorre fin dal tempo in cui ancora non distingueva differenze tra soffiare e camminare. Tuttavia il bimbo s’è fatto uomo: non ho più pensato alla serva bionda se non per cupidigia.

NELL’ULTIMO ORIZZONTE DEGLI EVENTI gli accadeva, come a molti vecchi vedovi, che non riuscisse a dormire più di tre, quattro ore per notte. Allora quando le ossa della schiena lo svegliavano, s’alzava dal letto e sedeva a notte fonda alla tavola già apparecchiata dove c’era sempre una bottiglia di vino nero ad aspettarlo per dividere il silenzio. Lì capiva che la bottiglia esprime sempre la malinconia universale dell’essere uomo e solo successivamente quella soggettiva dell’essere vecchio. Ma se l’essere vecchi è una dimensione pubblica, l’essere ubriachi per lui era un fatto privato, così viveva con discrezione quella condizione d’alcolizzato, tanto che nessuno l’avrebbe considerato tale.

In silenzio aspettava che le bestie del suo pollaio si svegliassero, mentre Quirinale, il gallo nero, l’unico che potesse girare libero nel giardino della sua casa, cantava ogni giorno da duemila anni all’arrivo del sole, ma sempre prima che la bottiglia di vino fosse terminata. Questa era la salvezza del nonno e anche quella di Quirinale.

Dopo quel suo chicchirichì, il nonno accendeva finalmente il fornello a gas e aspettava, mentre il caffè gorgogliava, con una sigaretta dopo l’altra, che la sbornia passasse.

Se ogni tanto qualcuno varcava la soglia del suo giardino per scambiare qualche parola, offriva la bottiglia, e ricominciava in compagnia da dove s’era interrotto la notte prima.

Il nonno comprava trattori e sempre e solo trattori italiani. Non che li amasse particolarmente, ma riusciva a trovare i pezzi di ricambio più facilmente. Fino all’ultimo, un Fiat con benna, che ha sempre e solo guidato lui, fino all’ultimo giorno in cui ha potuto farlo. Era ormai praticamente cieco per una trombosi, e crederlo al volante di quel vecchio arnese era tragico. Ma deve averlo davvero guidato perché effettivamente con quello finiva spesso dentro a qualche fosso, con grande divertimento dei suoi compaesani. Questo FINO A QUANDO NON SI CONFICCÒ DENTRO ALL’ULTIMO ORIZZONTE senza l’aiuto di un trattore. Lo trovarono disidratato dopo due giorni. Non riusciva quasi più a muovere le gambe, accasciato sulla sua poltrona color lavanda, col solo conforto di un telefono che squillava a vuoto.

DESCRIZIONE DELL’EVENTO FATTA DA MIO PADRE: sembrava impossibile fargli attraversare quella porta, era irrigidito come un gatto morto.

Sentivo lo smarrimento e la paura che lo avevano spinto fino a quelle parole, e quello fu anche il motivo per il quale, nella luce obliqua della mattina, mentre mio padre sorreggeva il corpo del nonno, che il resto della cronaca è andato perso.

In qualche modo fu dimesso dall’ospedale. Si riprese ma non fu il vecchio di prima, indipendente e coraggioso, non tornò più nella sua casa di Locheli. Papà lo portò con sé a Cagliari. Dormì nella mia camera, sul mio letto.

Pare fosse sempre l’ultimo a svegliarsi la mattina. Qualcuno gli faceva trovare un quarto di vino e, l’amato quotidiano sul tavolo della cucina. Lo trovavano sempre lì quando rientravano a casa per pranzo, col viso schiacciato al foglio, intento a decifrare quelle parole che ormai dovevano sembrargli blocchi d’asfalto sulla nebbia. In casa teneva la televisione accesa, e contemporaneamente lasciava la radio a cantare, in un vociare dissonante da giostraio.

Una mattina, mio padre scese sotto casa a comprargli il giornale e come al solito, rientrando lo aveva chiamato dall’ingresso. Nessuna risposta. Aveva provato a chiedergli come si sentiva quella mattina, e quando di nuovo non rispose, chiamò l’ambulanza.

Il venti dicembre 2015 fecero rottamare il suo trattore. QUESTO MI RICORDA L’ULTIMA TELEFONATA CHE FECI CON LUI APPENA DUE SETTIMANE PRIMA: aveva appena letto da qualche parte che quando guardiamo le stelle bruciare, quelle lo fanno in silenzio, le vediamo come erano in realtà. Vediamo queste stelle lontane com’erano circa diecimila anni fa, centomila anni fa, quand’erano ancora tutte vive. Questo è quello che disse il nonno. Devo avergli risposto con un breve silenzio. Poi mi ricordai delle onde della televisione, delle onde radio, che superata la superficie della ionosfera, viaggiavano in linea retta nel vuoto. Pensa, hanno calcolato che le onde radio delle prime trasmissioni radiofoniche, quelle d’intrattenimento nell’Argentina del 1920 hanno ormai raggiunto la Grande Nube di Magellano. Se qualcuno oggi lì ci accendesse una radio sentirebbe arrivare da lontano la voce di Enrique Telémaco Susini, poi quella di Maria Luisa Boncompagni, l’armonica di Little Walter, le rullate di Gene Krupa, Mal’anema d’a palla di Roberto Ciaramella. Tra novantacinque anni anche questa telefonata finirà tra le stelle, gli dissi.

La terra, pensai, era il posto più rumoroso dell’intero universo, l’unico che vantasse il ragliare dell’asino assieme al sospiro delle fiamme. Ecco lì, in quel silenzio senza orecchie, la nostra ultima telefonata stava già viaggiando alla velocità della luce, magari verso un buco nero super massiccio. La vibrazione inequivocabile della tua voce forse si perderà tra le cose perse dell’universo. Oppure tra novantacinque anni, lassù finalmente mi risponderai: poco male, anche tra le stelle Ciaramella canta meglio di noi.

QUESTO MI RICORDA UN FILM CHE HO VISTO DA POCO: non riesci proprio ad accettarla la morte. Non ti preoccupare, ci ritroveremo un giorno. Questo lo dice lo scienziato del film. Ma se le cose stanno così, oltre alle onde radio torneremo anche come sorelle. Lei sarà sempre la maggiore, come sempre è stato. Ma non sarà più una bambina eterocromica. Non riuscirò più a riconoscerla se dovessimo partire ancora una volta, allontanarci l’un l’altra, diventare estranee, avere madri diverse. Ecco un patto di riconoscimento: la marchierò con un tizzone del caminetto sulle costole, come già feci due volte, cinque, anche se in realtà fu solo nel 1991. L’incavo della cicatrice sarà riconoscibile anche al tatto qualora diventassi cieca. Soltanto dopo fioriremo ogni settembre e daremo corbezzoli rossi in inverno. Le bestie ci tormenteranno e lo scirocco ci farà allungare obliquamente sulla gola di Gorropu. L’ultima stagione verrà col fuoco. Posata la cenere torneranno i pascoli.

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¹ Piccolo Sud” non è una storia, ma un archivio di ricordi fotografati in ritardo. Un omaggio alla genialità, prima ancora che alla bellezza, dell’Italia meridionale: un viaggio fra ciò che è rimasto del Sud e ciò che andato e che sta andando perso.


freccia sinistrafreccia


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