Uomini pazienti in attesa
di Donatello Cirone
Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo e dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due. (G. Orwell, La fattoria degli animali)

Il numeratore, attaccato alla destra dell’ingresso, smistava i clienti nelle varie stanze. Tre casse aperte e un continuo flusso di faccendieri si intrecciava con le ombre di salumieri vestiti di bianco, assistenti salumieri con il camice blu e gli aiuto assistenti salumieri con un camice verde cavalletta che saltellavano fra le varie stanze spostando coltelli, casacche, bolle di trasporto, scatole piene di cartacce da buttare. Tutti a pulire ferri, lucidare lame, lettini e poltrone.
Una voce metallica fra un numero e l’altro restava muta come se aspettasse di dire altro, i clienti entravano nelle loro rispettive stanze al cospetto dei salumieri che tagliavano a seconda del cliente l’insaccato giusto, lo fotografavano. Un omino vestito di giallo calibrava la lama che scendeva implacabile su quei pezzi di carne, a volte viva, a volte stagionata e affettava finemente. Il salumerie, voyeur d’occasione, osservava e prendeva appunti. Riguardava le foto e scriveva su carta intestata le proprietà dell’insaccato, la temperatura che avrebbe dovuto avere il vino per accompagnarlo, quale pane usare, dove e con chi mangiarlo, le dosi esatte, poi impacchettava il tutto. Un paio di volontari e altri giovani volenterosi avrebbero cooperato assieme per preparare il pacchetto per il cliente che lo avrebbe ritirato in seguito, dopo 144 ore, non contando i festivi.
Alle tre casse si alternavano varie anime, cuori infranti e donne speranzose, tutti vogliosi di scappare da quelle postazioni, da quei due schermi, uno per le ordinazioni, uno per il conto, scappare via da quelle sedie scomode, da quel loculo arrivato troppo presto. Due turni, tre i nuovi arrivati, e così si perdevano gli anni, si bruciavano le speranze, fra un’ordinazione e un rimprovero da parte di panettieri arrabbiati per la poca consistenza dei loro filoni, fra un sorriso di qualche cliente felice e una giusta offesa. Correvano gli anni e loro invecchiavano, i due nuovi arrivati, un maschio e una femmina, – così li annunciò il capo dei salumieri-, erano sorridenti e diversi.
Si erano ritrovati in una mattina poco soleggiata, quattro nuovi assunti, tre femmine e un maschio. Avevano fatto il giro con il capo dei cassieri, poi erano stati smistati come pacchi senza destinatario. Loro erano capitati per caso o per destino insieme, si alternavano a quella cassa come staffettisti sicuri dell’oro, si davano il cinque dimenticando tutta quella bruttezza che cercava di sovrastarli, erano felici in mezzo a quell’apatia sociale, in mezzo a mura intrise di malinconia, pronte a crollargli addosso, a seppellirli in un dimenticatoio fatto di speranze giovanili, slanci d’amore e carezze accennate, mai arrivate, forse desiderate. Una pausa di trenta minuti da condividere, una pausa pagata dalla loro azienda, La Prolissi&Co, che prestava uomini e bestie alle varie salumerie della zona, cinque ore, trecento minuti giornalieri per portare a fine mese un paio di bevute, una pizza, un appartamento umido e un finto senso di autonomia. Si alternavano e si conoscevano piano piano, scoprendosi sempre più simili, fuori forti ma dentro fragili come stalattiti di ghiaccio in un mezzogiorno africano. Si scoprivano diversi, deboli ma allo stesso modo amanti della vita, innamorati perdutamente dell’amore, quell’amore senza contorni, senza descrizioni, senza etichette, persi nell’amore come foglie autunnali fra correnti di vento sempre alimentato. Il maschio si chiamava Nero, la femmina invece Altonica, trattavano i clienti sempre con gentilezza, aprivano sempre con puntualità la loro cassa, controllavano le ordinazioni dei clienti, i loro documenti, la Tessera Soci e poi con professionalità li indirizzavano nelle stanze a loro assegnate. Le stanze erano cinque e trattavano quattro diverse specialità: una era dedicata agli insaccati Regionali Misti, una invece ai Regionali Xenobiotici, l’altra stanza ai Tranci Alterati Chimicamente e infine le ultime due dedicate ai salumi Economici; quattro accoglienti stanze dove eccellenti salumieri recitavano la loro parte, mettevano in pratica tutto quello che avevano imparato all’Università del Salume. Il sorriso di Altonica riempiva le vene cave di Nero. Nero, forse, le strappava qualche risata, fra un suo racconto tedioso e un’inutile citazione. Tutto intorno a loro puzzava di carne stagionata, di sopruso, le liste d’attesa delle ordinazioni si allungavano sempre più e qualcuno rischiava perfino di rimanere digiuno il giorno di Natale.
I due ragazzi cercavano di fare il possibile per aiutare i poveri e affamati e pazienti clienti, ma potevano poco, sopra di loro c’erano panettieri e addetti alle vendite, bibitari e pescivendoli, direttori e amministratori. Nel loro piccolo cercavano di accogliere i clienti nel miglior modo possibile: qualcuno li apprezzava, altri invece li detestavano. Fra buste pieni di filoni e dischi di pizza passavano le loro giornate e il loro rapporto cresceva come foglie di acero canadese. Delicatamente affrontavano la vita come dovevano, fuori erano raggi di sole primaverile, non pretendevano niente l’uno dall’altra, niente se non trenta minuti di leggerezza, di confidenze velate, di parole a caso:
– Nero, guarda il cielo!
– Che meraviglia, vero?
– Sì, basterebbe guardarlo per pochi minuti al giorno per essere felici..non credi?
– Non lo so…credo di sì!
– Una papera nera, guarda!
– Non credo sia una papera, è troppo piccola. Le papere non sono nere!
– Che uccello è?
– Non lo so, mica conduco Superquark!
– A no?
– A domani!
I mesi trascorsero sereni e Nero si perdeva sempre più spesso negli occhi di Altonica, disegnava nel suo pensiero i contorni del suo viso delicato, dei suoi dentini bianchi, i capelli sempre arruffati e lisci, il collo regale, il corpo minuto pronto però sempre alla battaglia. Altonica invece continuava a vivere, a essere gentile con i clienti, a indirizzarli dal salumiere giusto. Il numeratore, con la sua voce metallica, continuava a desiderare altri numeri, altre parole. La sala, sempre la stessa, si riempiva di clienti affamati e di pazienti uomini in cerca di pane. Le tre casse, sempre aperte, dettavano il ritmo delle entrate nelle varie stanze. Giovani salumieri, appena usciti dall’Università del Salume, invadevano starnazzando i corridoi del punto vendita; come oche con le ali mozzate cercavano di carpire segreti e nuove tecniche di taglio, di memorizzare più colori possibili di stagionatura, cercavano di imparare dai vari salumieri come trattare male tutti quelli che cercavano, come loro, di finire il mese. I due nuovi arrivati invece si muovevano nella loro testa in un tripudio di colori e di suoni delicati in una strana smaterializzazione dell’anima. Nero, però, diventava sempre più cupo, Altonica invece cercava di rimanere la stessa, con gli occhi vispi e quel senso di paura cucita addosso che solo pochi potevano vedere:
– Si sta bene sotto quest’albero verde, seduti su questi gradini rossi…
– Si è vero, ancora per poco, è in arrivo l’inverno…
– Ci torneremo l’estate prossima allora!
– Non credo sai.
– Sì, hai ragione. Non credo neanche io…
– A domani!
L’inverno arrivò dopo una lunga estate e un fastidioso autunno. Altonica rimase lì per poco, avrebbe percorso altre strade, altre poltrone attendevano di coccolare il suo gracile corpo. Nero, invece, era stato spostato al primo piano in macelleria e, ogni tanto, tra una bistecca da tagliare e un pollo da disossare, pensava ad Altonica e alle sue gote rosse, si tuffava dentro al mare dei suoi occhi, riemergeva sudato, desideroso di un altro bagno. Una pennellata di malinconia gli macchiava il viso mentre il macellaio capo gli ordinava altri tagli, altri pezzi di carne da mandare agli chef della zona.
Una voce metallica fra un numero e l’altro restava muta come se aspettasse di dire altro, i clienti aspettavano il loro turno, i salumieri rimproveravano se stessi per non essersi specializzati alla Universidad de Jamón, le casse sempre aperte.
Lontano Altonica sorrideva mangiando del salame di cioccolato, senza nocciole però.
Una voce metallica fra un numero e l’altro restava muta, come se aspettasse di dire altro…
Trilogia: “Anime fondate sul lavoro”
Primo racconto:
The badge

Giorno 24 – Badge 25
I piedi si intrecciavano uno dietro l’altro, pestavano tutto quello che incontravano senza pietà, con forza si scontravano contro la suola che si deformava a ogni colpo, non erano colpi d’amore, quelli che fanno restare fermo il cuore, che gonfiano vene e polmoni, ma colpi violenti, senza clemenza. La pianta del piede di Sergio si arrossava, bolle si gonfiavano come palloncini in bocca a pagliacci muti, i tendini si allungavano con innaturalezza, le cosce invece si indurivano, sudava fra le chiappe, il sudore colava suicida e si incanalava, la fronte luccicava, la barba ispida si ammorbidiva. Una lunga corsa verso quel movimento fulmineo, un richiamo primordiale alla magia della creazione, il badge che striscia fra due lembi d’acciaio che si schiudono, un bip, un orario, un brivido lungo la schiena. La giornata inizia:
– Portami il caffè!
– Sì, sissignore capo Dottore!…Continue reading
Terzo racconto:
Gocce di caffè

“È nostra la città” di Antonella Restagno
Ogni centimetro quadrato di quel materasso lavorava per la sua comodità, sessantacinque chili distribuiti su un corpo lungo un metro e settantatré, il resto era bello nella sua normalità, tutto era ben proporzionato. Ventitré anni e un sorrisone pieno di vita, pieno di speranza e di voglia d’amore. I sogni erano semplici: il sabato sera a ballare, la domenica triste, il venerdì mattina con nonna Lisa a fare la spesa, ogni tanto al mare, qualche volta un vero orgasmo, spesso un abbraccio, a volte un bacio strappato, tante carezze. Voleva una vita semplice Caterina, voleva comprarsi la macchina, andare a vivere da sola…Continue reading