La vasca
di Marco Brion

Stiamo dentro la vasca, in due.
Le mie gambe stanno contro i bordi, le sue raccolte – con le ginocchia fuori.
Isolette ossute, pallide, perse in un mare di schiuma e sapone.
Guarda che non dovevi farmi entrare per forza, mi dice stralunando gli occhi, quindi evita di ti sentirti in obbligo, ok?
Io dico Vabbé a giochi fatti – nel senso, ci siamo dentro, no? Sguazziamoci ormai. E sia chiaro, non è che lo dico per scherzare, anzi.
Lei però scuote la testa, tiene le labbra tutte strette e gli occhi così, spalancati.
Ce la sta mettendo tutta per non ridermi in faccia.
I suoi capelli sono zuppi, raccolti in ciocche scure galleggianti. Sta con le spalle sott’acqua, il mento affilato che beccheggia a pelo.
Abbiamo evitato le candele. La luce spietata del lampadario illumina ogni piega, ogni minima traccia di imperfezione nel suo corpo, figuriamoci il mio, e così siamo imbarazzati, si deve chiacchierare per forza.
Musica non ne abbiamo e l’acqua che gocciola scandisce minuti di cui vorremmo dimenticarci, almeno per un po’.
Così parliamo e parliamo, parliamo ad oltranza e la prendiamo larga, ci giriamo intorno senza fretta, a quel Perché grande come una casa.
Che è un po’ quello che si fa sempre, dico per convenzione, con la gente, solo che a volte ci sono persone con cui è bello girare e straparlare – non ci vorresti neanche arrivare ad un punto.
Perché poi uno dei due deve cantare e finisce la magia.
Così ad una certa io le dico, Che ci sei venuta a fare qua?
E lei sta zitta un secondo, poi mi fa, Che ne so, e muove l’acqua coi piedi, facendo una mezza boccaccia. Non sapevo dove andare, mente.
Le rammento di un probabile qualcuno in attesa da qualche parte.
Sottolineo anche che farsi sbattere fuori di casa non è un movente credibile per trasferirsi nella mia.
Lei dice che è stata una sua decisone, che qui nessuno si è fatto sbattere da nessuno.
Poi ci ripensa, ridacchia.
Le chiedo cosa vuole per cena. Dice che va bene tutto, anche se non ha voglia di niente ora come ora. Indaffarata a capire cosa farne di se stessa e di tutto quel casino di vita che si ritrova in mano, mi guarda, piega un po’ la testa, appena appena. E sorride.
Di mangiare gliene frega meno di zero.
Io comunque mi sforzo di non afferrare – faccio lo gnorri, riempio preventivamente ogni silenzio sospetto e poi le chiedo, Cos’è successo stavolta? Non sembri così preoccupata.
Lei dice, Infatti infatti, il solito. Mi spiega che suo padre – quello del Danubio a nuoto, che ora sta da qualche parte nel bresciano profondo dentro una brandina a far la guardia alla gettata – Quello vuole vedere dei cazzo di risultati.
Vuole una Figlia La-u-re-a-ta, non una Troia che va in giro a far la Puttana, dice lei, Parole sue.
E mia madre, dice strofinandosi gli occhi dal nervoso, mia madre non ha neanche più la forza di dirgli di darci un taglio.
Che lavora come una schiava pure lei, e di voglia di mettersi a scazzare, dice, non glien’è rimasta neanche un po’.
Si è arresa, conclude. E pure sembra tranquilla, in pace.
Perché non lo molla e basta?
Io rispondo per lei e dico, È complicato.
Ringhia, Puttanate. Che le cose bisogna farle, bisogna Combattere, altrimenti la tua vita diventa una cazzo di tragedia.
Io rido, e le dico, Mettila come vuoi, è una tragedia comunque.
Allora ammutolisce e si tira su piano, sulle ginocchia. Le sue tette insaponate penzolano a mezz’aria nella mia direzione, gocciolanti. Chiaramente non guardo altro finché non siamo faccia a faccia.
Il rubinetto pigola, implacabile. Così le chiedo, Che fai?
Lei zitta zitta si aggrappa ai bordi della vasca, i muscoli delle braccia tesi, la schiuma raccolta come ragnatele fumose sotto le ascelle.
Mi guarda nelle palle degli occhi per dieci secondo buoni e non fa mezza piega.
Poi chiede, Posso starmene qui stasera si o no?
Io la guardo e scivolo fin quasi con le orecchie sott’acqua, le gambe sparate di fuori – a penzoloni, e rispondo che è una domanda stupida, che può stare dentro la vasca finché vuole.
Lei mi spruzza senza troppa convinzione – ride e stiamo così un altro po’.