Numero 26

La Casa di Luce

di Fabio Cardetta

 

lucio-1988-di-nicola-lonzi
“Lucio 1988” di Nicola Lonzi

Rubai il codice dal mio coinquilino russo.
Con candore me l’aveva chiesto la donna croata.
Il mio coinquilino lavorava per lei, per delle faccende oscure di cui non vorrei raccontarvi nulla. Lei gli disse che era solo per riavere accesso al conto in banca del marito morto. Ma entrambi sapevano che era una stronzata. La donna croata lo pagò molto bene. Ma, quando il mio coinquilino le chiese di più, lei optò per una soluzione diversa.
Così rubai la stringa di codice dal mio coinquilino russo.
Con candore me l’aveva chiesto la donna croata.

E andai nel suo appartamento, in una zona periferica di una città sconosciuta. E suonai al citofono, lei mi aprì il portone, con la sua voce delicata:
“Ti stavo aspettando!”
Corsi per le scale, come un giovane amante disperato, la porta s’aprì ed entrai nell’appartamento. Fu come se l’avessi già vista quella casa, da qualche parte, in un lontano passato nella mia memoria.
Era certamente la casa che avevo visto nei miei sogni… la Casa di Luce.

“Vieni su!” –  la voce echeggiò nell’androne.
La casa era completamente bianca. Anche le finestre lo erano. Una luce abbagliante mi accecava la vista, non permettendomi di riconoscere alcun oggetto intorno a me. L’ingresso era lì, credo, il soggiorno appena oltre; sulla mia sinistra una cucina bianca, alla mia destra una finestra bianca. Ma il sole era troppo forte e la luce così accecante che non riuscivo a distinguere nulla intorno a me.
“Vieni qui, caro!” – la sua voce echeggiava nella casa.
Ma non riuscivo a trovare le scale, andavo a tentoni, nessuna strada mi portava da lei. Il sole dalla finestra del soggiorno mi trafisse con un raggio iridescente, così fuggii nel corridoio alla ricerca d’un cono d’ombra. Lo trovai, in parte, ma solo per poco. Poi il sole dall’ingresso divenne sempre più forte e i raggi mi accoltellarono gli occhi. Corsi via da quell’angolo colmo di luce, cercando di coprirmi gli occhi con le braccia, ma non trovai sollievo, non c’era via di scampo. E vagavo come un cieco, mi sentivo morire, girovagavo delirante come un animale in gabbia.

“Vieni qui, amore mio. Non posso aspettarti per sempre!”
“Arrivo, sto arrivando… Ma la luce è troppo forte!”
“La luce è troppo forte. Ma tu sei più forte, non è vero?”
“Mi piacerebbe essere più forte, se solo potessi vedere!”

In quel momento, qualcuno aprì la porta.
E due corpi, due enormi figure entrarono nella casa. Il mio vecchio capo e il suo tirapiedi, presero a gridare:
“Figlio di puttana, dov’è la chiave?”
Potevo a malapena distinguere la sagoma delle loro figure, immerse nella luce. Mi bloccarono e il tirapiedi mi prese a pugni in faccia, come se volesse uccidermi.
“Per chi lavori adesso, figlio di troia?” –  mi disse il capo.
“Non lavoro per nessuno!”
“Giovanni ti ha visto entrare con la nostra chiave!… Dammi la mia chiave, figlio di troia!”
“Non ho nessuna chiave!… Ma solo una stringa di codice, un codice che serve a riparare i computer, i computer della signora!”
“Di che cazzo stai parlando? Ora lavori in informatica?”

Gli mostrai il codice.
Il mio vecchio capo era davvero vecchio e non poteva capire di che cosa si trattasse: non aveva mai capito nulla di tecnologie e informatica, e il suo stupido tirapiedi altrettanto.
Quindi, dopo aver visionato la stringa, lo stupido gorilla poté solamente dire: “Questa non è una chiave!”
“Naturalmente non è una chiave, cazzone!”
Fu lì che il capo mi disse:
“Perché ci hai tradito, solo per lavorare in informatica?… Credevamo che ci avessi tradito per i soldi. Sembrava una buona ragione. E ora lavori in informatica?… Che cazzo di delusione!”
Il gorilla fece: “Ma potrebbe ancora avercela la chiave!”
“Sì” – ribatté il capo – “E dopo averci preso la chiave, dovrebbe essere così stupido da non rubarci niente, rimanere in città e trovarsi un lavoro da informatico!… Ma quanto sei cazzone?!”

Mi lasciarono solo, a terra e sanguinante.
I due scomparvero nella luce.
Con i loro occhiali da sole e il loro sorriso sdentato.

Stavo morendo, sanguinavo, non respiravo e non vedevo nulla all’infuori di me. Quella voce riprese a chiamarmi:
“Se ne sono andati. Ora puoi venire!”
Volevo raggiungerla.
Volevo toccarla.
In quel momento, non so come, realizzai di poter distinguere qualcosa: delle scale grigie.
Cercai di raggiungerle, lentamente, a tentoni, proiettando la mia mano in avanti come se volessi toccarle con le dita. Ma, stavo quasi per raggiungerle, quando un quarto sole si levò, riempiendo la quarta finestra accanto a me.
Un lampo bianco esplose nella casa.
I miei occhi furono squarciati da un terribile raggio di morte, e un bianco Universo mi circondò come una tomba.
Mi straziavo e gridavo nella più totale disperazione…
E solo allora mi sovvenne qualcosa… solo allora mi sovvenne che non ero.

Poi i miei occhi s’aprirono, e furono colpiti da un raggio.
Un sottile raggio che penetrava dalle tende.
E capii che ero a casa, nel mio letto, svegliatomi da un sonno profondo.

Trafitto da una raggio di sole, in un pomeriggio bianco e indiscreto.


freccia sinistrafreccia


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