Numero 25

La corriera

di Jack Leone

 

da-qualche-parte
Da qualche parte di Philippe J

Nascosta all’interno della catena montuosa dei Carpazi esiste una piccola e dorata piana. Questa è attraversata da un breve corso d’acqua limpida sulle cui sue sponde la storia ha partorito un piccolo, alquanto sconosciuto, borgo abitato da Lemchi. Non più di una ventina di fattorie ed una dozzina di abitazioni compongono il villaggio dai tetti ambrati ed impreziosito da coloriti vasi di gerani esposti sui davanzali. Dietro alla macelleria vi è una grande sala per le feste, adibita per lo più a consiglio locale del Partito, ma anche a centro per l’estrazione settimanale del lotto. Al giovedì sera, qui, nel piccolo villaggio dei Lemchi, è festa grande. Esiste il panettiere, il meccanico e forse l’ultimo dei maniscalchi. Con gran fragore, una carovana di zigani, traffichini di cavalli e giovenche, si è venuta ad accampare a ridosso della polverosa strada provinciale. A sera, donne dalle gonne merlettate e colorate e uomini dai folti baffi cantano e danzano con grande brio. I Lemchi, al contrario, se ne stanno per lo più tra loro. Dediti all’agricoltura e alla lavorazione del legno, dal secondo dopoguerra in poi, sono particolarmente attivi in azioni di contrabbando che qui, con eloquenti ed educati sorrisi, hanno sempre definito come “un particolare servizio di ristorazione ed adeguamento storico”. Conoscitori di sottoboschi e di sentieri collinari ignorati dallo Stato, i Lemchi sono certi che il futuro sia racchiuso in una fresca lattina di Coca-Cola. Almeno è quello di cui sono pienamente convinti i più giovani tra gli abitanti del borgo, la sigaretta sempre necessariamente poggiata sulle labbra.

Fuori dal villaggio, prima della foresta dei faggi e delle betulle, si erge la piccola chiesa di San Cirillo. L’ombra ed i ruderi di un vecchio convento le regalano tutt’intorno una argentea collana monolitica. Entrando in sagrestia, la patena ed il calice placcato oro non sono più al loro solito posto. Ora giacciono per terra, ancora umidi di preghiere e di speranze. Due vecchi scarponi, quello sinistro rinforzato da un vecchio plantare, roteano uno sopra l’altro. O meglio, volteggiano in comunione, anche se è evidente quel leggero senso di incertezza appartenente a chi sa di aver già oltrepassato il fiore degli anni. Ed è così che le ostie non si incollano più solamente sotto al palato. Da quando, l’ormai ottantenne Padre Georgy ha sequestrato il mangiadischi al giovane Dima, la sagrestia si è letteralmente trasformata nell’anticamera dell’inferno. Alla sua età! È quello che pensa la sempre più perplessa Suor Irina. Ahi! Il coltello ha mancato la patata per venire ad accartocciarsi lungo l’indice della religiosa. Ecco, tutta colpa di questa musica demoniaca, sussurra tra sé e sé Suor Irina, portandosi l’indice dal sapore ferroso alla bocca. Padre Georgy ha da poco imparato a poggiare con meticolosa premura il braccio metallico sul vinile roteante. La prima volta non si dimentica mai. Dopo un leggero gracchiare iniziale ed un pur sempre rispettoso ma eloquente imprecare, il sacerdote polacco era stato letteralmente folgorato da una imprescindibile apoteosi cacofonica.  Ed eccolo lì, Padre Georgy, che ancora sogghigna e si diverte mentre alza la manopola del volume. Un roboante senso di vertigine frantuma il normale silenzio che ogni giorno campeggia lungo la navata centrale della piccola chiesa di campagna. La ruggine, il cobalto ed il rame componenti la vetrata della sagrestia tremano vistosamente, lasciando cadere la polvere accumulatasi nel corso degli anni.

Al contempo, uno stonato gong risuona all’esterno tra i vecchi ruderi del convento abbandonato. Tanko. Tanko. Tanko. La folla è in delirio. Dalla fredda steppa orientale, compagni e compagne, ecco a voi il prode, Tanko. La folla è in estasi. Fischi e strepitii si mischiano a fragorosi scrosci di applausi e canti di incitamento. Un solo nome tuona all’interno dello stadio olimpico: Tanko. I pugni stretti e le braccia rinsecchite si muovono avanti ed indietro. Inspira ed espira. Un corpo gracile e longilineo saltella prima qui e poi là. Inspira ed espira. È il giovane Dima, ma guai a non chiamarlo Tanko. Schiva un primo gancio, poi un secondo. Incassa un destro, per poi… O mio Dio. Cari telespettatori. Non è possibile. Tanko ha mandato al tappeto l’americano. Tanko è campione del mondo. Tanko è il nostro eroe nazionale. Chi lo avrebbe mai detto: Tanko e la famigerata mossa Kathyusha. Tanko esulta, stringe forte i tre strati di lana che fungono da guantoni. In ginocchio a guardarlo ci sono ora solo le rose profumate di Suor Irina. Rosse, bianche, aranciate, canine, rampicanti e recise. Suor Irina tenta i ricordi di una infanzia a cui non ha più accesso. Per l’amor di Dio, Dima vai ad aiutare Padre Georgy a spegnere quel coso. Tanko corre, i guantoni ancora stretti tra le mani.

Quella sera Padre Georgy e Suor Irina hanno cenato con un una zuppa di patate e le due ultime fette d’arrosto alle prugne della domenica. Una volta al mese, la piccola chiesa del villaggio dei Lemchi accoglie quelle piccole pesti degli orfani dell’istituto Lenin. La solita devastazone e Padre Georgy proprio non gli sopporta più. Soprattutto Iliya, quello spocchioso quindicenne da due pacchi di sigarette al giorno ed un carisma che avrebbe indispettito lo stesso Ponzio Pilato, pensa indispettito Padre Georgy. Siamo stati tutti giovani, cara Suor Irina, dice il prete inzuppando veementemente del pane rinsecchito nella zuppa. Ma quell’Iliya, proprio non mi piace.

Sulle punte dei piedi, c’è un uomo che a fatica si stiracchia verso l’alto. Cerca di chiudere il piccolo lucernaio. Dio Santissimo che freddo. Padre, venga ad aiutarmi. Chi va là? Padre Georgy è spaventato, riemergendo con difficoltà dal vecchio e logorato materasso di una vita. A fatica Padre Georgy si tiene sui gomiti. Ci vorrebbe un miracolo per questa artrosi, si lamenta Padre Georgy. Ma sono io, Padre. Sasha. Sasha? Sì, Padre. La prego, mi raggiunga. Dio mio, Sasha. Che ci fai qui? Come sei entrato? Ho bisogno di lei, Padre. La prego. Una volta trovato l’interruttore della luce lungo il comodino, Sasha non c’è più. Padre Georgy pronuncia il nome del fedele invano. Nessuna risposta. La luna, vestita a giorno, continua a roteare nel lucernaio. Padre Georgy si è riaddormentato.

Padre, ho bisogno di lei. Per l’amore di Dio Sasha, così mi uccidi. Non puoi entrare nella mia stanza come un ladro. Padre. Sasha, smettila. Mi spaventi. Quello che più colpisce Padre Georgy è l’orribile camicia arancione indossata da Sasha, ed un paio di scarpe da ginnastica consunte e di due taglie più grandi del normale. Sasha ma come ti sei vestito? Quello che stona maggiormente è il taglio di capelli di Sasha. Ben pettinano e con la riga portata sulla destra. I baffi sono rimasti i soliti, grossi e color cenere. Sasha, rispondi? Ma Sasha guarda solo; gli occhi implorano.

Nel vecchio borgo abitato dai Lemchi non vi sono galli che cantano con il sorgere del sole. Devo andare Suor Irina, sussurra Padre Georgy, dopo aver riempito una piccola saccoccia di vimini ed intascato il vecchio rosario d’avorio. Ma non c’è nessuna corriera quest’oggi, esclama preoccupata. Cosa gli sarà preso a Padre Georgy, si domanda Suor Irina che lo guarda come una madre premurosa scruta il proprio pargolo davanti all’ingresso dell’edificio scolastico. Suor Irina e Padre Georgy hanno più di trent’anni di differenza. La prego Padre mi spieghi bene come posso aiutarla? Non ho tempo. Non posso. Devo andare. Padre Georgy sembra quasi infastidito. Detesta fare le cose di fretta. Sasha mi ha chiesto di raggiungerlo. Affido la sagrestia a lei e al giovane Dima. È un bravo ragazzo.

Un vecchio gabbiotto di legno sul ciglio della sterrata strada provinciale funge da fermata per la corriera. Per raggiungerlo, Padre Georgy ha dovuto attraversare due campi di patate ed uno di cavoli. Ha impiegato quasi un’ora per via di quel maledetto ginocchio. Neanche il tempo di sedersi e riprender fiato che lo stridere di vecchi freni a cilindro sbuffano con grande fragore dinnanzi al vecchio prete. Le porte aperte, una voce calda e rugosa invita Padre Georgy a sbrigarsi. Vorrei figliolo, esclama un indifferente Padre Georgy, ma deve sapere che ho la disgrazia di dovermi portare appresso una grande valigia di anni con me. Mi scusi, Padre. Lasci che l’aiuti. È tardi. Sta per crollare. Dobbiamo sbrigarci. Esclama determinato l’autista. E la corriera con gran gracchiare di meccaniche riprende il proprio cammino. È fortunato oggi, Padre. Il comitato centrale e quel porco del sindaco l’hanno gran vinta. Lo sciopero è stato revocato. Ma lasci che le dica una cosa. Arriverà il giorno che gliele strapperemo dal collo quelle spillette rosse. Amen, chiude Padre Georgy.

Ma, Padre, Sasha è morto due giorni or sono. Il vestito è succinto, ma pur sempre di raso nero. Lo immaginavo. É solo che… Mi dica, Padre, esclama Ewa, la figlia rattristata di Sasha. Nulla, nulla. Posso chiederle chi celebra messa? Padre Jacek. Un grazioso copricapo merlettato avvolge il capo di Ewa lasciando intravedere le piccole ed ancora fresche orecchie. Allora, se me lo permettete, celebrerò io messa per Sasha. I ceri rimasero fiochi e languidi per tutta la cerimonia e le esequie terminarono presto. I pochi fedeli partecipanti di punto in bianco avevano desertato i banchi di legno. Ora si azzuffano per entrare nel caffè all’opposto della piazza. C’è una grande televisione a colori accanto al bancone. Si vocifera di un muro che ora non c’era più. Ed il silenzio è ormai dietro l’angolo.

Alle prime ore del giorno seguente, una volta congedandosi, Padre Georgy sale nuovamente sulla corriera. É un piacere rivederla Padre. Che le avevo detto? I muri si abbattono così come si costruiscono, e Padre Georgy non ha più professato parola. Si siede al solito posto, in prima fila. Ha sempre sofferto gli automezzi e sa che il miglior rimedio è focalizzarsi sulla strada. Le linee bianche sul ciglio della strada si fanno subito distorte. Con esse le palpebre del vecchio sacerdote sempre più pesanti. Padre. Sasha? Sì, Padre. Sai guidare questo rottame? Padre. Ho capito. Posso chiederti perché tu, Sasha? Perché lei, Padre, è l’unico che mi ha voluto del bene.

La corriera non giunse mai nel piccolo borgo abitato da Lemchi. Ma questo poco importa. Era un umido giorno di novembre come ce ne sono tanti altri.

 


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