Numero 25

Jolly Hotel

di Giampaolo Giudice

 

Au cafe di Arian Ann
“Au café” di Aria Ann

La finestra della camera affacciava sulla stazione di Porta Nuova, un giorno di aprile.

Una minuscola stanza all’ultimo piano, subito sotto il tetto, moquette marrone per terra ed arredata come se non fosse esistito più nulla dopo il 1995. Il vecchio posa la borsa ai piedi del letto, respira a fondo ed esplora le quattro pareti come chi torna dopo un lungo viaggio, per vedere se tutto è come nelle sue memorie, per sentirsi cullato nel riconoscere i dettagli invisibili che fanno sentire a proprio agio. Che fanno sentire a casa.

Si siede sulla poltrona, accende una sigaretta  e comincia guardare fuori dalla finestra.

E dalla finestra sulla stazione il vecchio osserva il pomeriggio immerso nel tramonto, in cui si agitano come insetti centinaia di minuscoli umani affaccendati a rincorrersi per le strade, o almeno così sembrano visti da lì.

Un vecchio che fuma guardando gli uomini come in un acquario, la sera, al tramonto.

Ed il tramonto, fenomeno quotidiano ed irripetibile, sembra essersi posato sulla città per far affondare il vecchio nei propri pensieri.

C’è, dunque, un vecchio che fuma guardando un acquario di umani minuscoli, al tramonto, mentre affonda in pensieri densi.

Questi pensieri sembrano vivi.

Pensieri e memorie dotati di una propria volontà da cui non sembra facile allontanarsi senza ferirsi. Pensieri e memorie come esseri viventi abitanti gli elementi.

Quindi c’è un vecchio –terra- che fuma –aria- guardando un acquario –acqua- fumando via il tramonto –fuoco- mentre affonda in pensieri non newtoniani.

Pensieri a sciami; ronzanti e famelici nel loro modo di comunicare la propria vita autonoma. Famelicamente sciamanti ronzano attorno al vecchio, ai suoi ricordi, al fumo della sua sigaretta.

Così simili a quella gente, giù dalla finestra, nel piazzale della stazione.

Sorride, il vecchio, quando un’idea lo raggiunge. Sorride compiaciuto come chi si illumina di un lampo improvviso di comprensione. Si illumina perché in fondo quello che sta di fuori da lui, da quella finestra non è poi così diverso da quello che sta dentro.

I pensieri a sciamare nella stanza e nella testa.

Uomini sciamano intorno alle colonne della stazione di Porta Nuova.

L’Universo si riempie di se stesso, con i suoi stessi elementi.

Quindi c’è questo vecchio –terra- che fuma –aria- guardando un acquario –acqua- fumando via il tramonto –fuoco- mentre affonda sorridendo in pensieri vischiosi.

Affonda e pensa.

Affonda e ripensa alle piccolezze, a quelle minuzie che la vita semina lungo il cammino incerto degli uomini, che è la vita stessa.

Affonda, pensa e ricorda, il vecchio, quel giorno in cui si trovò un capello bruno sulla giacca. Scuro, ondulato e lungo.

I suoi ricordi e i pensieri vengono interrotti da passi nel corridoio, passi che si fermano dietro la porta della sua stanza, passi che si fanno vicini quando la porta si chiude dietro di loro.

Alle sue spalle la figura di un giovane uomo. Un completo blu ed una camicia bianca su cui campeggia una cravatta rossa, appena allentata che sembra tenere insieme il colletto sbottonato.

Il giovane posa con cura la giacca sulla sedia dello scrittoio e raggiunge il vecchio, che non ha mai smesso di guardare il suo animato intrattenimento dalla finestra, mentre la sigaretta giace sfinita e ancora fumante nel posacenere.

– Ancora alla finestra?
– Altroché, non riesco a distogliere lo sguardo. Li trovo ipnotici.
– Ma chi? Gli omuncoli della stazione?
– Proprio loro.
– Certo, se hai il tempo di piazzarti lì a guardare il campionario di umanità che si può vedere nelle stazioni e negli aeroporti.
– A volte ogni scusa è buona per prendersi una pausa.

Il vecchio si volta verso il ragazzo, gli sorride.

– Da quanto sei arrivato?
– Non molto; il treno ha fatto ritardo per un simpaticone che ha deciso di morire molesto, gettandosi sui binari a Bologna e facendola scontare a tutti.
– Avrà avuto i suoi buoni motivi!
– Già, ognuno ha i suoi.

Il vecchio accende una sigaretta aspira il fumo socchiudendo gli occhi e poi la allunga al giovane seduto davanti a lui sulla sedia dello scrittoio, poi riprende.

– Stanco per il viaggio?
– No, ho anche dormito un po’.

Il giovane si alza e va verso la finestra. Sbuffando via il fumo fuori tiene i gomiti appoggiati al davanzale con lo sguardo rivolto ai movimenti del di fuori, catturato dalle danze delle foglie sugli alberi, dalle traiettorie imprevedibili dei passanti che si incrociano sui marciapiedi e dai colori di quel tramonto infinito, come solo in questa stagione è possibile vederne.

– Mi mancava questa città. Riesce sempre a mancarmi quando sono lontano.

La prima volta che l’ho vista, la prima volta che ho messo piede in questa città. Mi sono sentito accolto, come se fossi tornato da un viaggio durato altre vite.

Torino è una strana città.

Ci sono giorni in cui le strade riflettono la poca luce filtrata dallo spesso strato di nubi e altri giorni in cui il cielo è talmente limpido da lasciar vedere chiaramente la Corona d’Italia dalle cime innevate. Una vista che trasmette la sensazione di un passaggio imminente, di un confine da valicare, della fine di un percorso con un nuovo inizio ad attendere dall’altra parte.

Nei giorni di oscurità, che sono i miei preferiti, l’intera città risplende della sua bellezza. La bellezza di un buio a cui viene voglia di dedicare l’intera esistenza, di un buio rigoglioso e ricco, che ha il sapore di aria fresca sotto i porticati di via Roma, la notte. Quando le finestre si chiudono e le luci si spengono in quella città scolpita nel sogno, sotto un cielo colorato di tutti i grigi del mondo. Scarpe pesanti e stivali suonano il lastricato come una tastiera.

Passi nella nebbia, passi nella pioggia, passi nella neve, sotto nuvole silenziose e cuori tonanti sparsi per le strade come sangue nelle vene della città in cui il cielo non rumoreggia mai.

Luccicare di stelle e di occhi come finestre sulla notte. Silenziosa e quieta da sembrare recitata nel disordine di passi, occhi, cielo grigi e luci, che poi disordine non è perché ordine non è mai, che se fosse ordine e pulizia come qualcosa di intatto, allora non sarebbe Vita. Perché è vivo solo ciò che si muove e si agita. E questo anima la notte della città col Grande Fiume: la vita che striscia e brulica per le sue vie –che sono le sue vene. Perché, in fondo, il disordine è solo un ordine sconosciuto.

Ed è oggi “che sono lontano, che sono perduto”, che mi manca Torino.

C’era un inverno di qualche anno fa. C’erano respiri bianchi nelle sere di febbraio e c’era qualcosa nel petto, difficile da descrivere, nel cuore, di notte.

Qualcosa che ne mutava il passo, che lo zittiva nella gola coperta di lana, che ne accendeva le ceneri dietro agli occhi. Qualcosa dava alla notte un dolce potere, forse la solitudine assaporata in quel monolocale vista pianerottolo di via Cibrario, forse la provvisorietà di quelle valigie sparse in terra o il rumore del tram sotto casa.

Forse tutto questo rendeva la notte Regina e la faceva risplendere d’assenza, animandola di tutti i suoi spettri.

Come acqua in un pozzo, come colori nelle tenebre. A muoversi con passo felino, nel cuore, di notte.

– Sembra che tu la conosca bene. Che c’eri venuto a fare?
– Per una donna, poco prima che venissi trasferito qui per lavoro. Disse il giovane, voltandosi verso l’anziano.
– Una donna? Come ti sei trovato una donna qui?
– Sai, la solita scena. Amici comuni, “lei è Irene…”, due chiacchiere, una battuta, sguardi che diventano densi e da lì è stato un piano inclinato. La parte strana della storia è che poi ci sono venuto a vivere qui, per lavoro, mi ci sono trasferito per un po’.
– E questa ragazza? La vedi ancora?
– Diciamo che non è andata come ci aspettavamo.
– E cosa vi aspettavate?
– Che durasse, ad esempio, che domanda è?

Ci aspettavamo quello che si aspettano tutte le coppie del mondo, ma forse è stato proprio questo il problema.

– Certo, chiaro. Fammi indovinare, vi sentivate speciali, unici e invece eravate proprio come tutte le altre coppie del mondo.

Disse il vecchio quasi con sufficienza.

– Sei sempre simpatico, riprese il giovane sarcasticamente.

Non ci aspettavamo di dover accettare il fatto di non andare più d’accordo, di non funzionare più. Come se qualcosa si fosse rotto, come succede spesso, così, all’improvviso, ci siamo trovati ad essere quasi due estranei.

Il vecchio sorride compassionevole, allungando il posacenere al giovane che era fra il sognante ed il malinconico, con lo sguardo lontano di chi ricorda, meglio, rivive qualcosa:

– Era di questi tempi, venne a prendermi in stazione.

Sembrava un film, c’era solo lei sulla banchina ad aspettarmi. C’era quell’emozione densa dei sentimenti condivisi. Era bellissima, con quei grandi occhi luccicanti puntati su di me, come se avesse sempre saputo. Come se fosse stato un ritorno dopo tanto tempo e tanta distanza.

C’era anche quel gusto, quel sapore così unico di cui sono impregnate le stazioni.

– Che intendi?
– Parlo dell’odore.
– Che odore?
– Sì, quel misto di ruggine, sale, plastica bruciata e gomma da masticare. Di attesa. Di anni accumulati negli angoli assieme alla polvere, di vita trascorsa lontano dalle mani di chi resta. Il treno ci prova, ce la mette tutta per far capire che il senso delle stazioni è tutto nel ritorno.

Le stazioni, i treni, i viaggi, appartengono solo a chi ritorna.

– Questo perché il ritorno è il senso di ogni viaggio.
– Sai, a volte, prima di dormire, ad occhi chiusi, mi sembra di vedere il momento esatto in cui l’ho perduta. E quando apro gli occhi continuo a perderla.

Nell’attesa di quell’alba, sulle scale della stazione, mentre la città riprende il suo passo e la notte non è ancora finita.

È lì che credo di averla perduta. Nella la folla di un mercato, tra il fiume e la ferrovia, mentre attraversavamo il parco, o il ponte. Sì sarà successo lì, mentre ero distratto. Perché, sono sicuro, devo essermi distratto, devo aver guardato altrove. E guardando altrove l’ho perduta. Ancora oggi qualcosa dentro mi dice che lei è rimasta lì, che ci siamo perduti in qualche modo, e che lei è rimasta lì. E deve esserci ancora. Da qualche parte. Lei è ancora laggiù. Mentre io continuo ad aspettarla. Ho provato a cercarla, sai? Ma come fai a ritrovare una singola persona in un mondo come questo. Ci siamo separati sotto le nuvole di un cielo indeciso di quale stagione vivere. Ed anche una volta tornato da dove venivo ho continuato a vederla in ogni riflesso, vicina a me. Ma non potevo toccarla, né parlarci, come in quei sogni che non riesci a svegliarti e ti gonfiano la gola di angoscia.

È stato come inseguirsi, capisci? La vedevo ovunque ma non riuscivo a trattenerla, a fermarla, nemmeno a parlarle.

Volevo solo chiederle come stesse, solo questo, davvero.

Come stai? –le avrei chiesto- Come ti senti oggi?
Come si vive fra quelle strade che conoscono a malapena il tuo nome, come si vive quando scegli l’esilio e se da così lontano si riesce a tornare.

Forse lei non sa tornare.

Vorrei fosse possibile aiutarla, vorrei farle vedere come si fa, avrei voluto mostrarle il modo.

Non certo quello giusto, solo il mio. Perché io so farlo, una volta ci sono riuscito.

Però so che non può. Ormai cammina laggiù, persa da qualche parte fra quelle strade.

Comunque spero che la vita che ha scelto le porti tutta la bellezza ed sorrisi che le sono dovuti. Spero che nel suo percorso impari finalmente come tornare. Anche se non da me. Perché l’ho amata davvero, come mai prima era capitato. Se le sue ultime parole dicevano il vero, vorrei che non sentisse più tutto quel vuoto. Perché il vuoto ti succhia via l’anima, sai?

Tu sei seduto e non puoi muoverti mentre senti il petto svuotarsi così velocemente da restare senza fiato, e fatichi anche a respirare mentre il resto perde valore: perché sei concentrato con tutto te stesso per restare vivo, per continuare a respirare. E appena ti fermi ti rendi conto che il tuo vuoto sei solo tu, ma questo non puoi accettarlo, che non è una forza misteriosa a succhiarti l’anima dal petto, sei ancora una volta tu che cerchi di strapparla via, di sputarla fuori con ogni soffio e a tirarla dentro di nuovo ad ogni fiato.

È questo a rendere infinita quella lotta che ti lascia esausto e sfinito la sera.

Ecco… vorrei non provasse tutto questo, vorrei dirle che andrà tutto bene, che anche dovesse cadere in ginocchio, da me non avrà nessuna predica sulle sue scelte, ma acqua da bere e un posto in cui riposare.

– Vi siete più incontrati?
– No. Non ci siamo più sentiti né visti. Solo qualche informazione rosicchiata qua e là. Io non ho mai chiesto e lei non ha più detto e viceversa. Va bene così.

E’ passato del tempo oramai, a sufficienza.
Dopo un sospiro, aggiunse:

– Che sia stato amore o no, oggi, non ha più importanza, per me è valsa la pena respirarne ogni singolo momento. E nulla cambierei.

Il vecchio lo guardò con affetto – Vedi, Andrea, succede che ci si perda. Più spesso di quello che credi. Succede che ci si perda fra le curve del tempo, anche con chi non avremmo mai pensato. Lungo il cammino accumuliamo false partenze, rincorse, vicoli ciechi e ancora momenti sbagliati e mancati incontri, di quelli che riesci a sfiorarti per un istante. E a volte quell’istante può valere una vita, può valere il viaggio. Crescite diverse, differenti velocità, con ogni tempo, sotto ogni cielo. Quello che mi sono sempre chiesto è quanto ci vuole per riuscire a camminare fianco a fianco. Quanto ci vuole, cosa occorre per stare vicini senza soffrire il disagio ed il dolore di vedersi allontanare l’un l’altro. Ai più fortunati capita di riuscire al primo colpo e sono percorsi che hanno del miracoloso. Altri compiono dei giri immensi per ritrovarsi, pur di sfiorarsi ancora. Allora mi rispondo che forse la vita non è altro che questo, un immenso sciamare di persone, ognuno a cercare la velocità giusta per camminare vicini.

Per non perdersi più.
Per non allontanarsi più.

– Ci vuole solo tempo.

Disse il ragazzo voltandosi verso la finestra di nuovo. Guardando le strade si accorse che il buio aveva iniziato a colorare le strade di luci e lampadine ad incandescenza. Una lacrima solitaria gli divise la guancia a metà.

Socchiuse gli occhi, tirò su col naso e cambiò discorso:

– Facciamolo e basta…
– Mi dispiace ragazzo.
– Non è vero.

L’anziano sparò.

Un colpo solo.

Ed una pioggia rossa di ultimi pensieri colorò il lastricato di piazza Carlo Felice.


freccia sinistrafreccia


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