Numero 24

L’aperitivo

di Jack Leone

 

L'orizzonte di Andrea Bondini
“L’orizzonte” di Andrea Bondini

-Am.

Tutto quello che mi serve nella vita finisce in –am. Tutto quello che chiedo alla vita deve finire in – am. Alprazolam, bromazepam, clonazepam, lorazepam, oxazepam e diazepam.

-Am è la molecola che più preferisco.

C’è chi sgrana gli occhi appena la invochi, chi timidamente abbassa lo sguardo. Tana! Chi s’innervosisce e chi, per l’appunto, si ricorda dell’ora della pillola. Chi si incazza, chi ha scoperto un nuovo compagno di passione e di travaglio, per molti l’unico “migliore amico”. Pronunci quella sillaba e c’è chi ti capisce, chi ti sfinisce.

Con il tovagliolo mi pulisco la bocca. Chiedo educatamente scusa, mi alzo per andare un attimo alla toilette. Frugo nelle tasche del pantalone. Niente. Guardo nel taschino interno alla giacca scamosciata ed eccola. Al tatto mi rassicuro, mi rilasso. Espiro. Provo un senso di pace. Ora mi faccio. È stato il flacone che si è nascosto dietro al portafogli, contenente solo una banconota da dieci euro ed un santino della Santa Vergine. In un giorno qualsiasi del passato di cui non ricordi assolutamente alcun dettaglio, qualcuno te lo aveva messo in mano. Non hai mai più osato buttarlo via. Scaramanzia, ti sei detto. Non si sa mai. Ed è proprio così che hai iniziato a credere. A cosa, ancora non lo hai definito.

Molti definiscono la mia bella e sterile molecola di -am con ben altri nomi. Uno fra tutti, lo Xanax. Come ogni cosa, anche per me c’è stato un inizio. Lo Xanax, per l’appunto. Inquietudine, particolare azione sulle inibizioni, tachicardia, sudorazione, attacchi di panico, respirazione sregolata e accelerata, coliche continue, proprio lì dove l’ansia si va a somatizzare e trova il suo bersaglio.

Tutto questo finché, poi, una sera di novembre, a cena è arrivato zio. Sì, proprio un familiare. Il fratello di mia madre. Insomma una persona cara, no? Sì, “amica”. Mi ha consigliato il Lexotan. Il sostantivo ha avuto del magico. I miei occhi si sono sgranati, le guance hanno ripreso il loro colorito. Parola del Signore, mi si è aperto un mondo. All’ansia e alla depressione, si sono aggiunti i disturbi ossessivi compulsivi. L’età è compresa è tra i 21 e i 25 anni. Di fatto, gli attacchi di panico la fanno da padrona e si son fatti manifesti con il mio ingresso all’università. Non sopportavo più l’idea che, il giorno dell’esame, un coglione di assistente potesse giudicarmi con sole tre semplici domande. Lui, una decina circa di anni più grande di me ed una forma precoce di calvizia come unico pensiero, aveva la faccia del masturbatore compulsivo di libri di diritto privato e di una cosa strana che hanno sempre chiamato sociologia. Non so perché. C’è chi gode per una leccata di palle e chi al primo bacio tanto sperato; lui nel solo sentire i sostantivi obbligazione e globalizzazione. Risposta: certamente, oggigiorno, allepoca della crisi, lo sguardo sulla religione che noi abbiamo è da considerarsi come momento catartico nellazione politica dei Paesi in via di sviluppo. Pertanto l’avevo provata e riprovata a lungo seduto dinnanzi allo specchio del bagno di casa. Ho ripetuto a pappagallo, alienandomi dal vero apprendere. Cogito Ergo Sum. Ed ora, paradossalmente solo, dinnanzi a lui, mi rendo conto che ho aperto bocca per non dire assolutamente un cazzo. Compiaciuto, mi scruta, riflette. Ebbene sí. Egli appartiene alla categoria di quelli che credono di poter permettersi di riflettere. Non ho nulla in contrario. Lo fisso. L’aria saccente, con l’indice destro egli ricalibra i sudici occhiali da vista, scivolati sulla punta del naso. Oltre il colletto della camicia, si intravede una canottiera giallognola. Mi incita a sostenere il suo sguardo. Ora percepisco nitidamente il suo pensiero. Ha della stoffa il ragazzo, mormora nella bottega retrostante le sue pupille. Trenta. Arrivederci. E stop. Questa la versione buona. Insomma, quando le cose girano come dovrebbero e si è soddisfatti di una buona scopata. Ma non dobbiamo dimenticarci che si tratta di un esame fondato sul nulla infinito. Quello più assoluto. Quindi, l’esame deve per forza andare male. E così mi ero chinato sui libri volenteroso e speranzoso. Mesi di concentrazione e di nauseabondi gesti ripetuti. Ma ho studiato tanto, la prego. Ho divorato libri, consumato polpastrelli, il conoscibile l’ho plasmato a mia immagine e somiglianza. Ed invece, tre sole domande. Torni la prossima volta. Tre domande no, non posso sopportarle. L’ho preso per il bavero, l’ho alzato da terra, ho chiesto, secondo alcuni preteso, che me ne facesse un’ultima. Me l’ha fatta. Ed è così che ho iniziato a farmi quindici gocce giornaliere di Rivotril.

Poi, è arrivata la calura estiva. Afosa ed umida, come l’appiccicume sotto la suola delle scarpe una volta varcata l’ingresso del McDonald sotto casa. Insopportabile come il molliccio del cono gelato, neanche il tempo di scartarlo dalla propria confezione. La fiacca e la difficoltà nell’alzarsi dalla tazza del cesso il giorno di ferragosto. Apatia precognitiva di un avvenire che sapevo di non riuscire minimamente a pensare. È allora che, irruento come un tuono, il re incontrastato delle molecole illusorie e pacificatorie mi è apparso dinnanzi. Tavor. Finalmente, con sollievo, il suo nome mi è giunto all’orecchio. Questi, sempre fedelmente accompagnato dalle sue guardie del corpo, Limbitryl e Serpax, si erge ormai incontrastato sul mio comodino, dinnanzi alla sveglia che suona sempre ed inesorabilmente le sette meno un quarto. La triade, ormai, veglia giorno e notte sulla mia apatia. Mi hanno detto di smettere. Mi hanno detto che mai nessun principe verrà per me. Rischio di darla vinta alla strega e alla sua maledetta mela. Una mela succosa, gustosa. La mia molecola di –am è la mia regina. È divina.

Oggi convivo con la paroxetina. Tra le venti e le sessanta ore di accumulo per una corretta funzione ansiolitica, con forti indicazioni di sedazione ipnotica, anticonvulsiva, miorilassante. Un tocca sana per le mie fobie sociali. Io sto bene. Ma per stare tranquilli mi consigliano di continuare a prender le gocce. È cosa scontata, le mie boccette difficilmente se ne andranno via. Ormai sono parte integrante di me, profilassi del quotidiano, come il primo bicchiere di acqua fresca alla mattina che va giù e ti ricorda, ancora una volta, che sei vivo. I sensi ancora intorpiditi, i boxer che stringono sotto l’inguine, la guancia ancora odorante di salivazione notturna. Amo sentirmi così, impotente. Certamente, ho continuato a prenderle. L’ho sempre fatto e non mi sono mai opposto. Sono conscio che qualcuno mi vede come “strano”. Quello che mi chiedo è se tutti loro, lì fuori, non lo siano anch’essi. E continuo con il domandarmi se costoro hanno mai provato a non rifugiarsi dietro a quello specchio, ma a guardarsi nella loro integrità. Se hanno mai imparato ad assaporare questo bicchiere di chablis. Una esplosione fredda e ferrosa, minerale, che viene a raschiare la gola, molto lentamente. Con gusto.

– È un ottima annata per lo chablis, mi guarda dritto negli occhi.
– È un vino bianco del nord della Borgogna, lo sai? Esco con Lera, apprendista sommelier ed ex-fotomodella senza titolo di studio, da circa due mesi. Ci siamo piaciuti immediatamente. Al primo sguardo, come si suol dire. Insomma, la prima sera abbiamo direttamente scopato.
– È uno chardonnay con radici ben salde nel terreno, precisa, mentre arcua i palmi delle mani e con le dita scava nell’aria circostante
– Noi, in Francia, lo chiamiamo pietra focaia, aggiunge. Sarà. Rifletto. Non riesco ad immaginarmi il vitigno. Da troppo tempo ormai mi son  scordato come si sogna. Non conosco la Borgogna. E non penso ci andrò mai. Ho guardato il fondo color piscio del mio calice e ho buttato giù tutto di un sorso.
– È ottimo, rispondo io. Accenno un sorriso. Sono felice. Questa sera ho optato per un aperitivo in compagnia.


freccia sinistrafreccia


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