Numero 24

Pareti

di Giampaolo Giudice

 

Riquet di Philippe J
“Riquet” di Philippe J

Insomma; ci sono queste pareti alte, scrostate e tutte coperte di foglie colorate e ramoscelli ritorti; alcuni secchi, altri coperti di verdame vario e rampicante. Le ampie crepe lungo la murata, di tanto in tanto, si stringono in un abbraccio di calce e spogliano la parete dall’intonaco, lasciando intravedere i mattoni nella nudità svelata del loro rosso polveroso e logoro.

Roba che fa sentire al sicuro. Le pareti ed i muri alti, dico. Sul serio. Mica come stare nel prato fra la camera e la murata. Assolutamente no. Lì ci sono le grida, è laggiù che vanno a morire i sogni. Dicono sia un posto infestato, ed io gli credo, per me hanno ragione.

Ma tu non mi credi, lo so, e a me non importa.

Hai idea di che diavolo di casino fa un sogno quando va a morire? No, tu non riesci a sentirlo; nessuno sente i propri quando muoiono. E sai perché? Lo sai? Perché sei già di spalle, perché hai le spalle voltate, ecco perché.

I sogni restano in vita solo finché li guardi negli occhi, finché possono guardarti l’anima a loro volta. Come tutto ciò che esiste finché ci credi.

Comunque è il quel prato che vanno a crepare quando nessuno li guarda più con gli occhi di una volta. Si lasciano morire.

E tu puoi solo sentirli urlare, nel giardino, quando la notte viene a spegnere i colori. Dovresti sentirli per comprendere, potresti sentirli per comprendere se ti fermassi qui, stanotte.

Ma non resterai, e va bene, davvero; io continuerò a chiederlo comunque.

Non distrarti adesso, però, ti stavo raccontando degli spazi di mezzo, della sicurezza che ti trasmettono le pareti quando la sera scende come polvere buia, la luce del sole smette di far rumore negli occhi ed il giardino inizia ad urlare.

L’hai mai sentito urlare un giardino, tu?

Fa una confusione intollerabile, che viene voglia di coprirti le orecchie gridargli di finirla. Non riesci a concentrarti su nulla, non riesci a focalizzarti su un singolo lamento, per capire almeno quello che dice, ma nulla, picchi di grida indistinte.

Come quando nevica, mica riesci a seguire la caduta di un fiocco solo, o come quando ti fermi ad osservare l’ombra di un albero immerso nel vento: le foglie fanno un grosso baccano di ombre tutto per terra, come cani che abbaiano. Prova a farci caso la prossima volta che ti capita di stare sotto un albero immerso nel vento. Vedrai che latrati!

L’unica differenza è che in quel caso, quello della neve o delle ombre, è la frenesia a confonderti, mentre nel giardino delle urla è l’angoscia di non capire.

Per questo ci si sente al sicuro dentro queste pareti, per questo –credo- ci sono altre mura, scrostate di rosso e alte che non vedi oltre.

E fra quelle ed il tuoi occhi solo grida verdi nella notte.

Ma tu non mi credi, vero? O peggio, non capisci; non hai la minima idea di cosa stia parlando, o fingi che sia così.

Fingi di non capire.

Allora che ci fai qui?

Tu che puoi attraversare il giardino: cosa sei venuto a fare qui?

Vattene. Vai via, prima che faccia buio e ricomincino le grida.

Ma resta anche finché la luce fa rumore, che questa stanza sembra sconfinata quando sono da sola e comincia puntuale quella tempesta di voci.

A volte mi sento più forte, allora comincio ad urlare anche io, e vado alla finestra quando la sera si condensa sui vetri, ed urlo più forte di loro, finché non arrivano i demoni del sonno. Spalancano la porta e cominciano a mordermi finché la gola si asciuga e tutto intorno si spegne di un nero innaturale di pupille pesanti e suoni sfumati fino a diventare nulla, e poi alba, labbra secche e sapore di metallo in bocca.

II

Vorrei portarti via. Vorrei potessi venire con me.

Lo so: prima o poi mi scopriranno e non avrò più modo di venire qui a trovarti. Vieni con me.

Trattengo il fiato ad ogni passo che rimbalza nel corridoio, da dove vengo non puoi immaginare cosa fanno a quelli che lasciano il dormitorio come sto facendo io. Li portano nella stanza del terzo piano, dove sembra che le vespe ti divorino l’anima; e forse un po’ lo riescono a fare. Ma è questo posto, tutto questo posto a strappartene un pezzetto ogni giorno.

Ogni centimetro di queste stanze, di questi corridoi, è foderato, ricoperto dai brandelli delle anime che si sono avvicendate dietro queste finestre.

Io sto andando via, Irene.

Non ce la faccio più a stare qui, nessuno dovrebbe stare qui, non in queste condizioni. Lo sai che Carlo, quello della stanza vicino alla mia ha provato ad alzare la voce con uno degli inservienti, d’accordo, forse ha esagerato un po’ ed ha anche provato a colpirlo; ma aveva ragione, fidati, insomma l’hanno portato al terzo piano ed ora non si alza nemmeno più per pisciare. Vedi, restare qui è lasciarsi morire, lasciarsi uccidere giornalmente. E tu stai qui, e sembri comportati come se loro avessero ragione, come se tutto questo assurdo macchinario avesse senso. Per questo ti chiedo: vieni con me.

Ma non serve che ti parli in questo modo. Tu hai solo paura, e loro hanno qualcosa che ti fa sentire al sicuro. Poco importa che io ti ami, con ogni tuo terrore, con ogni mia rabbia. Nel tuo mondo non c’è posto per altro che non sia cieca paura; tanto da preferire queste pareti al pericolo di vivere. Sono riusciti ad ucciderti, o ci stanno riuscendo. Ma io mi rifiuto, perdonami se non sarò ancora qui quando verrà domani, per quanto mi spezzi il cuore, preferisco tentare. Per questo sono qui a chiedertelo un’ultima volta: vieni con me.

III

Lo sai bene, ragazzo mio, che non sono permesse queste fughe.

Non è permesso intrattenersi in relazioni di questo genere. Soprattutto fra una ossessiva ed un agitato come te. Quante volte ne abbiamo parlato? Non puoi.

Lo capisci questo? Non puoi andartene in giro come ti pare per l’ospedale, non puoi comportarti come se fossi il padrone qui, capisci? Non posso coprirti ad oltranza, non stavolta.

Guardami!

Il primario questa volta non ha voluto sentire scuse; ci ho provato in ogni modo a convincerlo che non sarebbe più capitato, che avresti imparato a controllarti.

Lo facciamo per voi. Per evitarvi inutili, e ulteriori, sofferenze.

Cerca di stare calmo, hai visto cosa hai fatto a Giorgio? Gli hai rotto il naso. Che ti aspettavi accadesse?

Stai tranquillo, ragazzo, ci vorrà solo un attimo.

IV

La Stampa
09 luglio 1975
Cronaca locale.
L’ospedale di via Giulio 22, in Torino, viene liberato completamente, destinato a diverso uso e ne inizia la sua ristrutturazione.

Era l’anno 1824, quando il Sovrano cercò un architetto che fosse capace ad inventare la casa di cura della follia di Torino e, siccome già l’architetto Giuseppe Talucchi, giovane trentenne stava costruendo l’ospedale San Luigi pensò che sarebbe stato opportuno affidare anche il progetto dell’ospedale dei pazzi al medesimo Talucchi il quale mentre costruiva in via Piave avrebbe potuto curare anche l’altra fabbrica che era lì vicino.

Oggi lascia l’edificio l’ultimo paziente, sottoposto a leucotomia nel 1958 e rimasto in stato di catatonia da allora.

Non ci sono familiari noti che possano occuparsene ed il primario ne ha disposto il trasferimento in struttura adeguata alla sua condizione.


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