Numero 24

Grappoli d’uva

di Donatello Cirone

 

Occhi d'Oriente di Andrea Bondini
“Occhi d’Oriente” di Andrea Bondini

Lontano dalla piazza, dal municipio e dal ventre gonfio della sindaca, una donna, che prima era stata una ragazza, ricordava quando, anni addietro, il cane di Gianni, suo fratello, morì impiccato con la sua stessa corda. Ricordava le mattine passate nella vigna del nonno e come la luce attraversava i grappoli d’uva e come quegli stessi raggi si frangevano sulle sue mani bianche, delicate. Ricordava le sue gambe lisce e come  i muscoli restavano aggrappati alle sue ossa forti. Quella donna ricordava e lo avrebbe fatto per tutta la giornata, poi sarebbe ritornata a casa e si sarebbe addormentata come tutte le sere, mano nella mano della sua compagna, serenamente, accennando un lieve sorriso un attimo prima del sopraggiungere del sonno.

Da una finestra che dava sulla piazza, Gaetano, il figlio dell’assessore alle pari opportunità,  vomitava il sushi vegano, ipocalorico e senza estrogeni del giorno prima. Gli occhi di Maria brillavano come spilli lucenti custoditi nel becco di una gazza in cerca di nido. Tiziano, chino, si inumidiva le labbra, si passava la mano destra fra i capelli oleosi e sporchi, digrignava i denti, mugolava. Godeva.
La piazza era assolata, ferma, irrimediabilmente compromessa dal gusto NewBaroccAge della giunta precedente. Una piazza brutta, pavimentata da sampietrini scheggiati ospitava monumenti sgraziati. Sulla sua pavimentazione passeggiavano persone che avevano accettato la fine: bimbi aggressivi, madri vendicatrici, padri vili. Un lungo respiro di morte abbracciava quelle pareti e quelle colonne che ne delimitavano i confini. Tano, il milanese, così lo chiamavano, seduto sulle scale del comune, si fumava la sua sigaretta condita. PierLuca, il siciliano, invece, raccattava le carte portate dal vento, il silenzio si spingeva dentro le orecchie di Giacobbe che cantava fischiettando l’inno kazako. Il sole baciava la fronte di Ju, la più bella del paese, entrava dentro la sua finestra, procedeva lungo la stanza e la trovava sul letto ancora assonnata, un raggio le scottava le labbra e restava lì fino a sera, poi, la lasciava sola e triste, senza nessuno da amare, senza nessuno da accarezzare senza nessuno che potesse regalarle gioia e rabbia, senza nessuno che la facesse godere come meritava, come meritava la sua giovinezza, il suo corpo d’ambra, un corpo profumato di vaniglia e di sudore, saliva e miele.  Un corpo da baciare fino a consumarsi l’anima e le labbra. Ju era sola come lo erano tutti del resto in quel paesino di pietre e di calce. Ju non voleva scappare, non voleva andare via, non sapeva cosa voleva, non sapeva nulla Ju, e non lo avrebbe mai saputo, forse. Non si sarebbe mai allontanata dal ritratto appeso in cucina dei suoi genitori. Non si sarebbe mai allontanata dal suo armadio, dai suoi libri, dalla credenza, dal suo letto comodo. Sarebbe rimasta lì a sognare, forse, di andare ma con la certezza che non avrebbe mai lasciato il suo nido, le viuzze strette che portavano tutte alla piazza e all’unica vigna del paese, quella di suo nonno, carica di grappoli d’uva attraversati tutti da raggi di sole delicati che si frangevano sulle sue mani bianche, delicate.


freccia sinistrafreccia


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