Numero 23

Battersea Park

di Giampaolo Giudice

 

Tempo binario di Lina Liebe
Tempo binario di Lina Liebe

Non so cosa sia l’amore, se ne parla così tanto, ma io non lo so. E’ una parola complessa, non complicata. Piena di curve e pieghe, salite ripide e discese vertiginose insieme a vicoli ciechi e praterie sconfinate.
Credo comunque che si avvicini molto al guardarla.
Dell’amore so solo questo.
Che forse si tratta di quella sensazione di perfezione presente, come quando guardi un fiore e non vuoi coglierlo, perché il suo posto, perché la sua bellezza è nel restare lì  dov’è. Allora sì. Allora lo so; allora ho amato.
Ed ho amato ogni singola piega del suo corpo, ogni segno sulla pelle, ogni minima perfezione; perfino e soprattutto quelle che lei guardava con disprezzo allo specchio.
Tutta quella meraviglia, quella stupefacente scultura di carne imperfetta conquistò il mio stupore. Anche se la totale attenzione venne sequestrata da quel suo mondo strano ed inesplorato, tanto che ogni giorno era l’occasione di scoprirne un po’ di più.
La Shangri-La. Un’anima turchese e traslucida a passeggio per colline fiorite.
Dio, quanto splendore. Una luce mai vista, colori conosciuti e sorprendenti.
Certo, da dentro lei non riusciva a vederla. Che peccato. Non ne distingueva nemmeno i contorni, impegnata com’era nell’accanita lotta contro se stessa. E sappiamo bene come ci cambino lo sguardo questo genere di scontri quando si tratta di guardare dentro.

 Quel che amavo di lei era visibile al buio ed invisibile nello specchio.
Come quella notte in cui me la ritrovai vicina.
Credo mi svegliai perché sentii un movimento nel letto, la sentii muoversi; come si fosse appena infilata sotto le coperte. Così schiusi gli occhi e mi resi conto che era presto, il sole era solo una pallida aspettativa in un cielo ancora scuro se pure macchiato dalle prime luci timide dell’alba.
E’ stato in quel momento, nell’istante di fioca oscurità precedente la luce che la vidi davvero.
Vestita solo della sua pelle tirare su di se le lenzuola e sdraiarsi vicino a me.
E restò lì; a guardarmi svegliare. Con quegli occhi in cui sembravano alternarsi qualcosa di simile all’amore ed un’ombra che ricordava da vicino la disperazione, la tristezza di chi sta scontando una pena, un inferno auto inflitto per colpe da venire, una specie di curiosa punizione per essere viva.
Si sdraiò vicina a me. Restammo lì, senza dire nulla, sdraiati e vicini, immersi e sospesi in quello spazio fra la il giorno e la notte, in quell’inferno scelto come custode di un’anima turchese e fiorita.

 C’ero io, a fare finta di dormire, per non interrompere la naturalezza di quei movimenti, la danza di quel corpo nella notte. E c’era lei, stesa accanto a me, nuda e perfetta.
Una goccia di infinito, una scheggia di universo, un sospiro di dio; donato ai miei occhi.
Certo, avevo avuto modo di vederlo altre volte, il suo corpo nudo dico, ma ogni volta era una scoperta, sembrava sempre differente pur restando uguale.
Con ogni luce nascevano ombre nuove, scoprivo tensioni diverse sulla pelle, offerta in dono ai miei sensi.
La sua pelle era molto per me, la sua pelle era tutto.
La sua pelle ed il suo corpo.
La sua pelle ed il suo corpo nudo, per me, in quel letto scaldato dai respiri; e da tutte quelle parole da bambini che si dicono quando la notte tiene gli amanti stretti nelle sue braccia.

 La sua pelle era tutto per me.

 Forse mi sono perso da qualche parte, col tempo. Perché se chiudo gli occhi, oggi, vedo il ponte, la strada, il parco e posso quasi sentire ancora l’odore della moquette e quello della sua camera; e non riesco a ricordare molto altro. Solo qualche dettaglio.
Alcune sensazioni però non le posso proprio dimenticare; come il rumore dei narcisi che sbocciavano sul suo davanzale.
Perché sì, se c’è silenzio a sufficienza, e se presti la giusta attenzione, puoi riuscire a sentire il rumore della vita che scorre, che evolve, che continua il suo percorso.
Se impari a conoscere il silenzio come si deve, puoi ascoltare i passi della vita sul tempo che scorre.

 E nel silenzio mischiammo pelle ed inchiostro, ed è quella notte a tormentarmi da allora.
Ci sono momenti in cui mi sembra di vederla riflessa nelle vetrine dei negozi, che mi cerca; così mi volto di scatto. Ma non la trovo. Non la trovo mai. Non la troverò più. Non posso trovarla più.

 Lei non è più qui. Ma la sua pelle doveva restare mia per sempre.
La sua pelle doveva restare mia. Per questo l’ho portata con me, per questo l’ho uccisa.
Per questo le ho strappato la pelle. C’è stato un bel casino in giro quando se ne accorsero. Non capita tutti i giorni di trovare un cadavere dove giocano i bambini, lì, nel parco.
Pensavo che così sarebbe rimasta con me per sempre, per questo l’ho fatto. Pensavo che la sua pelle sarebbe rimasta mia.
Dio come amavo la sua pelle.

 Ma non è stato così. Non è bastato
E non riesco a non vederla in ogni riflesso, oggi.
Allora ho deciso di seguirla, di seguire quello che resta del suo ricordo e del suo profumo.
Di seguire la sua pelle, che pure ho tanto amato.

Questa lettera, datata 8 novembre 1982, era nella tasca dei pantaloni di un giovane trovato impiccato ad un albero nei pressi del laghetto di Battersea Park. Poco più di una settimana dopo il ritrovamento del corpo di una ragazza brutalmente assassinata sulle sponde dello stesso specchio d’acqua.


freccia sinistrafreccia


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