Un sorriso fra i vetri semiopachi
di Donatello Cirone

Correva, correva senza avere una meta, un posto dove andare. Quel pomeriggio Sandro portava il suo corpo verso una nuova direzione, verso un obiettivo ancora da trovare, si lasciava alle spalle case di cemento e sabbia di mare, corrose dal sale, gomiti sbucciati, lamenti e sorrisi, clacson impazziti e madri stanche, si lasciava alle spalle la sveglia mai suonata, il giardino abbandonato della signora Maura. Quel pomeriggio Sandro volevo solo correre, un Forrest senza barba, senza magia, normale. Sandro era eccezionalmente normale, altezza media, peso medio, intelligenza media. Un diploma, una laurea trovata nel Dash, un master preso con i punti carburante e una fidanzata trovata per caso.
Correva Sandro, sudava e correva, si stancava, si dimenava un altro Sandro dentro al suo petto, un altro Sandro incatenato, un Sandro crocifisso in petto che piangeva, che non aveva speranze, che non aveva voglie, che viveva per il solo gusto di desiderare la fuga. Aspettava un imprevisto Sandro anche quel pomeriggio, mentre correva, magari un legamento reciso come una rosa gialla, una caviglia slogata, una buca non vista. Un imprevisto, aspettava quello Sandro. Superò il parco dove aveva conosciuto Ernest con leggiadria, la casa di Andrea, il suo più caro amico, poi Piazza Tarso dove aveva bevuto la sua prima birra, il ponte di Tito dove era morto Ernesto il suo migliore amico, passò il quartiere dei francesi, poi al Bar dell’angolo fra Via Saulo e Viale Damasco, attraverso le vetrate intravide Barbara, la sua prima fidanzatina. Si erano conosciuti in prima media, lei aveva le trecce e una gonnellina a pois gialli, sorrideva ed era la cosa più bella che lui avesse mai visto. Per tutta la prima media non aveva fatto altro che pensare a lei, al suo viso, alle sue manine così delicate, a quelle sue scarpette blu, a come lei gli dichiarò il suo amore quasi alla fine della terza media, al loro primo bacio dato in cortile nascosti dietro la macchina del preside, al secondo bacio dato sul bus, il 5R. Ripensò a quando dopo un po’ di anni si ritrovarono all’università, a quanto fu bello rivedere il suo sorriso, le sue mani delicate, le sue nuove scarpette blu, a quanto fu bello farci, finalmente, l’amore e a quanto fu bello vedere per la prima volta il suo sorriso puro, senza gonnelline e scarpette blu, a quanto fu bello, incredibilmente bello, soffrire per il suo no.
Era lì Sandro, appeso ai suoi ricordi, in strada, sudato e stanco a fissare attraverso quelle vetrate il dolce sorriso di Barbara, a specchiarsi nel riflesso di quei vetri semiopachi. Barbara sembrava la stessa. Le solite trecce, un vestitino rosso, seduta al tavolino sorseggiava qualcosa, lo faceva sempre allo stesso modo, non era cambiata nemmeno lei, pensava. Si avvicinò ancora di più alla vetrata e alla sua destra, prima coperta dal muro, sedeva una bimba, identica a lei, con delle lunghe trecce, un vestito a pois gialli, un bel paio di scarpette blu luccicanti e un sorriso stampato che tracimava sul viso di Barbara illuminandolo ancora di più.
Era lì Sandro, appeso ai suoi ricordi, in strada, sudato e stanco a specchiarsi nel riflesso di quei vetri semiopachi, a fissarsi le mani nodose, il ventre gonfio, il sorriso assente. Riguardò verso quel tavolino, Barbara sorrideva, anche quello lo faceva come l’aveva sempre fatto. Per un momento lo sguardo di Sandro incrociò il suo, poi quello della bimba alla sua destra che gli sorrise, istintivamente Sandro fece lo stesso, sorrise, senza pensarci sorrise, poi ripartì.